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Oggi, 13 gennaio, il Corriere della sera dedica mezza pagina ad Erminia Pane. La storia, in breve: Erminia non è credente, con una paresi ad un braccio e ad una gamba, quasi cieca. Nel 1982 prova ad affidarsi a Lourdes: tentar non nuoce.
Torna guarita, e ottiene anche la patente di guida. Comunica all’Inps, che però si ostina a ritenerla invalida. “Se infatti l’inspiegabile guarigione della donna ha convinto la Chiesa (e il Bureau medico di Lourdes, in cui vi sono medici da tutto il mondo, credenti o meno, ndr), non ha avuto lo stesso effetto sull’Unione Italiana Ciechi, che rigettò la sua richiesta di rinunciare all’indennità: la Pane è priva di una retina e perciò, stando alla scienza, era e resterà non vedente”. La Pane invece dichiara di essere guarita e mostra la sua patente di guida, ottenuta dopo regolare esame…
Questa storia, l’ennesima, mi spinge a ripubblicare una breve storia di Lourdes e di alcuni personaggi eccellenti che vi hanno creduto.
La Francia dell' Ottocento è un paese fortemente permeato dall'ideologia positivista. Qui però, paradossalmente, si era celebrato uno dei più assurdi processi della storia. Un processo brevissimo e senza scampo, ben diverso da quello, assai più celebre, a Galilei: il fondatore della chimica moderna, Lavoisier, viene inquisito e ghigliottinato lo stesso giorno, dopo che i rivoluzionari francesi, gli adoratori della Dea ragione, i democratici, i libertari, coloro che vogliono definitivamente chiuderla con le tenebre del passato, sono arrivati a sciogliere l'Accademia delle Scienze, l'8 agosto del 1793.
La Repubblica, dirà il giudice, non ha bisogno di scienziati. Un grande matematico, amico di Lavoisier, Lagrange, scriverà invece: "E' bastato un momento per far cadere una testa e non ne basteranno cento per averne una simile". Lavoisier era un cattolico, uno "spirito metafisico", come ebbe ad accusarlo August Comte parecchi anni più tardi.
Ebbene, proprio nella Francia post-rivoluzionaria, fortemente laicista ed anticlericale, si afferma un'ideologia basata sull'assoluta fiducia nelle potenzialità della scienza umana e sulla rinuncia pregiudiziale alla conoscenza della Verità e del senso della vita dell'uomo. Il positivismo è una religione con i suoi dogmi ed i suoi riti, fondata su un ottimismo sfrenato, ma anche su una diminuzione, pessimistica, a priori, dell'uomo: non è possibile, per lui, conoscere compiutamente il suo destino, la sua essenza, per cui tanto vale dimenticarsene, rinunciare persino alla ricerca.
Si viva, ma mettendo tra parentesi il perché. Il grande maestro di questa cultura è il filosofo August Comte, nato a Montpellier nel 1798 e morto, dopo vari episodi di pazzia, nel 1857 (si notino, en passant, la pazzia di Comte, la follia di Nietzsche, o la morte per suicidio del più grande positivista italiano, sacerdote apostata, Roberto Ardigò: vorranno pur dire qualcosa?). Nel suo "Sistema di politica positiva" (1851-1854) Comte mette al centro l'Umanità, cioè tutti singoli uomini, compresi quelli morti e quelli non ancora nati.
L'Umanità è quasi un unico organismo, che gode di una sua immortalità, nell'insieme: esattamente come nel pensiero dei vari materialisti del secolo, e di molti positivisti moderni, come Umberto Veronesi, che vedono nel Dna che si riproduce e che si passa di padre in figlio l'unica traccia di immortalità nella vita dell'uomo. In questa dimensione il singolo viene chiaramente annullato, e la sua storia, la sua ricerca, il suo fine, ricondotto ad una ricerca ed un fine generali. Questa Umanità, nel suo insieme, marcia verso il sol dell'avvenire, verso il futuro radioso, e vive il presente con una fede incrollabile. "Comte sostiene che la religione dell'Umanità deve essere l'esatta copia del sistema ecclesiastico. I dogmi della nuova fede sono già pronti: essi sono la filosofia positiva e le leggi scientifiche. I riti, i sacramenti il calendario, il sacerdozio sono necessari alla diffusione dei nuovi dogmi. Ci sarà un battesimo secolare, una cresima secolare e una estrema unzione secolare" (Reale, Antiseri).
