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L'ars moriendi in san Roberto Bellarmino.
Di Libertą e Persona - 28/03/2010 - Religione - 3487 visite - 0 commenti

Roberto Bellarmino nasce nella città di Montepulciano il 4 ottobre del 1542 da Vincenzo, magistrato, e da Cinzia Cervini, sorella del più noto cardinal Cervini, salito poi al Soglio Pontificio con il nome di Marcello II. Sin da piccolo, mostra uno spiccato interesse per l’arte poetica, trascorrendo gran parte del proprio tempo immerso nella lettura dei classici, ed in particolare delle opere dell’amato Virgilio.

Dopo aver seriamente meditato su cosa dovesse fare per raggiungere la completa pace spirituale, il giovane Bellarmino comincia a riflettere sulla fuggevolezza del tempo, sul senso della morte e sulla brevità delle cose di questo mondo; a diciotto anni entra nella Compagnia di Gesù, compiendo in principio studi di natura filosofica presso il Collegio Romano (1560-1563), sotto la guida del padre Piero Parra, e successivamente, dopo una breve parentesi di vita dedicata all’insegnamento delle lettere e della retorica (Firenze, 1563-1564; Mondovì, 1564-1567), prosegue la sua formazione intellettuale completando gli studi di teologia. In quegli anni riceve anche l’ordinazione sacerdotale e dopo un ventennio speso nell’attività di docenza, diviene padre spirituale presso il Collegio Romano (1590-1592), in seguito Rettore dello stesso Collegio (1592-1594), poi provinciale del suo Ordine a Napoli (1594-1597). Infine è chiamato a Roma a reggere la Casa dei Penitenziari.

Dopo la nomina a Cardinale, avvenuta il mercoledì (3 marzo del 1599) delle quattro tempora di quaresima, ad opera di Papa Clemente VIII, occupa gran parte del suo tempo ricoprendo l’incarico di teologo personale di Sua Santità. Nell’arco di tempo compreso tra il 1602 ed il 1605 dirige la sede arcivescovile di Capua, ma l’impegno diocesano è breve, seppur intenso. Difatti, è richiamato a Roma da Papa Paolo V e ivi continua la sua indefessa attività in favore della Santa Sede ed in difesa della “vera fede”. Si spegne al mondo il 17 settembre del 1621; è canonizzato nel 1930 ed il 17 settembre del 1931 riceve il titolo di Dottore della Chiesa. Roberto Bellarmino svolge in ambito ecclesiastico molteplici funzioni: è un predicatore assiduo, instancabile ed è un accorto difensore della Verità del Vangelo e della parola di Dio.

Dedica estrema cura al ministero della predicazione e, proprio per questa particolare vocazione, la sua formazione culturale si dirige verso tale obiettivo, da lui ritenuto di primaria importanza. Come nota Giovanni Ancona, “egli si convinse ben presto che la predicazione costituiva lo strumento più idoneo per promuovere la vita spirituale cristiana nelle diverse categorie di persone, così come costituiva l’elemento più efficace per combattere gli attacchi alla fede, che provenivano da eretici e riformatori”.

L’attività pastorale di San Roberto, infatti, si svolge alla vigilia della conclusione del Concilio di Trento, che sancisce definitivamente la rottura con i “disobbedienti” protestanti (e riformati) e rafforza, teologicamente e politicamente, la Chiesa di Roma. Il Bellarmino può essere considerato, senza tema di smentita, uno dei più illustri rappresentanti della teologia post-tridentina: la sua concezione di Chiesa “controriformata” consiste nella congregazione di tutti i fedeli cristiani battezzati e nell’unione di coloro che credono e confessano la fede di Gesù e riconoscono il Sommo Pontefice come il vicario in terra di Cristo5. In materia dottrinale, San Roberto agisce con passione ed accortezza, ricoprendo vari incarichi presso il Sant’Ufficio: è attento e solerte soprattutto nell’azione antiereticale, combatte con le armi della fede e della cultura le derive teologiche che si diffondono e si preoccupa di controllare i possibili canali di promozione della devianza religiosa. È evidente, pertanto, che in un tale contesto storico e culturale l’attenzione del Bellarmino sia completamente rivolta al rigore del ragionamento ed alla solidità del contenuto dottrinale (continuamente riferito alla tradizione ed alle fonti scritturistiche), sempre diretto al recupero delle opere dei Padri della Chiesa ed alla divulgazione dei contributi dei più noti teologi medievali.

