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Riflessioni sul Concilio Vaticano II
Di Francesco Agnoli - 08/02/2010 - Religione - 1293 visite - 0 commenti

Il Concilio Vaticano II rimane, quarant’anni dopo, un evento che entusiasma e che divide. Se ne fa continuamente un gran parlare: i progressisti come il cardinal Martini, Mancuso, Melloni ecc. sembrano far risalire ad esso la nascita della Chiesa, ne invocano una più ampia e corretta attuazione e chiedono addirittura il Vaticano III, per aprirsi ancora di più al mondo e al pensiero moderno; il papa ribadisce che il Concilio Vaticano II non va separato da ciò che lo precede; mons. Fellay, superiore della Fraternità san Pio X, afferma di voler interpretare tale concilio alla luce della Tradizione, riservandosi anche di poter criticare alcuni passaggi ritenuti ambigui e alcuni documenti che considera almeno parzialmente in contrasto col magistero precedente (posizione questa già accettata dal papa per quanto riguarda gli statuti della comunità tradizionalista del “Buon pastore”, a cui è stato dato il permesso di criticare, con spirito costruttivo, alcuni passi conciliari controversi).

Personalmente non ho grande competenza per esprimermi, ma due concetti vorrei qui esporli, sperando siano utili al dibattito, e augurandomi di non dire sciocchezze troppo grosse (se lo farò, ci sarà certo qualcuno pronto, fraternamente, a correggermi). Ebbene, leggendo alcuni documenti del Concilio intravedo talora qualcosa che mi stupisce per eccesso di ottimismo. Il Concilio si aprì con le famose dichiarazioni di Giovanni XXIII, contro i “profeti di sventura”: Giovanni XXIII credeva fermamente che i nostri tempi fossero particolarmente favorevoli ad una nuova “primavera della Chiesa”, ad un “balzo innanzi”, ad una rinascita senza precedenti. Parlava apertamente di un “giorno foriero di luce splendidissima” di cui il Concilio rappresentava l’ “aurora”.

Si distaccava, in questo, dalla visione che avevano avuto Pio X e Pio XII, più inclini a scorgere nella contemporaneità un’epoca di progressivo e terribile allontanamento da Dio. Scriveva Giovanni XXII l’8 dicembre 1962, a chiusura della prima sessione del Concilio: “sarà veramente la nuova Pentecoste che farà fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza…sarà un nuovo balzo in avanti del Regno di Cristo nel mondo, un riaffermare in modo sempre più alto e suadente la lieta novella della Redenzione, l’annuncio luminoso della sovranità di Dio, della fratellanza umana nella carità…”. Purtroppo non è andata così, come ha notato anche il cardinal Biffi nelle sue recenti memorie, e se l’albero si vede dai frutti, oggi si può dire che molti segni dei tempi furono male interpretati. Dopo il Concilio migliaia e migliaia di sacerdoti lasciarono la veste, per sposarsi, o addirittura in seguito a crisi di fede. E il tempo non avrebbe mutato le cose.

Il pontificato di Paolo VI è stato su questo punto assai indicativo: il Montini fu infatti sovente portato a condividere l’ottimismo quasi utopico di Giovanni XXIII e a cercare nel rinnovamento pastorale, in una maggiore apertura al mondo, la via maestra per una nuova evangelizzazione; ma fu anche consapevole, in molte occasioni, e lo disse a gran voce, che invece della primavera, nella Chiesa, era arrivato l’inverno; che il fumo di Satana era entrato nel tempio di Dio. In lui convissero l’idea che il Concilio significasse un “primaverile risveglio d’immense energie spirituali e morali, quasi latenti nel seno della Chiesa”, insieme con profonde crisi interiori, di cui rendeva partecipe, tra gli altri, il cardinal Siri in lunghi colloqui privati e drammatici. E’ così che alcuni documenti del Concilio portano qua e là il segno di un certo ingenuo ottimismo, che, secondo padre Stanley Jaki, amico stimato di Benedetto XVI, secondo don Divo Barsotti e il riscoperto Romano Amerio, deriva da una sottovalutazione del peccato originale e della perfidia dello spirito del mondo, evangelicamente inteso. Questo ottimismo utopico, dicevo, lo si trova ad esempio all’inizio della Dichiarazione sulla libertà religiosa: “Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive”.