I santi, gli uomini che hanno cercato e trovato Dio, e il prossimo, vengono sostituiti con gli scienziati e gli inventori. Il progresso ammesso è uno solo: mai quello del singolo, dell'anima che lotta per la virtù, ma solo quello dell'Umanità, nel suo insieme, nel tempo.
Nella Francia di Comte rifulge ben presto anche la stella del grande romanziere Emile Zola (nella foto), nato a Parigi nel 1840 e morto nella stessa città nel 1902. Zola è un perfetto positivista che crede che tutto, anche l'uomo, sia studiabile scientificamente, sino in fondo, in tutte le sue manifestazioni. Nel suo "Il romanzo sperimentale" scrive: " Quando avremo provato che il corpo dell'uomo è una macchina di cui un giorno si potranno smontare e rimontare gli ingranaggi a piacimento dello sperimentatore, si dovrà ben presto passare alle manifestazioni passionali e intellettuali dell'uomo…si può annunciare senza timore di ingannarsi il momento in cui a loro volta saranno formulate le leggi del pensiero e delle passioni. Un identico determinismo deve regolare il ciottolo della strada ed il cervello dell'uomo…un giorno la fisiologia ci spiegherà il meccanismo del pensiero e delle passioni; sapremo come funziona la macchina individuale dell'uomo, come pensa, come ama, come procede dalla ragione alla passione ed alla follia…".
Alla scuola di Zola, cioè del materialismo che pone la sua immortalità e il suo Dio nella scienza, e che riduce l'uomo a meccanismo determinato da fattori materiali, e quindi privo di qualsiasi libertà, si rifanno molti altri scrittori, come pure, in principio, il grande Joris-Karl Huysmans (nella foto sopra), che però col tempo si rende conto di quanto l'uomo di Zola non corrisponda alla complessità dell'uomo reale. Nella sua introduzione a "Controcorrente", Huysmans, che ha sperimentato molto bene in sé l'inquietudine, la ricerca, la depravazione e gli slanci di cui è capace un'anima, ripudia il naturalismo di Zola, con queste motivazioni: "i suoi eroi erano privi d'anima, governati semplicemente da impulsi e istinti, cosa che semplificava il lavoro d'analisi".
Descrivendo quella che credevamo essere la natura dell'uomo, continua Huysmans, noi naturalisti non penetravamo per nulla nel suo "mistero": "Poiché la virtù, bisogna pur ammetterlo, è in questo mondo un'eccezione, veniva scartata dal progetto naturalista. Non possedendo il concetto cattolico della caduta e della tentazione, ignoravamo da quali sforzi, da quali sofferenze è sorta; l'eroismo dell'anima vittoriosa sulle insidie ci sfuggiva. Non ci sarebbe mai venuto in mente di descrivere questa lotta, con i suoi alti e bassi….".
In questa stessa Francia, in cui un altro filosofo positivista, Ernst Renan (1823-1903) si diverte a mettere in ridicolo il Vangelo, negando la possibilità stessa dei miracoli, in nome del sapere scientifico, tre scienziati veri, all'incirca nella stessa epoca, Pasteur, Carrel e Lecomte de Nouy, dichiarano apertamente la loro fede in Cristo e la sua conciliabilità col sapere scientifico.
Louis Pasteur (1822-1895), uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, ha occasione di proclamare pubblicamente la sua fede innumerevoli volte, e soprattutto il 27 aprile 1882, quando viene accolto nella Accademia delle Scienze dallo stesso Renan. Nel suo primo discorso Pasteur deve anche fare l'elogio funebre di Emile Littré, medico, giornalista, scrittore positivista tra i più famosi della Francia dell'epoca. Littrè era inoltre un seguace accanito di Comte, nella cui dottrina aveva per anni trovato risposta da ogni cosa: "Essa basta a tutto, non mi inganna mai e mi illumina sempre".