Negli ultimi anni di vita si impegna nella redazione di opuscoli ascetici e di opere di carattere etico; proprio lì si coglie il motivo di fondo della sua profonda spiritualità, tutta volta verso la tradizione gesuitica e, particolarmente, riferita agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. La santità e l’indubbio valore culturale non influenzarono esclusivamente i cattolici suoi coevi, ma i tratti del pensiero bellarminiano ancor oggi, a secoli di distanza, possono scuotere le coscienze dei contemporanei, sempre più restii ad affrontare la meditatio mortis. “La sua opera e il suo metodo – scrive Piolanti – hanno inciso profondamente nella storia della Chiesa e della teologia, le sue dottrine sul Papa e sui sacramenti […] hanno arricchito la tradizionale dottrina del cattolicesimo, i suoi opuscoli spirituali hanno nutrito la pietà di tante anime, il suo catechismo, ispirato alla concretezza mentale del popolo, ha istruito per secoli tanta parte della cristianità, la sua dedizione a Cristo ed al suo Corpo Mistico fu tale da essere esempio più ammirabile che imitabile”.

Tra gli opuscoli ascetici redatti nell’ultimo periodo spicca proprio il De arte bene moriendi, scritto nel 1620 (durante uno dei suoi periodi di vacanza) e pubblicato nel 1621.

L’opera è dedicata a Francesco Sforza, “Cardinale di Santa Romana Chiesa e vescovo di Albano”, ed è strutturata in due distinte sezioni, tra loro strettamente dipendenti. Nella prima, l’Autore si rivolge direttamente ai “sani”, che avvertono la morte assai lontana; nella seconda, invece, si rivolge a chi si trova in uno stato di grave malattia e percepisce la fine terrena assai prossima. La sua riflessione antropologico-teologica si innesta integralmente nel tronco della tradizione cattolica, riaffermata e corretta attraverso le disposizioni partorite dal Concilio di Trento: pertanto, così come nella migliore convenzione religiosa, la sanità e la malattia non sono da intendersi esclusivamente nella loro accezione più ristretta (corporale), bensì esse sono da considerarsi anche, e soprattutto, come stati dello spirito umano. Se da un lato, però, quest’idea della morte non è affatto nuova – infatti si rifà espressamente al pensiero mistico medievale e al fiorire delle artes moriendi, sviluppatesi sul finire del Quattrocento e diffusesi anche nei secoli successivi –, v’è da notare, dall’altro, che nel XVII secolo la riflessione sul trapasso subisce una decisiva mutazione, che si protrarrà anche negli anni fino alla metà del XX secolo.

 Il De arte bene moriendi infatti – così come d’altronde moltissimi altri libelli del tempo – presenta una svolta antropologica e teologica radicale che si ripercuoterà anche sul prezioso lavoro di Alfonso Maria de Liguori, Apparecchio alla morte, scritto nel XVIII secolo. Infatti, dopo il Cinquecento, il morire assume, anche grazie al nuovo apporto speculativo di Roberto Bellarmino, un ulteriore significato: l’interesse, dal Seicento in poi, non è più rivolto alla vecchia iconografia dell’ars moriendi che ipervalorizzava l’ultimo istante terreno, bensì è interamente rivolto alla continua preparazione della morte durante tutto l’arco temporale della vita. La morte perde la sua carica emotiva attribuita all’istante del decesso ed acquisisce, al contempo, un nuovo status: si muore tutti i giorni, poiché la morte è inscritta nella vita, ne è parte integrante. La struttura portante dell’opera trovava nell’atto di ricomprensione del “tempo” del morire nel “tempo” della vita: per il Bellarmino, la “fine” terrena non è antitetica, né contrapposta alla vita, bensì ne è parte rilevante, ne è il culmine estremo, la possibilità conclusiva; pertanto, l’unica arte per ben morire non è altro che quella di chi impara a ben vivere nel quotidiano, perché se la morte è il termine della vita (ed essa è, quindi, anche parte della vita, perché il termine di una cosa è compreso nella cosa stessa), è certo che chi vivrà bene ogni suo giorno terreno, fino alla fine della propria esistenza, morirà anche bene; “né potrà morire male chi non è mai vissuto male. Allo stesso modo, chi è vissuto male, muore anche male; né può non morire male chi non è mai vissuto bene”.