Nella “Gaudium e spes” invece si leggono frasi di tal genere: “Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà…numerosi sono perciò coloro che giungono a un più acuto senso di Dio…L’uomo d’oggi procede sulla strada di un più pieno sviluppo della sua personalità e di una progressiva scoperta e affermazione dei propri diritti”. Dichiarazioni analoghe, magari spesso limate e meglio specificate nei passaggi successivi, si trovano abbondantemente anche in altre encicliche pressoché contemporanee, prima tra tutte la Pacem in terris. Che male c’è, dirà qualcuno, ad essere ottimisti, a voler andare incontro al mondo in modo suadente e senza condanne altisonanti? Che male c’è a preferire “la medicina della misericordia piuttosto che della severità”, come disse sempre Giovanni XXIII, a puntare sull’ “aggiornamento”, piuttosto che sulla Tradizione?

In effetti a chi non piacerebbe, almeno apparentemente, un Cristo meno esigente, che fosse venuto a patti col mondo, che avesse dialogato con i suoi carnefici sino a convincerli, e che non chiedesse, anche ai suoi discepoli, di lottare contro il peccato, sino, se necessario, al sangue e al martirio? Che non ci avesse ricordato che “siete nel mondo, ma non del mondo”? Personalmente penso che la mancanza di realismo, di un sapiente equilibrio tra “severità” e “misericordia”, abbia sovente conseguenze negative, perché la diagnosi è sempre necessaria alla cura, e per questo deve essere implacabile e vera. “Il suo atteggiamento, scriveva Paolo VI il 7 dicembre 1965 parlando del Concilio, è stato molto e volutamente ottimista. Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno”, preferendo a “deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi”. Ma quali sono state le conseguenze di tutto ciò, di questo atteggiamento così dichiaratamente nuovo nella storia della Chiesa? Quanto è mancata, al nostro mondo contemporaneo, una cruda diagnosi della sua malattia, accompagnata, certo, anche dalla misericordia della cura? Le conseguenze di un ottimismo estremo le stiamo pagando tuttora: si è ingenerata piano piano nei cattolici una mentalità eccessivamente acquiescente e irenista.

L’idea che non si debba “condannare”, che si debba sempre dialogare ad oltranza, che occorra far viaggiare la Chiesa col mondo, ha fatto tanta strada, portando ai “cattolici per il marxismo”, ai “cattolici per il divorzio”, ai “cattolici per l’aborto”, ai cattolici relativisti (“io no, ma gli altri…”), ai “cattolici adulti” e via discorrendo. Non cioè alla pace della Chiesa col mondo, come oggi è sempre più chiaro, ma alla discordia tra gli stessi credenti. Un esempio su tutti: la mancata scomunica del comunismo da parte dei padri conciliari, nonostante la petizione di 450 di essi, proprio allorché le persecuzioni erano immense e quella ideologia di morte devastava interi popoli, risponde proprio ad un ottimismo irrealistico, e ad una mentalità che volendo distanziarsi dalla consuetudine degli anatemi del passato, crede, mi sembra ingenuamente, che il dialogo col mondo sia la soluzione possibile, indolore ed efficace, per la redenzione dell’umanità.

