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La questione palestinese secondo mons. Robert Stern.
Di Caius - 02/02/2007 - Attualità - 1310 visite - 0 commenti
«Ci giungono ancora le implorazioni di tanti e tanti profughi, di ogni età e condizione, costretti dalla recente guerra a vivere in esilio, sparsi in campi di concentramento, esposti alla fame, alle epidemie e ai pericoli di ogni genere». Papa Pio XII, nella sua lettera enciclica Redemptoris nostri del venerdì santo del 1949, dipingeva così la situazione dei palestinesi dopo il primo conflitto arabo-israeliano successivo alla nascita dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948. La Pontificia Missione per la Palestina nasce così, il 18 giugno del 1949, con l’intento di dirigere e coordinare tutte le organizzazioni e associazioni cattoliche impegnate negli aiuti alla Terra Santa. Per i venticinque anni d’attività della Missione Pontificia, nel 1974, papa Paolo VI ne parlò come «uno dei segni più chiari della preoccupazione della Santa Sede per la sorte dei palestinesi, particolarmente a noi cari perché sono popolazione della Terra Santa, contano fedeli seguaci di Cristo e sono stati e sono tuttora così tragicamente provati». Monsignor Robert L. Stern, archimandrita del patriarcato greco-cattolico di Gerusalemme, ebreo, presiede dal 1987, per nomina del papa, questa speciale agenzia della Santa Sede, che ha la sede principale a New York, e uffici in Vaticano, a Gerusalemme, Beirut, Amman, e che oggi stende la sua azione caritatevole e pastorale tra Palestina, Israele, Libano, Siria, Giordania e Iraq. Così ci racconta del suo lavoro, e della carità del papa per i palestinesi. Quale è la Palestina che la Missione Pontificia aiuta? ROBERT L. STERN: Da quando, nel 1967, Israele ha preso il controllo politico della Palestina, c’è una popolazione intera che vive sotto occupazione militare di un altro Paese. E l’Autorità nazionale palestinese non è un vero governo. La Pontificia Missione sta prestando il suo servizio in una situazione d’inadeguatezza delle istituzioni governative cui di solito la gente si rivolge. E gli enti pubblici, che pure esistono, non funzionano come di norma. Allora, necessariamente, oltre al sostegno alle Chiese e alle Comunità cristiane presenti in Terra Santa, proviamo a fare qualcosa di buono per il popolo. Poveri tra i poveri nel Palestine Camp, in Siria: i beduini del deserto si adattano a vivere in accampamenti ai margini dei campi profughi Può suggerire esempi recenti di aiuto? STERN: La nostra Missione ha operato nelle zone di Betlemme, Beit Jala, Beit Sahour, e anche a nord di Gerusalemme, a Ramallah, dove c’era una presenza cristiana. Ma il nostro servizio non è solo per i cristiani. Ad esempio, mentre la Chiesa locale favorisce la costruzione di nuovi appartamenti, da anni la Pontificia Missione ripara le case distrutte, soprattutto nell’area della città vecchia di Gerusalemme dove sopravvive una fetta di popolazione palestinese indigente. La tensione tra israeliani e palestinesi ha prodotto tanta povertà e così noi oggi appoggiamo iniziative idonee a creare posti di lavoro, soprattutto sovvenzionando quelle opere che necessitano di tanti operai e quindi sfamano più famiglie… Riparare case non va in un certo senso al di là della attività originale della vostra Missione? STERN: Ma è assolutamente necessario aiutare questa povera gente. Quando la nostra Missione fu fondata, lo scopo primario era la mobilitazione dell’aiuto del mondo cattolico internazionale per la Terra Santa, e il coordinamento in Terra Santa di tutti i settori della Chiesa – i patriarchi, i vescovi, i religiosi e le religiose, le associazioni laicali… Nel 1949, nessuno si occupava di questo coordinamento, oggi siamo molti di più. Chi sono i destinatari principali della vostra azione? STERN: Tutti coloro che si trovano nella necessità. Statisticamente