Già dalla lettura delle prime pagine del testo si evince il motivo di fondo che anima il pensiero dell’Autore: ciò che è, in quanto è, è ontologicamente buono, né potrebbe essere altrimenti. Se Dio crea, non può che creare per il bene tenendo ben presente il meglio. Pertanto, ciò che si oppone all’Essere e ciò che si oppone alla creazione di Dio non può venir definito altro che male, poiché si orienta al peggio. Già dalla prefazione del De arte bene moriendi, Roberto Bellarmino denuncia chiaramente la sua totale adesione al pensiero cristiano, inaugurato da Sant’ Agostino e magistralmente approfondito, nel XII secolo, da San Tommaso d’Aquino. Egli ritiene che, nonostante la morte sia da considerarsi malvagia, giacché priva l’uomo del suo essere corporale (della vita terrena), Dio ha saputo “accomodarla” affinché da essa potessero derivare molti beni spirituali: il bene più grande, che il trapasso dona all’uomo, consiste nel liberarlo dalle infinite miserie della vita mondana, affrancarlo dagli stretti legami della terra, aprendogli la porta del Regno dei cieli. L’opera mette in evidenza l’essere dell’uomo: la creatura umana, osserva, non è composta esclusivamente di materia, essa non è soltanto vitalismo esasperato o mero istinto, bensì possiede anche una componente spirituale, che deve costantemente essere curata ed alimentata attraverso la riflessione e la preghiera.

 Con la morte perisce il corpo, ma non l’anima, e la cura di sé coinvolge precipuamente l’anima. Se l’anima è sana, l’uomo è salvo, ma per preservare la propria componente spirituale la creatura deve impegnarsi in un percorso “terreno” di continua deferenza verso “Colui che ci ama”. Questa riflessione sulla morte è mossa principalmente dal desiderio di fornire ai fedeli un modus operandi per la “buona” vita, per il “ben” esistere; ciò affinché l’uomo possa comprendere davvero il profondo senso del morire. Ma per raggiungere l’intimità del significato, è indispensabile dover dividere il bene dal male, il positivo dal negativo: proprio a questo livello riemerge, in tutta la sua forza, l’ottimismo ontologico dell’Autore. “Prima d’incominciare a esporre i precetti di quest’arte – si legge nel De arte bene moriendi – m’è parso conveniente ricercare se la morte debba collocarsi tra le cose buone o cattive. E veramente, se si considera la morte in se stessa, senza dubbio la si deve ritenere cosa cattiva, perché essa si oppone alla vita, la quale è indiscutibilmente una cosa buona. A ciò si aggiunge, inoltre, che non è stato Dio a creare la morte (cfr. Sapienza 1, 13); ma essa «è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sapienza 2, 24)”.

 Pertanto, se non è creatura di Dio, la morte non è una cosa buona in sé; perché tutto ciò che Dio crea è in se stesso buono, secondo quanto affermato da Mosé: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona». “Quantunque, però, la morte non sia in se stessa una cosa buona, tuttavia la sapienza di Dio ha saputo quasi accomodarla in modo che da essa possano derivare molti beni. (Genesi 1, 31)”9.

La morte acquisisce quindi, a questo livello, un significato ulteriore, potremmo dire, più profondo, rispetto a quello normalmente attribuitole: il tempo del morire diviene, in queste pagine, un momento di vita, che è in sé buona, perché tendente al meglio; da qui, nonostante la morte sia il frutto del peccato, essa permette all’uomo di raggiungere, attraverso il suo completo attraversamento, la compiutezza nella gioia eterna. Da una tale visione emerge la positività della vita, figlia della tradizione cattolica: ad ogni modo, seppur buona in sé, l’esistenza può subire l’attacco del Peccato; ed è proprio il Peccato il principale responsabile dell’ingresso della morte nell’orizzonte umano. Il trapasso pone le sue radici, quindi, nel male, ma esso è anche la via attraverso la quale l’uomo, se ha ben vissuto nel tempo terreno, ha l’opportunità di ricongiungersi al Padre celeste.

L’obiettivo di fondo del Bellarmino consiste, quindi, nel tentativo di rileggere l’ars moriendi cinquecentesca attraverso il recupero della morte al tempo della vita: il tempo del morire non è più opposto alla vita, bensì è parte integrante di essa. “La morte invade la vita: è questo, al livello della sensibilità collettiva, il tratto decisivo che prevarrà per oltre un secolo e mezzo, fino a metà Settecento”. Dunque, la morte è un tempo del vivere, è interna ad esso ed è anche il limite massimo della presenza terrena. L’essere dell’uomo è inscritto dentro un recinto circoscritto dal trapasso, che a sua volta non è il limite assoluto dello spirito umano, bensì è soltanto il termine ultimo della personale presenza terrena. Grazie a quest’opera, nel Seicento “cristiano” si rafforza l’idea che per morire bene si debba vivere serenamente nel tempo, ma ciò implica l’abbandono della terra e dei beni materiali. Liberare il proprio animo dagli stretti legacci con il mondo non vuol dire ricusare ciò che Dio ha donato liberamente all’uomo.

