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Non c’è ancora molto tempo per meditare sul Natale. A breve le statuine torneranno negli involucri di carta e la loro voce si affievolirà ancora di più. Fermiamoci ancora un attimo davanti al presepe, prima di cominciare l’anno nuovo, col suo trambusto, i suoi impegni, le sue frenesie spesso inutili. Sostiamo e osserviamo quella grotta, quei pastori in silenzio, ammutoliti dinanzi ad un bimbo; quegli importanti signori che vengono da lontano, con doni impegnativi e tante attese.
Solleviamo quel bambino piccolino, tra le braccia, come fosse un figlio. Quel Figlio è Dio, che ha voluto farci a Sua immagine e somiglianza; che ha voluto nascere a nostra immagine e somiglianza. E’ nato come nasciamo tutti: dopo nove mesi di attesa; dopo secoli di attesa di un popolo, di tutti i popoli, affidandosi completamente a noi. Dio ha voluto fidarsi di una donna e di un uomo, affidarsi, totalmente, alle loro cure, alla loro libertà. A tal punto tiene al nostro libero amore, alla nostra capacità, libera, di corrispondergli. Si è fatto piccolissimo, per non forzarci in nulla, per non far pesare la sua divinità, la sua grandezza; perché l’Infinito fosse per noi a portata di sguardo. Anche a Maria Egli ha chiesto un sì. Anche noi possiamo accoglierlo, o respingerlo. Lui ci offre di starci sul palmo della mano, tra le braccia, sul nostro cuore. Si è fatto, il Signore dei Cieli e della Terra, in tutto dipendente da noi: Lui che è l’Amore, si è fatto mendicante del nostro, misero, amore. Lo desidera, lo aspetta, lo cerca. Come un bambino.
Puer natus est nobis, puer datus est nobis, canta una bella canzone abolita dall’iconoclastia post conciliare: un fanciullo è nato per noi, ci è stato dato, donato. Neppure gli angeli hanno avuto un simile privilegio. Donato anche per insegnarci che ogni vita che nasce è preziosa, un Mistero da contemplare: come si fa appunto dinanzi ai bambini, che non parlano, ma attirano ugualmente i nostri sguardi, li attraggono più di ogni altra cosa, e ci mettono in bocca, a noi che li guardiamo, parole di stupore, di gioia pura e infantile.
Qualcuno, di fronte a quel Mistero, a quelle manine perfette che strappano un grido, a quei vagiti flebili, a quella debolezza, si inginocchia, balbetta, sente un sussulto nel cuore. Vorrebbe stringerlo forte, forse per catturare un po’ di quella tenerezza, di quella dolcezza. Vorrebbe lavarsi in quella innocenza. Sono i pastori, i puri di cuore, gli umili, coloro che percepiscono la necessità di essere salvati e perdonati. Qualcuno, invece, come Erode, come quel re malvagio che ha già ucciso i suoi figli, si sente minacciato, teme di perdere un po’ di potere, o qualche notte di sonno, o i “suoi spazi”, le sue comodità, le sue “libertà”: sono i cuori rattrappiti, raggomitolati su se stessi, desertificati dall’egoismo, che impaurisce ed impedisce di vedere anche ciò che è nuovo, che è appena nato, e che ci chiede di rinnovare anche noi stessi, di ricominciare una “vita nuova”.
Cristo, che come Figlio ha avuto fiducia in noi, ci chiede di averla in Lui: di avere la fede che ha un bambino nei confronti dei suoi genitori. Fede totale, ma ragionevole, perché sicura di un amore che non può mancare. Il cristiano conosce l’Amore da cui è nato: per questo dovrebbe, come Teresa del Bambin Gesù, abbandonarsi completamente ad Esso. “Sia fatta la tua volontà”, perché la nostra è troppo spesso debole, sviata, incerta, fasulla; sia fatta, affinché il nostro cuore si apra a tutte le circostanze, le evenienze, gli incontri che Dio vuole donarci. Cristo, che come Figlio ha obbedito al Padre, ci chiede di seguire il suo esempio. Guardiamo ancora quel bambino, solleviamolo. Non ha nulla della grandezza del mondo, nulla della sua superbia, della sua sicurezza, della sua spavalderia; nulla di ciò che il mondo ritiene importante. Neppure un letto, o una casa. La libertà del suo cuore deve essere modello per il nostro.
“Se non ritornare come bambini non entrerete mai”: così dirà Cristo, adulto, ai suoi discepoli. Penso che si riferisse alla consapevolezza che ogni bambino ha della sua dipendenza, e all’entusiasmo, allo stupore, alla freschezza che è propria dell’ uomo che viene al mondo, che come un nuovo Adamo osserva, per la prima volta, la bellezza del creato. Prendendo allora quella statuina tra le braccia, prima di rimetterla nel suo involucro, gli chiederò proprio questo. Di poter guardare a tutto come fa un bambino; di stare dinanzi a tutto, come si sta davanti ad un bambino: cioè dinanzi ad un dono, appena ricevuto. Quando lo si scarta, lo si apre il cuore si gonfia di gratitudine. Poi, dopo poco, quel dono perde d’importanza, ci sembra scontato, ci abituiamo: siamo diventati “adulti”.
Ri-diventare ogni giorno bambini significa ri-guardarlo sempre, come fosse la prima volta, quel dono. Il bambino è felice, perché per la prima volta conosce qualcosa che immediatamente gli corrisponde. Noi dobbiamo imparare, invece, a ri-conoscere ciò che già abbiamo conosciuto, ma spesso anche dimenticato: ri-conoscere l’affetto dei miei genitori; quello di mia moglie, anche quando non è propriamente "simpatica" come la volta in cui la ho conosciuta (so che a volte pensa lo stesso...); riconoscere il dono immenso dei figli, anche quando rompono e non dormono di notte; quello dei miei alunni, anche dei più difficili e dei più scontrosi…Riconoscere in loro, in tutti, il dono di Dio alla mia vita. Guardarli come si guarda quel bambino: stupefatto che sia nato proprio per me. Il Foglio, 7/1/2009