Pur avendo trovato la fede alla fine dei suoi giorni, chiedendo il battesimo all'abate Huvelin, Littrè era insomma un personaggio imbarazzante, per il credente Pasteur, che però non omette di lodarlo, nel suo elogio, e di contraddirlo. Vale la pena riportare almeno una piccola parte del discorso di Pasteur: "Il positivismo, non offrendomi nessuna idea nuova, mi lascia diffidente e riservato. La fede di Littrè nel positivismo gli venne dall'appagamento che vi trovava per quanto riguarda le grandi questioni metafisiche. La negazione e il dubbio lo ossessionavano. Comte lo ha tirato fuori dall'una e dall'altro con un dogmatismo che sopprimeva ogni metafisica. Di fronte a questa dottrina Littrè diceva: non ti devi preoccupare né dell'origine né della fine delle cose, né di Dio né dell'anima, né di teologia, né di metafisica…fuggi l'assolto, non amare che il relativo….Quanto a me, ritenendo sinonimi le parole progresso ed invenzione, mi chiedo in nome di quale nuova scoperta, filosofica o scientifica, si possano estirpare dall'animo umano queste grandi preoccupazioni. Mi sembrano di essenza eterna, perché il mistero che avvolge l'Universo e di cui esse sono emanazione è esso stesso eterno per natura. Si narra che l'illustre fisico inglese Farday, nelle lezioni che faceva all'Istituzione reale di Londra, non pronunciasse mai il nome di Dio, sebbene fosse profondamente religioso. Un giorno, eccezionalmente, questo nome gli sfuggì e improvvisamente si manifestò un movimento di simpatica approvazione. Accorgendosene Farady interruppe la lezione con queste parole: 'Vi ho sorpreso pronunciando il nome di Dio. Se ciò non mi è ancora accaduto dipende dal fatto che io sono, mentre tengo queste lezioni, un rappresentante della scienza sperimentale. Ma la nozione e il rispetto di Dio arrivano al mio spirito attraverso vie tanto sicure quanto quelle che conducono alla verità dell'ordine fisico'".
"Littrè e August Comte, prosegue Pasteur, credevano e fecero credere agli spiriti superficiali che il loro sistema si basava sugli stessi principi del metodo scientifico di cui Archimede, Galileo, Pascal, Newton, Lavoisier (nessuno dei quali ateo, ndr), sono i veri fondatori. Da ciò è nata l'illusione degli spiriti, favorita anche da tutto ciò che la scienza e la buona fede di Littrè garantivano".
E ancora: "Il positivismo non pecca solo nel metodo….esso non tiene conto della più importante delle nozioni positive, quella dell'infinito. Al di là di questa volta stellata che cosa c'è? Nuovi cieli stellati. Sia pure! E al di là ancora? Lo spirito umano, spinto da una forza irresistibile, non smetterà mai di chiedersi: che cosa c'è al di là? Vuole esso fermarsi, sia nel tempo, sia nello spazio? Poiché il punto dove esso si ferma è solo una grandezza finita, soltanto più grande di tutte quelle che l'hanno preceduta, non appena egli comincia ad esaminarlo ritorna la domanda implacabile senza che egli possa far tacere il grido della sua curiosità. Non serve nulla rispondere: al di là ci sono degli spazi, dei tempi o delle grandezze senza limiti. Nessuno comprende queste parole. Colui che proclama l'esistenza dell'infinito, e nessuno può sfuggirvi, accumula in questa affermazione più sovrannaturale di quanto non ce ne sia in tutti i miracoli di tutte le religioni…Io vedo ovunque l'inevitabile espressione della nozione dell'infinito nel mondo. Attraverso essa, il soprannaturale è in fondo a tutti i cuori. L'idea di Dio è una forma dell'idea di infinito… La metafisica non fa che tradurre dentro di noi la nozione dominatrice dell'infinito…Dove sono le fonti genuine della dignità umana, della libertà e della democrazia, se non nella nozione di infinito di fronte alla quale gli uomini sono tutti uguali?". Pasteur, che aveva negato con i suoi esperimenti la generazione spontanea, principio fondante di ogni panteismo e ateismo, dichiara senza ambagi: "ancora più incompatibile con la ragione umana è il credere alla potenza della ragione sui problemi dell'origine e della fine delle cose…"; gli "insegnamenti della sua fede, aggiunge parlando del credente, sono in armonia con gli slanci del cuore, mentre la credenza del materialista impone alla natura umana ripugnanze invincibili. Che forse il buon senso, il senso intimo di ciascuno non reclama la responsabilità individuale? Al capezzale dell'essere amato colpito dalla morte non sentite in voi qualche cosa che vi grida che l'anima è immortale? E' un insultare il cuore dell'uomo dire con il materialismo: la morte è il nulla!" (quest'ultima parte del discorso viene ripetuta quasi ugiuale da Pasteur in varie occasioni).