 Egli rifiuta il totale disprezzo delle cose terrene (“dogma” monastico) e propone un modello basato su un equilibrato rapporto tra le cose del mondo e l’amore verso Dio. Se l’uomo è frutto dell’incontro tra il corpo e lo spirito, una vita che mortificasse interamente la materia ed esaltasse unicamente la cura dell’anima, diverrebbe disumana. L’uomo, per mezzo della grazia donatagli dal Signore, può rinascere a vita nuova e percorrere la via per la salvezza eterna, senza per questo dover disprezzare i doni materiali che Dio ha voluto concedere alle sue creature terrene. L’Ars bene moriendi altro non è, quindi, se non il reiterato tentativo di ricerca degli strumenti utili per vivere una vita santa. Proprio in virtù di ciò, l’Autore si preoccupa di indicare quale sia la retta via da seguire per morire serenamente: “Chi muore bene non muore felicemente solo in qualche modo; né solo in qualche modo muore infelicemente chi muore male. Ma chi muore bene, passa da una vita mortale e misera a una vita eterna e beatissima sotto ogni aspetto; al contrario, chi muore male cambia una vita, che sembra lunga e felice, con un’altra tutta piena di travagli e di dolori”.

Bellarmino, a tal proposito, incita i “sani” a vivere seguendo i precetti della vita cristiana: tale progetto, però, vedrà davvero la luce solo se l’uomo sarà in grado di “morire al mondo”, nel senso già enunciato. Coloro, infatti, che vivono ancorati ai beni del mondo, sono lontani dalla salvezza e morti per Dio; “né può in alcun modo avvenire che uno incominci a vivere per Dio, senza che prima muoia al mondo”.

 Il “morire al mondo” sta, in tal modo, a significare che gli uomini tutti devono badare ad “attaccarsi così poco alle cose terrene, come se non appartenessero loro, mirando invece alla speranza della felicità”13. Egli è del tutto consapevole della difficoltà umana di dover vivere nel secolo “disprezzando” al contempo i beni materiali. “Vedere cose belle e non amarle – si legge in quest’opera – gustare cose dolci e non sentirne piacere, disprezzare gli onori, desiderare le fatiche, star volentieri all’ultimo posto, cedere agli altri i gradi più eminenti, e infine vivere nella carne quasi senza carne, sembra doversi dire vita piuttosto angelica, che umana”.

Ai cristiani, a coloro che anelano alla salvezza eterna, quindi, non sono vietati del tutto i beni di questo mondo: ciò che è assolutamente vietato, e che conduce direttamente alla dannazione, è, di contro, l’amore smodato per la materia, è la concupiscenza della carne, degli occhi o la superbia della vita. Pertanto chi ha a cuore il retto apprendimento dell’arte del ben morire non indugi ad uscire dalla perversione del mondo, perché è intimamente inammissibile, per il Bellarmino, poter vivere contemporaneamente per Dio e per la materia, e godere parimenti della terra e del cielo. Egli insegna che il primo passo verso il buon “apparecchio alla morte” consiste nel totale abbandono del mondo e dei suoi piaceri materiali, perché non sarà dato di morire bene a chi non avrà, parimenti, vissuto bene, libero dai vizi e dalla schiavitù terrena. Ad ogni modo, per poter vivere decorosamente non è sufficiente il semplice morire al mondo, bensì s’avverte soprattutto il bisogno di una buona preparazione alla morte, affinché essa non sopraggiunga repentina ed inattesa, cagionando disperazione e terrore. “Momentanee e leggere sono la consolazione e la tribolazione della vita presente – scrive il cardinal Bellarmino –, massime ed eterne la consolazione e la tribolazione della vita futura. Sono allora stolti coloro che disprezzano la consolazione e la tribolazione della vita avvenire”. Nella sezione centrale dell’opera, la riflessione si orienta con maggior attenzione sul peccato e sulla dannazione, ed il richiamo alla cura della propria anima si fa sempre più pressante.

