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Sempre pił soli!
Di Francesco Agnoli - 15/01/2010 - Cultura e societą - 1148 visite - 0 commenti

Il Corriere del 13 gennaio dedica un’intera pagina ad una indagine choc. Il titolo e i sottotitoli sono sufficienti a gelare il sangue: “Milano, i single sorpassano le famiglie. Sono il 50,6 per cento. In crescita anche nel resto d’Italia. L’identikit: giovani, divorziati, anziani che restano soli”. L’articolo spiega che il fenomeno è in costante aumento: è la bellezza dei tempi, del progresso, immancabile, vincente, trionfante. La libertà si espande, i “diritti civili” trionfano!

Questo sarà forse il giudizio di chi, dinanzi ai fatti, non riesce a rivedere i pregiudizi; di chi antepone l’ideologia alla realtà. Personalmente il risultato di questa indagine mi ha enormemente rattristato e sconfortato.

Non sono riuscito, entrando in classe dopo averla letta, a non parlarne coi ragazzi: “Ragazzi, a me non piace fare il sociologo e parlare spesso d’ attualità…però oggi bisogna fare un’ eccezione. Invece che storia dell’ ottocento, facciamo storia di oggi”. Allora ho letto le prime righe dell’articolo, chiedendo ai ragazzi il loro parere. “E’ triste”, ha detto subito una ragazza, una di quelle che conserva ancora qualche sogno, qualche speranza. Aveva il volto sconsolato. Non ci si vuole impegnare, ha aggiunto un altro ragazzo. Sì, è vero, ho risposto, ma perché, ragazzi, perché oggi non si è più capaci di stare con altre persone, di condividere la propria vita, di intessere relazioni vere, fedeli, durature? Ho risposto io, perché mi sembrava che mi chiedessero questo.

Allora sono partito, con un po’ di irruenza: “Tutti questi single sono povere persone tristi, sole, nutrite dalle illusioni della cultura senza Cristo, cioè senza sacrificio, senza amore, senza gratuità, senza senso di colpa, senza perdono…Cercano la strada facile, magari non per colpa loro, ma perché gli è stato insegnato così. Nessuno li ha educati a dirsi di no; nessuno, neppure il loro parroco, li ha educati a confessarsi, a riconoscere la propria debolezza, a cercare in Dio forza, coraggio, speranza, capacità di rialzarsi, medicina alla propria debolezza. Intraprendono una relazione con la superficialità di chi ascolta tutti i giorni le canzonette della musica leggera; di chi guarda le telenovelas; di chi vive di romanticismo mellifluo e sentimentale. Così magari partono in quinta, con il motore a pieni giri, bruciano le tappe, trasportati dal sentimento, liberi dai vecchi vincoli del fidanzamento pensato e vissuto in un certo modo: ma poi, alla prima salita, quando bisogna scalare le marce, dalla quinta alla quarta, alla terza, alla seconda, e quando poi si deve ripartire, piano piano, non ce la fanno, non hanno marce interiori per farlo. La virilità dell’amore, ragazzi, è un’altra cosa: amare significa sapersi controllare, temperare, sapersi umiliare dinanzi al proprio coniuge, saper chiedergli perdono, saper controllare la propria ira, la propria istintività, almeno provarci…oggi invece siamo educati a divenire schiavi dei nostri sentimenti, schiavi delle nostre debolezze, e del nostro egoismo. Va dove ti porta il cuore, dicono tutti: e quando il cuore ha qualche sobbalzo, ci facciamo gettare a destra e a sinistra, salvo poi trovarci con un pugno di mosche.

La vita, diceva Chesterton, “è la più bella delle avventure, ma solo l’avventuriero lo scopre”: questo significa, ragazzi, che non bisogna avere paura di vivere la relazione, di mettersi in gioco, di mettere in discussione se stessi, il proprio carattere, i propri difetti… amare significa stare nella realtà, con la sua bellezza, con le sue difficoltà, come l’avventuriero che non si ferma dinanzi al primo ostacolo, che non pretende di raggiungere la cima della montagna attraverso una strada pianeggiante, che sa che le cose più belle si raggiungono e si mantengono con l’ impegno, la fatica. Una fatica santificante, che edifica, che costruisce, che dà gioia. E poi, ragazzi, c’è la paura, la paura che genera paura: il numero altissimo di divorzi produce generazioni di giovani che hanno paura, che non vogliono più scommettere sulla realtà, che patiscono ogni giorno sulla loro carne la disillusione provata nella famiglia di origine. Divorzio genera divorzio, e coloro che lo vivono come vittime, i figli, divengono spesso feriti che hanno paura di qualsiasi battaglia, che temono, non senza ragioni, di scommettere, di investire, di sperare. Abbiamo così creato una società di persone sole, di persone paurose, di persone tristi.

Lasciatemi fare il laudator temporis acti, il vecchio brontolone. Una volta non era così. Una volta non si parlava tanto di “diritti civili” ma si sapeva stare più assieme, si viveva molto meglio. Era più difficile nascere soli, vivere soli e morire soli” (Il Foglio, 15/1/2009)

 
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