Di qui anche quella visione del dialogo che diventa non un mezzo ma il fine; un dialogo che ha come scopo null’altro che il dialogo stesso, invece della conversione: come se Cristo stesso non avesse scelto, in ultima analisi, di testimoniare la sua divinità col suo sangue, e non avesse annunciato ai suoi discepoli persecuzioni e martirio. Riusciamo ad immaginare un Concilio, oggigiorno, in cui Benedetto XVI, per non litigare col mondo, rifiutasse di condannare clonazione, aborto e manipolazione genetica? E oggi, che il papa lotta come un leone a difesa dell’uomo, dal concepimento sino alla morte naturale, possiamo ancora sottoscrivere la celebre frase di Paolo VI secondo la quale “la religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata (al Concilio ndr) con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio”, senza che ciò generasse un “scontro, una lotta, un anatema”, ma al contrario una “simpatia immensa”? O non è piuttosto sempre più chiaro che l’uomo che si fa Dio è la perfetta antitesi del Dio che si fa uomo, e che lungi dal rappresentare un vero umanesimo, l’umanesimo ateo contemporaneo finisce per disprezzare l’uomo, riducendolo ad una scimmia, ad un “numero uscito alla roulette”, ad un oggetto manipolabile?

Messa in luce questa mentalità di fondo presente in alcuni passaggi del Concilio, proporrei un’altra considerazione. Forse proprio la volontà di non urtare, di essere più “pastorali”, di non utilizzare la chiarezza lapidaria e sintetica del concilio di Trento, ha determinato la presenza in alcuni documenti conciliari di concetti non sempre chiari, ambigui, che lasciano spazio a interpretazioni divergenti. Prendiamo ad esempio il documento sull’ecumenismo, l’Unitatis Redintegratio. In esso si ripete più volte il dogma cattolico per il quale solo la Chiesa cattolica è la vera Chiesa di Cristo; si insiste sovente sulle divergenze dottrinali tra cattolici, ad esempio, e protestanti; si condanna come “alieno dall’ecumenismo” il “falso irenismo”, in linea dunque con il magistero precedente. Ma poi, nell’illustrare i metodi del dialogo, si lascia spazio, ad esempio, alla preghiera comune, tra cattolici e membri di altre confessioni: “nei congressi ecumenici è lecito, anzi desiderabile, che i cattolici si associno nella preghiera coi fratelli separati”.

 Ma questo non genera confusione, indifferentismo, mentalità sincretista? Non porta i fedeli a dimenticare la realtà, e cioè l’importanza, nella Chiesa, della comunione con Roma e del primato petrino? I padri conciliari continuavano: “Tuttavia la comunicazione nelle cose sacre non la si deve considerare come un mezzo da usarsi indiscriminatamente per il ristabilimento dell’unità dei cristiani… La significazione dell’unità per lo più vieta la comunicazione. La necessità di partecipare la grazia talvolta la raccomanda. Circa il modo di agire…decida prudentemente l’autorità del luogo…”. Ma allora pregare insieme a persone di fede diversa è un atto doveroso, o qualcosa di equivoco? Posizioni di questo genere, così poco chiare, hanno generato, nel post Concilio, una grande confusione, culminata, a mio modo di vedere, nei famosi incontri di Assisi del 1986.

Allora si arrivò a porre sugli altari delle chiese cattoliche statue di altre divinità o simulacri del Budda; sacerdoti cattolici si fecero pubblicamente iniziare a religioni animiste e i fedeli videro mescolarsi indifferentemente il nome di Cristo, “via, verità e vita”, con quello delle molteplici divinità fasulle, nella città di un grande santo, all’interno di chiese consacrate. L’effetto concreto fu il dilagare dell’indifferentismo, sintetizzabile in quell’espressione che divenne di moda sulla bocca di molti cattolici: “siamo tutti figli dello stesso Dio”.

Espressione vera, per carità, in ultima analisi, ma estremamente pericolosa se utilizzata per far credere che Cristo, Budda e Maometto siano la stessa identica cosa. Espressione che racchiude in sé un altro dramma del post Concilio: il progressivo venir meno nei cattolici della consapevolezza del dovere di annunciare Cristo a tutte le genti e delle responsabilità che il dono della fede comporta. Ad Assisi nel 1986 due cardinali preferirono non partecipare, intravedendo in quell’evento un grosso pericolo per la fede: il cardinal Giacomo Biffi e il cardinal Joseph Ratzinger, che in una recente prefazione ad un libro di Marcello Pera ha sottolineato come il dialogo sia possibile e doveroso tra persone, tra culture e popoli diversi, ma non tra diverse concezioni religiose e dottrinali.