 L’Autore ammonisce il penitente e lo invita a non rimanere invischiato nel peccato neppure per un istante, “nella vana speranza che ci rimanga ancora molto da vivere e che potremo a suo tempo fare la necessaria penitenza. Perché questa vana speranza ha ingannato molti e ancora ingannerà molti, se prudentemente non impareranno, mentre sono in tempo, l’arte di ben morire”16. Nella riflessione dell’Autore v’è un chiaro riferimento alla fuggevolezza del tempo. L’uomo non controlla gli istanti della propria vita perché non li possiede; il tempo è sopra l’uomo, è aldilà del succedersi degli attimi; le creature di Dio vivono nel tempo, ma esso le condiziona e le limita.

Quest’opera invita tutti i fedeli ad un profondo esame di coscienza, poiché chi desidera vivere degnamente, per avere la garanzia di morire in grazia di Dio, deve comportarsi piamente nei confronti del Signore, rinnegando empietà, in ogni istante. “Chi vuole dunque imparare compiutamente l’arte di ben vivere e di morire felice, non segua la moltitudine, che non crede o non fa caso se non a quel che vede, ma segua Cristo e gli Apostoli, i quali, con la parola e l’esempio, insegnarono a disprezzare le cose presenti e ad aspettare quella «beata speranza della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo»”.

Un buon “apparecchio” alla morte, dunque, garantisce la salvezza, ma per ottenerla è necessario non procrastinare neppure di un giorno la conversione. Infatti l’uomo ignora sia il giorno sia l’ora del proprio decesso, e se la morte giungesse impromptu non vi sarebbe più il tempo per pentirsi del male commesso. “Ma che dire – scrive infatti l’Autore – di coloro che vengono sorpresi da una morte improvvisa? Di coloro che diventano pazzi o cadono in delirio prima della confessione? Di coloro che, oppressi dalla gravità della malattia, non possono neppure pensare quanti e quali peccati abbiano commesso? Di coloro che peccano morendo o muoiono peccando, come chi viene ucciso in una guerra ingiusta o in contese private o sorpreso in adulterio?”.

Proprio per tali motivi Roberto Bellarmino ammonisce i fedeli a mutare radicalmente la propria esistenza, perché non è possibile vivere immersi nell’empietà e nel vizio; per vincere lo stato di peccatori, l’unica soluzione risiede nella preghiera e nella richiesta della grazia e del perdono. A tal proposito l’Autore, attingendo dalle Sacre Scritture, scrive: “«Chiedete e vi sarà dato» (Luca 11,9; Matteo 7,7) […] Possiamo quindi ragionare in questo modo: chi domanda come si deve il dono di ben vivere, certamente l’otterrà; e chi domanda come si deve la perseveranza nel vivere bene fino alla morte e perciò fino ad una morte felice, senza dubbio la riceverà”.

 Il passo definitivo verso il buon apparecchio consiste nella costante meditazione della morte. La reale comprensione di un evento la si ottiene solo attraverso un perseverante esercizio di riflessione, che non deve in alcun modo essere procrastinato. Difatti, nota il Bellarmino, finché si è in giovane età non si avverte il peso del trapasso, ed il “tempo” del morire appare lontano e meno sconvolgente. Col trascorrere degli anni o con l’emergere di una malattia inattesa, però, l’uomo comprende chiaramente di essere instabile ed ancorato ad un sottile filo, che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro. La morte ed il terrore della dannazione eterna, a questo punto, colpiscono l’uomo sino nell’intimità; esse divengono insopportabili e terribili. Qui, l’invito del Bellarmino trova la sua giustificazione proprio nel tentativo di preservare l’homo patiens dal trovarsi invischiato nel sentimento di terrore per la fine imminente. “Nella morte avviene la separazione dell’anima dal corpo, ma […] né l’anima muore, né il corpo perisce e si riduce in polvere senza la speranza della risurrezione. Se non ci fosse questa speranza, come pensano gli atei, avrebbero detto bene coloro che disprezzavano la morte, dicendo: «Mangiamo e beviamo che domani morremo» […] alcuni, ormai vecchi, non pensano alla morte, come se non dovessero morire mai o come se con la morte del corpo anche l’anima si spegnesse per sempre”.

 I cristiani assennati, dunque, devono innanzitutto preservarsi dal peccato e pensare assiduamente al trapasso, perché il loro precipuo obiettivo non è vivere spensierati in questa vita, bensì affrontare con serenità il “tempo” della buona morte, nella speranza della Gloria eterna. 

da: A. Pertosa, Santi e rivoluzionari, Sugarco.

 
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