Infine, parlando l'8 agosto 1874 in occasione della distribuzione dei premi del collegio di Arbois, Pasteur afferma: "L'educazione liberale che avete ricevuto senza trarne alcun merito non avrebbe altro risultato che abbandonarvi ad un folle orgoglio e al capriccio di questi spiriti frondisti che su tutti gli argomenti hanno affermazioni superficiali….Si dice che nella nostra città sono esistiti dei geni incompresi e io so che il moto di 'libero pensatore' è scritto da qualche parte nella cinta delle nostre mura come una sfida e un oltraggio. Sapete voi ciò che reclama la maggior parte dei liberi pensatori? Alcuni reclamano la libertà di non pensare affatto e di essere asserviti all'ignoranza; altri, la libertà di pensare male; altri ancora, la libertà di essere dominati dalle suggestioni dell'istinto e di disprezzare ogni autorità e ogni tradizione. Il libero pensiero nel senso cartesiano, la libertà nello sforzo, la libertà nella ricerca, il diritto di concludere sul vero accessibile all'evidenza e conformarvi la propria condotta, oh! di questa libertà bisogna avere un culto…ma il libero pensiero che reclama di concludere su ciò che sfugge ad una conoscenza precisa, la libertà che significa materialismo o ateismo, questa ripudiamola con energia".
Pasteur concludeva il suo discorso sottolineando l'impossibilità per l'uomo di afferrare il "principio e la fine di tutte le cose": "Credetemi, di fronte a questi grandi problemi, eterni soggetti di meditazioni solitarie degli uomini, non vi sono che due stati dello spirito: quello fornito dalla fede, la credenza a una soluzione data da una rivelazione divina, e quello del tormento dell'anima tesa alla ricerca di soluzioni impossibili e che questo tormento esprime con un silenzio assoluto (non con le false certezze dei "sistemi nichilisti" del positivismo, ndr) o, ciò che è lo stesso, con la confessione dell'impotenza di nulla comprendere e di nulla conoscere di questi misteri". (L. Pasteur, "Opere", Utet).
Su questo concetto del mistero riguardo il "principio e la fine di tutte le cose" è bene soffermarsi un attimo. Per Pasteur l'origine e la fine sfugge alla conoscenza scientifica umana, perché consiste nel perché ultimo e nel fine ultimo della nostra esistenza. La origine e la fine sono il fine, lo scopo, il senso, cioè qualcosa di non tangibile e di non misurabile. Cosa possono dire i telescopi e i microscopi, le reazioni chimiche e le formule matematiche, sulla scintilla iniziale che dà vita all'Universo, o meglio sul passaggio dal "nulla", dalla non esistenza del cosmo fisico, come tale non sperimentabile, alla esistenza, miracolosa e improvvisa, nostra e dell'Universo? Quell'attimo di tempo in cui l'universo ha inziato ad esistere per un big bang di qualche tipo, forse non lo capiremo mai: certo non comprenderemo mai l'"attimo" fuori del tempo che viene "prima" di quell'attimo di tempo che diede inizio, appunto, al tempo stesso (perché la creazione, come il Big Bang e la relatività di Einstein, implicano un attimo di tempo che ha dato vita al tempo stesso e prima del quale il tempo non esisteva, "contro quelle falsa immaginazione, come scriveva Grossatesta ottocento anni fa, anticipando Einstein, per la quale (molti) sono spinti ad immaginare, prima di ogni tempo, altro tempo e, al di là di ogni spazio, altro spazio e così via all'infinito").