non sono gli ebrei, per i quali esiste una serie numerosissima di enti di sostegno. La stragrande maggioranza dei musulmani invece – dato che i cristiani rappresentano un numero esiguo – sono afflitti dalla povertà, sebbene esistano comunque moltissime istituzioni caritatevoli musulmane. Allora… il criterio adottato dalla nostra Missione è di portare aiuto alle zone dove sono rimasti ancora dei cristiani, ma senza mai escludere dall’aiuto gli altri, come i musulmani. L’esempio calzante è l’Università di Betlemme – fondata con un accordo tra la Congregazione per le Chiese orientali e i Fratelli delle scuole cristiane – qui nota come “l’università del Vaticano”. Circa il 33 per cento degli studenti sono cristiani, gli altri sono tutti musulmani. Noi diciamo che “non il credo ma il bisogno” guida la carità che facciamo a nome del papa in Terra Santa. Come può descrivere la povertà in Palestina? STERN: A Gaza gran parte della popolazione vive ancora nei campi profughi, amministrati dalle Nazioni Unite. I campi sono come un vecchio villaggio del tutto privo di organizzazione. La gente abita in case anguste fatte di blocchi di cemento, non esistono vere e proprie strade, ma percorsi più o meno disagevoli, e tutti vivono accalcati. In una sola stanza possono vivere anche dodici persone, perché i figli sono numerosi. La libertà di movimento è limitata. Si vive dei contributi delle Nazioni Unite. Manca il lavoro. Quando uno di questi numerosi figli diventa maggiorenne e vuole sposarsi, deve avere prima un luogo dove andare, e uno stipendio. Ma non c’è né l’uno né l’altro, per chi vive nel campo. Si può solo aggiungere alla casa d’origine una stanza in più, fatta di mattoni. Stanza che s’affaccerà sempre sulle solite strade sporche, e sui campi che non conoscono facile accesso all’acqua pulita e dove non c’è mai ordine. Così è triste vivere. Due anni fa abbiamo costruito un piccolo parco giochi per i bambini di Gaza. Avreste dovuto vedere la loro curiosità, gli sguardi. In vita loro era la prima volta che qualcuno gli dava qualcosa per giocare. Loro che sono abituati a ricevere il minimo per sopravvivere, abituati a vivere al peggio. Ci mancano le parole per spiegare la difficoltà della vita a Gaza. E mi permetta di aggiungere qualcosa cui tengo. Prego. STERN: C’è chi si pone la domanda retorica del perché ragazzi e ragazze della Palestina accettano di farsi esplodere come martiri. Non possono studiare, non possono viaggiare, non possono lavorare, non possono avere una famiglia, vivono nell’assurdo, non hanno altra speranza che annientarsi in un momento di gloria per la loro religione. Tre generazioni nel campo di Gaza, in Giordania, in attesa che cambi qualcosa Io non sono un politico né un economista, ma posso almeno immaginare che il giorno in cui avremo da offrire lavoro a questi ragazzi musulmani, avremo sconvolto i piani dei terroristi: con una onesta paga settimanale e la possibilità di uscire con la propria ragazza. Sono convinto, nonostante la loro retorica molto negativa, che i responsabili di Hamas comprendono perfettamente questa situazione. Vogliono un futuro per il loro popolo, come tutti coloro che gestiscono la politica. E l’aspetto positivo della loro politica è la quantità di servizi sociali e di benessere che hanno cercato di dare al loro popolo. Ciò resta vero, nonostante le parole che usano e gli slogan che, secondo la retorica araba, urlano. Lei considera un errore interrompere i flussi dell’aiuto economico internazionale alla Palestina come forma di pressione sul governo di Hamas. STERN: Ripeto che non intendo formulare un giudizio politico. La mia impressione è precisamente che così facendo si regala al popolo – e ai giovani – altra disperazione che può essere sfruttata dai terroristi. L’obiettivo conclamato da chi vuole l’embargo degli aiuti è di forzare, nel breve termine, il governo attuale verso