Erano, i due cardinali, sulla stessa linea di papa Pio XI, che nella “Mortalium animos” aveva deprecato “congressi, riunioni, conferenze, con largo intervento di pubblico, ai quali sono invitati promiscuamente tutti a discutere”, cattolici, eretici e rappresentanti di altre religioni, in nome di “una falsa teoria che suppone buone e lodevoli tutte le religioni”. Pregare insieme, pensava Pio XI, serve solo a creare confusione, a spingere al naturalismo e in ultima analisi all’ateismo pratico, delegittimando la Rivelazione e la Chiesa stessa. Un’ultima considerazione. La lettura del documento conciliare sulla liturgia permette qui di intravedere quello che a mio avviso fu un altro degli errori di quegli anni, cui il papa attuale sta piano piano ponendo rimedio, prima col motu proprio e poi restaurando la croce al centro dell’altare, la comunione in ginocchio e altro ancora.

Da una parte si predicò il rinnovamento, insistendo fortemente su di esso, e generando la nascita di una serie incredibile di messe sperimentali in cui accadeva di tutto e durante le quali il celebrante diventava l’inventore sempre più fantasioso di nuove ritualità, sino alla nascita delle messe beat, o delle messe con le ballerine sull’altare; dall’altra si invitava a mantenere il latino, accanto ad un maggiore uso del volgare, e nel contempo si chiedeva di non introdurre “innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle esistenti”. Per quanto riguarda il canto, il concilio affermava che “la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana”, a cui riservare “il posto principale”; invitava contestualmente a tenere “in grande onore l’organo a canne…il cui suono è in grado di aggiungere notevole splendore alle cerimonie della Chiesa”.

Contemporaneamente, però, nella prassi, si lasciò che il latino scomparisse, e che del gregoriano e dell’organo non rimanesse traccia. In perfetta coerenza gli altari di un tempo vennero abbattuti, insieme alle balaustre e a tutto ciò che nella messa tradizionale serviva a sottolineare la sacralità della cerimonia e il suo carattere di rinnovazione del Sacrificio della Croce. Con esiti per nulla positivi. Rendersi conto di certi errori del passato, che esimi cardinali e papi riconobbero con grande umiltà di fronte all’esplosione del protestantesimo, permise alla Chiesa del Concilio di Trento di rinascere, dopo tempi onestamente bui. Non è giunto il momento, anche oggi, di qualche piccolo mea culpa, di una revisione, almeno, di questo ottimismo troppo mondano ed utopico? In verità l’ottimismo che, come cristiani, possiamo professare, è veramente immenso, ma ci viene dalla Resurrezione di Cristo, come fatto storico, non da altro. Dalla Sua morte, invece, dovremmo apprendere il realismo, cioè la consapevolezza dei nostri peccati e della necessità di convertirci e di convertirlo, non di vezzeggiarlo, il mondo.

Comunque la si pensi, in conclusione, mi sembra che buona parte della polemica sul Concilio e su Benedetto XVI stia qui: nella necessità di definire l’atteggiamento del cristiano dinanzi al mondo. Benedetto XVI ama il mondo, perché Cristo ha dato suo figlio per esso, ma lo richiama, lo incalza, lo sprona e lo infastidisce come si fa con un ronzino vecchio, stanco ed egoista; ama gli uomini di oggi, ma stigmatizza senza falsi scrupoli i mali contemporanei, alla luce della ragione e della fede, per il vero bene dell’umanità. Sa che il sale della fede non è dolce, e talora brucia, sulle nostre ferite, ma dà sapore alla vita. E lo fa tanto più con forza ed urgenza, quanto meno condivide l’idea che il mondo e la Chiesa stiano vivendo una “nuova primavera” e una “nuova Pentecoste”. In questo mi sembra che sia vero un certo suo distacco, una disillusione rispetto a certe illusioni dell’epoca conciliare

 
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