E sull'origine dell'uomo? Conosciamo il "meccanismo" della fecondazione, in realtà ancora molto superficialmente: ma l'uomo, il primo uomo, non è nato da un embrione fecondato seminato dal caso nello spazio. E' comparso "all'improvviso", per un atto di creazione, o per una evoluzione (che esige, però, all'origine della catena, una causa incausa, e cioè creatrice), che comunque non riusciamo a comprendere, dal momento che l'abisso ontologico tra la scimmia, che non parla, non pensa, non progetta, non ha senso morale..., e l'uomo, non è e non sarà mai riducibile ad un mutamento puramente fisico, materiale e quindi sperimentabile. Non solo perché questo cambiamento non è provato ma unicamente presupposto, dal momento che mancano anelli di congiunzione, ma anche perché, se l'evoluzione vi fu, fu essenzialmente e più di tutto non qualcosa di fisico (un po' di peli in meno e qualche cambiamento nella postura), ma qualcosa di spirituale, di intangibile, di indimostrabie con leggi scientifiche, come lo sono le idee, la volontà, la libertà, e usando espressioni di Pasteur, la "dignità umana", la "responsabilità individuali" e l'ansia di infinito dell'uomo.
Alexis Carrel (1873-1944), invece, è un medico e uno scienziato di fama mondiale, imbevuto di spirito positivista, a cui dobbiamo vari progressi nelle tecniche di sutura dei vasi sanguigni e nelle ricerche sui trapianti di tessuti e organi essenziali per le audaci operazioni chirurgiche del nostro tempo. Studia all'Università di Digione e Lione, e nel 1900 si laurea in medicina. Nel 1912 ottiene il premio Nobel per la medicina e la fisiologia. La sua formazione pre pre pre pre pre pre pre pre e purtroppo tracce di essa rimarranno anche dopo la conversione. Infatti nel 1935 Carrel sosterrà che "criminali e malti di mente devono essere umanamente ed economicamente eliminati in piccoli istituti per l'eutanasia, forniti di gas adatti. L'eugenetica è indispensabile per perpetuare la forza….L'eugenetica può esercitare una grande influenza sul destino delle razze civilizzate; l'espandersi di pazzi e deboli di mente deve essere prevenuta perché è peggiore di qualsiasi fattore criminale. L'eugenetica chiede il sacrificio di molti singoli esseri umani".
Per noi, oggi, queste frasi suonano terribili, specie se si pensa a quanto fatto, negli stessi anni, dai nazionalsocialisti. In realtà si tratta di una posizione diffusissima, maggioritaria, tra gli scienziati di formazione positivista di quel tempo. Ebbene Carrel è appunto uno scienziato ateo, che nel 1903 decide di recarsi a Lourdes, attratto dalle voci disparate che si rincorrono su questo straordinario paesino. Zola, che è consapevole del fatto che un solo miracolo è sufficiente a confutare l'ateismo, ha da poco scritto un romanzo, "Lourdes" (1894), in cui dinanzi a episodi inspiegabili, che in un primo tempo lo affascinano e sbalordiscono, tira in ballo tutto l'armamentario di pseudo spiegazioni tipiche degli scettici: le guarigioni sarebbero casi di autosuggestione, frutti della manipolazione mentale dei frati e delle suore, conseguenze di fluidi emanatisi da folle eccitate, episodi non spiegabili dalla scienza solo a causa dello stadio ancora arretrato degli studi medici. Quello che oggi non è razionalmente comprensibile, insomma, lo sarà domani, punto e basta.
Quello di Zola, supportato dalle logge massoniche che invocano la chiusira di lourdes scomodando a tal fine persino al governo Combes, si rivelerà un fiasco: anche perché in breve il metodo apparentemente scientifico dell'autore, viene confutato, e si scopre che Zola ha appositamente falsificato le vicende relative ad alcune guarigioni inspiegabili. Ebbene, proprio qualche anno dopo Zola, anche Carrel si reca a Lourdes, per studiare la faccenda, per vedere, se necessario per confutare.
Non è che uno dei tantissimi medici francesi e dal resto del mondo, che arrivano in questa località e che spesso, una volta convintisi che a Lourdes succede qualcosa di miracoloso, hanno poi paura di proclamarlo ad alta voce, per non essere derisi e invisi alla cultura dominante. Ma quello che subito stupisce Carrel non sono i miracoli della grotta: è il miracolo della fede dei malati che viaggiano con lui verso la meta. "Questo treno e dee dee dee dee dee dee dee deava un treno di piacere, a parte le risate e i ritornelli allegri. Un parroco di campagna, dal viso bruno e scavato, correva da vettura a vettura; aveva con sé una cinquantina di montanari. Con loro viveva, mangiando un pezzo di pane e una fetta di salame e bevendo a canna dalla bottiglia".