un cambiamento di direzione politica, lasciando come obiettivo di lungo termine quello di arrivare alla pace... È uno sbaglio totale. Primo, bloccare i fondi è un castigo per il popolo, mai per la leadership, e il popolo già soffre troppo. Secondo, per la mentalità degli arabi, noi stiamo offendendo il loro senso d’onore, la loro dignità, con tutte le conseguenze che ne derivano. L’embargo è al cento per cento controproducente. Sono convinto, e di certo spero, che attraverso la mutua collaborazione si potrà raggiungere il risultato di guadagnare il consenso di Hamas. Voi avete portato aiuto anche nei campi profughi in Libano. Qual è la situazione? STERN: È diversa ma egualmente penosa. I palestinesi rifugiati in Libano vivono tutti nei campi gestiti dalle Nazioni Unite. Le difficoltà vengono anche dal tradizionale e ormai scricchiolante bilanciamento dei poteri costituzionali vigente in Libano tra cristiani maroniti, musulmani sunniti e musulmani sciiti, basato sulle quote rispettive di popolazione. Ora, nessuno di questi tre gruppi vuole che una numerosa componente palestinese entri in gioco, e tutti sono d’accordo nel dire che la prospettiva per questi rifugiati è solo quella di tornarsene al proprio Paese. Ma questo è ora praticamente impossibile. Così a questa povera gente non resta che il campo profughi, cioè vivere in prigione. Sogno il giorno in cui ci sarà uno Stato palestinese universalmente riconosciuto, e forse tutta questa povera gente potrà avere un passaporto palestinese, al fine di ottenere un visto di soggiorno per lavoro in Libano. Perché, stando così le cose, comunque il Libano non accetterà mai queste persone come propri cittadini. Oggi sono rifugiati nei campi profughi oltre duecentomila musulmani palestinesi, armati, in isolamento completo, e impossibilitati ad andare in Palestina. È una vita insopportabile, che li ha fatti incattivire, a ragione. I palestinesi vanno via oggi anche dall’Iraq. STERN: I palestinesi che lasciano l’Iraq non sono però così numerosi come gli iracheni che oggi sempre di più migrano verso la Giordania, la Siria e il Libano. E, in proporzione, a fuggire sono sempre di più i cristiani. Il direttore del nostro ufficio di Amman, che serve la Giordania e l’Iraq, mi ha riferito che vi è la possibilità concreta, sebbene manchino ancora dati ufficiali, che i rifugiati iracheni in Giordania arriveranno a essere milioni, su una popolazione giordana di circa 5 milioni. La nostra Missione Pontificia cerca di fare tutto il possibile per appoggiare la Chiesa locale e dare una mano a questi rifugiati. Normalmente aiutiamo chi vuole lasciare l’Iraq e andare in Europa, in America del nord o del sud, o in Australia… Nell’opera di carità in Palestina lei rappresenta il papa. C’è un fatto che ricorda in particolare? STERN: Papa Giovanni Paolo II è venuto in Terra Santa nel 2000. E in casi come questo al presidente della Pontificia Missione spettano anche dei piccoli privilegi, come partecipare da vicino a quanto accade. Ricordo in particolare la messa all’aperto che papa Wojtyla celebrò a Betlemme, davanti alla Basilica sorta dove è nato Gesù. A un certo punto, come accade ogni giorno, è salita dalla moschea vicina la voce del muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera. La voce era forte, diffusa con gli altoparlanti. Il Papa, in quel momento, s’è fermato, non ha alzato la voce per contrastare i diffusori, ma ha atteso. Fino alla fine dell’orazione musulmana. Poi ha ripreso la liturgia. È come se il Papa stesso ci avesse detto, in quel modo, che la comunità cristiana palestinese deve comprendere e rispettare i musulmani, che sono fratelli, e sperare e pregare che anche da parte loro arrivi comprensione. Il silenzio rispettoso del Papa è stata l’immagine della convivenza tra cristiani e musulmani in Palestina. (30Giorni).
 
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