Riflettendo tra sé e sé, con tipico mentalità positivista, Carrel nota che "nessuna di queste creature vuole rassegnarsi a scomparire, ognuna sente in sé il bisogno di vivere, l'aspirazione a vivere. Felici quelli che credono che ci sia, al di sopra di noi, un'intelligenza, che dirige il piccolo ingranaggio della macchina e che gli impedirà d'essere schiantato dalle forze cieche". Macchina, forze cieche: perfetto linguaggio da positivista. Infatti Carrel è convinto che "al di fuori del metodo scientifico non esisteva alcuna certezza".
Parlando di sé stesso in terza persona, afferma: "le sue idee religiose, distrutte dall'analisi sistematica, l'avevano abbandonato…S'era allora rifugiato in un indulgente scetticismo…Ma ora, nella profondità recondite del suo pensiero sussisteva una speranza vaga, probabilmente incosciente, di afferrare i fatti che danno la certezza, la pace, l'amore…Per sapere assai poche cose- diceva tra sé- io ho distrutto in me cose molto belle". "Sapere assai poche cose": questa è la consapevolezza di un premio Nobel, aliena dall'arroganza di tanti scienziati e romanzieri, che farà la differenza. I primi casi di guarigione cui Carrel si accosta, gli sembrano spiegabili con l'autosuggestione, come se da una folla in preghiera, piena di fiducia, si potesse sprigionare "una specie di fluido il quale agisce con una forza incredibile sul sistema nervoso" (la spiegazione proposta da Zola).
Ma questo fluido, pensa Carrel, non può avere efficacia quando si tratta di affezioni organiche. Ebbene Carrel ha in breve la possibilità di assistere in prima persona, in tutti i passaggi della vicenda, alla guarigione di una donna in punto di morte, affetta da tubercolosi, pleurite, e peritonite tubercolare. Di fronte ad una guarigione evidente, inspiegabile, improvvisa, Carrel si converte e rivolge d'improvviso la sua preghiera alla Madonna: "Vergine dolce, soccorrevole verso gli infelici che umilmente v'invocano, soccorretemi….".
Nelle sue meditazioni spirituali, tra le altre cose, Carrel scriverà: "C'è una grande differenza tra Gesù di Nazareth e Newton: ed è che il precetto dell'amore reciproco è una legge infinitamente più importante della gravitazione universale" (Alexis Carrel, "Viaggio a Lourdes, Frammenti di diario", Morcelliana, 1956).
Tre anni dopo Carrel, di cui si è parlato la volta scorsa, nel 1957 muore il grande scienziato Pierre Lecomte de Nouy, il quale, "avendo penetrato profondamente nella fisica dei quanta, e cioè nei segreti più riposti della materia, concludeva la sua lunga indagine nel mondo del mistero col chiedere i sacramenti della Chiesa cattolica, che del mistero gli spalancarono la porta". Lecomte, che si è allontanato dalla Chiesa in cui era stato battezzato, è amico di Carrel, e insieme a lui si appassiona ad alcuni casi di guarigione inesplicabili; insieme a Carrel è poi all'istituto Rockefeller di New York, e da qui torna "in Francia a dirigere il reparto di biofisica dell'istituto Pasteur e collaborò con Sir William Ramsey e coi coniugi Curie…Nel 1939 raccolse le sue esperienze in un libro dal titolo 'L'homme devant la science', in cui si rifiutava di accettare la proposizione di Renan secondo cui la conoscenza della realtà avrebbe prodotto il crollo del soprannaturale e dello spirituale". Pubblica poi nel 1942 'L'avenir de l'esprit' che ebbe in un anno 22 edizioni, ed infine, nel 1944 'Destinèe humaine'. Lecomte muore nel 1947 ricevendo i sacramenti dalle mani del padre La Farge, gesuita, e confessando che la sua gioia era stata e sarebbe stata, se possibile, "di poter emancipare gli scienziati dall'ateismo per menarli a Dio".
Ma torniamo a Lourdes. Siamo sempre in Francia, all'incirca nella stessa epoca e nella stessa temperie culturale. Il protagonista stavolta è uno scrittore, un giornalista e un poeta, come Zola: si chiama Adolfo Rettè (1863-1930). E' un ateo convinto, un materialista, attratto dal buddismo, che cerca a modo suo i suoi discepoli. Sentirsi profeta è un po' il vizio di molti non credenti: almeno in se stessi confidano; credono nella propria capacità se non di creare, di modellare e perfezionare, loro, il mondo (Igino Giordani, "I grandi convertiti", 1945). La sua dottrina di riferimento, la sua ricetta di salvezza, è una sorta di anarchismo individualista ("l'innesto individualista sull'albero comunista"), sempre di moda tra chi non ama riconoscersi limitato e povero, e vede invece ogni realtà esterna a se come un ostacolo alla propria realizzazione.
Rettè gira per la Francia, predicando il credo positivista e denigrando la fede religiosa in generale e il cristianesimo in particolare. Parla e scrive, sui giornali, nei salotti, cercando di sfogare la sua "rabbia antireligiosa". Cerca e vuole i suoi pulpiti, il suo motivo per vivere, imprimendo una traccia di sè, se non nell'eternità, almeno nella storia. Un giorno, in una saletta di Fontainbleau, nel corso della solita tirata ateistica, Rettè esalta "l'attento uditorio promettendo che, in virtù della ragione e della scienza, sarebbe finalmente spuntata un'era di felicità assoluta all'insegna della totale libertà e della uguaglianza perfetta e della fratellanza senza ombre". Lo slogan finale è semplice e chiaro: "Guerra al capitalista, guerra al soldato, guerra al prete". Uno slogan pacifista e guerrafondaio allo stesso tempo, anch'esso tipico delle menti rivoluzionarie, fondamentalmente gnostiche e ribelli. Ma alla fine delle conferenza, alcuni uomini si accostano a lui, per discutere, privatamente.
Gli chiedono, convinti di ottenere risposta, una semplice domanda: "dal momento che il mondo non è stato creato da nessuno, noi vorremmo sapere come tutto ha avuto inizio. Di ciò la scienza deve essere informata e voi ci spiegherete quanto essa sa a tale riguardo". Di fronte a questa semplice obiezioni Rettè vacilla: è l'obiezione più banale del mondo, eppure un intero sistema di pensiero, capace di promettere il paradiso in terra, non sa rispondere. Rettè se ne accorge, capisce che in realtà le sue prediche non hanno fondamento: manca, semplicemente, la base su cui costruire l'edificio positivista e scientista, un edificio tra il resto, di cui si prevedono, per il futuro radioso, guglie grandiose, pinnacoli, statue, bellezze ineffabili.
Manca semplicemente il perché dei perché, il prima dei prima, l'origine di tutto. Eppure gli ascoltatori lo guardano: aspettano da lui una risposta, tanta è la loro fede. Certe domande, infatti, non si fanno per farle: sono troppo antiche e troppo nuove, sempre le stesse, da troppi secoli. E Rettè sente dentro di sè che non può ingannarli, che non è possibile fingere. La scienza non sa, non giustifica: "dovevo dire loro che gli studiosi onesti rifiutano di affrontare il problema dell'origine del mondo? Dovevo comunicare che taluni si limitano a formulare ipotesi vaghe e che i ciarlatani del materialismo lanciano in aria, come bolidi, affermazioni categoriche, ma poco solide e poco convincenti? D'altra parte, tale questione dell'origine di tutto era un punto tenebroso sull'orizzonte del mio orgoglio e più volte avevo rifiutato di affrontarla…Rimasi qualche minuto in silenzio e poi dissi: la scienza non può spiegare come il modo ebbe inizio!", può forse arrivare al modo, mai al perché ( Angelo Comastri, "Dove è il tuo Dio?", San Paolo).
Il dado ormai è tratto: ci sono ancora alcuni anni di lotte interiori, di vizi, di articoli intrisi d'odio e di sesso e di bestemmie alla Madonna, di canzonature al povero Huysmans, accusato di essersi convertito, ma qualche anno dopo Carrel, anche Rettè, convertito, parte per Lourdes. La sua testimonianza è ardente e calorosa: quella di ogni convertito, senza timori e senza reverenze umane. E' raccolta nel suo "Un soggiorno a Lourdes" ( Mander, Treviso, 1912), la storia del suo pellegrinaggio a piedi sino alla cittadina francese. In esso Rettè racconta due miracoli cui dice di avere assistito, e tanti e tanti episodi di fede, per lui ancora più incredibili. Ciò che lo stupisce di più, ancora una volta, sono i miracoli meno visibili: la storia di uomini e donne che vengono a Lourdes per chiedere la grazia, e che, pur non ottenendola, rafforzano la loro fede e sopportano con più forza il loro dolore. Nel VI capitolo del suo resoconto, Rettè analizza le varie pseudo-spiegazioni proposte dai materialisti dell'epoca al fenomeno Lourdes. Sono molto interessanti, perché dimostrano, in quanto, appunto pseudo-spiegazioni, che anche i più accaniti nemici di Lourdes riconoscono l'esistenza di strani avvenimenti che è necessario, in qualche modo, giustificare.
Lascio la parola a lui: "Gli uni dissero: E' l'acqua delle piscine. Spiegazione la più debole: poiché, se bastasse bagnare con acqua ghiacciata un tubercoloso all'ultimo stadio, ovvero un malato affetto da carie delle ossa, per guarirlo istantaneamente, perché la medicina non ricorrerebbe a questa rudimentale terapeutica? Se si trattasse di un effetto puramente fisico, ciò che avviene a Lourdes dovrebbe avvenire da per tutto…Altri increduli si appigliano all'autosuggestione. Si risponderà loro anzitutto con questo fatto che le esperienze di Charcot, come pure quelle della scuola di Nancy, non diedero in questo senso alcun risultato comprovante. Si suggerì a persone isteriche di pigliare le carote per ananassi: non si è mai riusciti a suggerire a moribondi, colpiti di cancro o di lupus, ma immuni di malattie nervose, di guarire subitamente e completamente per uno sforzo di volontà….E i fanciulli? I lattanti di pochi mesi che non sanno ciò che da lor si vuole, che gridano e si dimenano, quando li svestono per tuffarli nella piscina, è forse per auto-suggestione che guariscono?… Vinti anche su questo punto i materialisti mutano tattica. Il miracolo, essi dicono, si produce a Lourdes sotto l'influenza di un fluido che si sprigiona dalla folla esaltata la cui preghiera freme, piena di entusiasmo, attorno agli ammalati. E' un effetto quasi magnetico. Questa baggianata fu adottata da Zola, uomo fecondo in cianciafruscole. Si ricorda il famoso 'soffio sanatore delle folle' di cui egli fece 'la torta alla crema' nel romanzo, pieno di mala fede, che scrisse su Lourdes. Che molti malati fossero riconfortati, eccitati alla preghiera, dall'atmosfera di religione e di pietà che regna intorno a loro, alla Grotta…è un fatto incontestabile. Ma che le invocazioni della folla alla divina misericordia si concretino in una panacea fluida che guarisca, istantaneamente, ulcere inveterate e carie delle ossa è una spiegazione che muove al riso".
Muoverà al riso, dico io, ma pur di non credere ai miracoli, cui credettero scienziati come Pasteur, Carrel e Lecomte, e scrittori come Rettè, Zola inventò questa spiegazione: segno, lo ripeto, che qualcosa di straordinario, come effettivamente affermò, la aveva vista anche lui! Conclude Rettè: "Soggiogati e vinti dall'eloquenza dei fatti …i me Ree Ree Ree Ree Ree Ree Ree Recora con la seguente obiezione. Ciò che agisce, nei miracoli di Lourdes, sono forze naturali tuttavia sconosciute; ma che la scienza spiegherà in un avvenire più o meno lontano". Ancora una volta si sfugge proiettando in un futuro lontano che ad oggi, oltre cent'anni dopo, non è ancora arrivato, il regno della scienza assoluta, infallibile, capace di rendere felice e immortale l'Umanità e di esaurire il mistero dell'uomo e di Dio attraverso qualche formula e qualche legge fisica, qualche "romanzo sperimentale". E' una fede anche questa, benché si cerchi di negarlo, la più irrazionale di tutte. (Da: "Dio, questo sconosciuto", Sugarco)