Diventa socio
Sostieni la nostra attivitą
Contatti
Il prof. Roberto De Mattei, vice presidente nazionale del CNR, reo di aver organizzato un convegno a Roma con alcune personalità scientifiche piuttosto critiche [verso l’ideologia darwinista, ha subito l’ennesimo processo dalle colonne del periodico giacobino Micromega.
A fare da inquirente, il violentissimo Telmo Pievani, un personaggio che dietro le teorie di Darwin, ammantandosi del titolo di difensore della ragione e della scienza, nasconde il suo ateismo dogmatico e assolutista e il sua rancore e disprezzo per il pensiero cattolico e teista, ben espresso nel suo “Creazione senza Dio”. Pievani è uno di quelli che non possono sopportare alcun rilievo, piccolo o grande che sia, nei confronti di Darwin e del suo pensiero, non per una reale attenzione alla sua opera, quanto per personali motivi ideologici: il naturalista inglese è infatti per lui, come lo fu per Marx ed Engels, o per Stalin, la “dimostrazione” scientifica della inesistenza di Dio (vedi appunto il titolo del suo libro).
Questo nonostante Darwin stesso non si sia mai definito ateo, e, al contrario, abbia in più occasioni fatto dichiarazioni di questo tipo: “l’impossibilità di pensare che questo grandioso e meraviglioso universo, insieme a noi esseri coscienti, sia nato per caso, mi sembra il principale argomento a favore dell’esistenza di Dio”, salvo poi aggiungere però che “l’intera questione si trova al di là della portata dell’intelletto umano” (Randal Keynes, Casa Darwin, Einaudi).
La polemica tra il dotto ed equilibrato professore del CNR e lo scomposto Pievani, perfetta espressione di un certo mondo poco amante del libero dibattito sull’opinabile, ci dà la possibilità, in chiusura dell’anno darwiniano, di ricordare anche un altro personaggio importante, quel sir Alfred R. Wallace, che è ricordato, insieme a Darwin, come lo scopritore della selezione naturale, e la cui memoria, pur essendo egli un evoluzionista, non farà forse un gran piacere al nostro Pievani. Qual è il nucleo del pensiero di Wallace?
Wallace entra in discussione con l’amico Darwin a proposito dell’unicità umana. Non che neghi la natura anche animale dell’uomo, ma sostiene che l’unicità umana non può essere negata, ed è anzi evidente nel fatto che l’uomo è l’unica creatura che non è costretta a modificare il proprio corpo “in relazione alle mutate condizioni ambientali”, ma al contrario modifica l’ambiente a seconda delle proprie necessità. Per nuotare, nota Wallace, non abbiamo subito mutazioni genetiche che ci hanno fatto crescere le branchie, né per volare ci sono venute le ali, ma abbiamo inventato le pinne, le maschere, i sommergibili, le navi e gli aerei (e gli ospedali, che contrastano la legge del più forte).
Non è dunque solo la natura ad esercitare il suo potere su di noi, ma anche noi ad esercitarlo su di essa. E questo come si spiega? Necessita, conclude Wallace, ipotizzare “un Potere che ha guidato l’attività di tali leggi (naturali ndr) in una precisa direzione e con uno specifico scopo”.
Necessita cioè, per spiegare l’uomo, una concezione teleologica-provvidenzialistica, un principio spirituale che renda conto della sua irriducibile alterità, ciò che i filosofi chiamano “anima”; necessita “un qualche altro potere, diverso dalla selezione naturale” che sia “stato coinvolto nella realizzazione dell’uomo”, una “legge più generale…forse connessa con l’origine assoluta della vita e dell’organizzazione”.
A queste osservazioni Darwin, che non condivide l’idea di riservare all’uomo “un posto a se stante nel regno animale”, risponde a Wallace: “Non capisco la necessità di tirare in ballo un’ulteriore e diretta causa riguardo all’uomo”, oltre, evidentemente, alla legge della selezione naturale, “la vostra e mia creatura” (Federico Focher, L’uomo che gettò nel panico Darwin, pp.155-197, Bollati Boringhieri, 2006).
Eppure Wallace continua a sostenere una tesi che è ancora oggi la più evidente e di buon senso, e che certo non è mai stata smentita: che nell’uomo una “forza misteriosa”, la mente, costituisce “la vera grandezza, l’originalità dell’uomo” e lo rende “un essere a se stante”. L’uomo, per Wallace, si sarebbe evoluto sino al momento in cui l’intelletto, raggiunta una soglia minima di sviluppo, avrebbe reso inutile le modificazioni del corpo.
Ma cosa “la selezione naturale non può fare”? Essa, per lui come per Darwin, non ha “nessun potere di spingere un qualunque essere molto più avanti dei suoi simili, se non quel tanto che basta per permettergli di sopravanzarli nella lotta per l’esistenza”. Eppure nell’uomo, nota sempre Wallace, vi è un evidente eccesso: la capacità di costruire aerei, o di dipingere, o di osservare gli astri con un cannocchiale, non sembra avere alcuno scopo, alcuna utilità, tanto meno immediata!
Anche la voce umana, così capace di estensione, di versatilità, e di dolcezza, “mostra di eccedere le necessità dei selvaggi” e le nostre: qual è l’utilità, per la sopravvivenza, di un soprano o di un tenore, del gregoriano, o della polifonia? Tanto più che le immense potenzialità della voce umana rimangono latenti anche nella gran parte degli uomini civilizzati. E l’immensa potenzialità delle nostre mani? Con esse l’uomo suona il piano o il violino, costruisce gioielli e microchip, fa operazioni chirurgiche o scrive col computer…
Cioè, secondo le parole di Wallace, “la mano dell’uomo presenta delle capacità latenti e delle potenzialità che non vengono utilizzate dai selvaggi e che devono esserlo state ancora meno dall’uomo paleolitico e dai suoi più rozzi antenati. Ha tuttavia l’aria di un organo predisposto per essere utilizzato dall’uomo civilizzato, anzi di un organo necessario per rendere possibile la civilizzazione”.
Se pensiamo alle facoltà mentali, la capacità di concepire l’eterno, l’infinito, l’armonia, il numero, non “influiscono minimamente” sulla esistenza individuale o su quelle della tribù, e quindi è “impossibile che si siano sviluppate grazie a una qualche forma di conservazione di forme di pensiero utili”. Inoltre la selezione non “ha il potere di produrre delle modificazioni in qualche misura dannose per chi le possiede”, essendo esse adattative.
Si chiede allora Wallace: perché allora perdere il pelo, là dove sarebbe utile? Perché la posizione bipede, e le altre debolezze fisiche dell’uomo, quali appunto la pelle senza peli, che un quadrumane non ha? “La pelle dell’uomo, delicata, nuda, sensibile, priva completamente di quel rivestimento di pelo così comune in tutti gli altri mammiferi- conclude Wallace- non si può spiegare con la teoria della selezione naturale. Le abitudini dei selvaggi dimostrano che essi sentono il bisogno di questo rivestimento, assente nell’uomo proprio nei punti in cui negli animali è più folto. Non abbiamo alcuna ragione di credere che il pelo possa essere stato dannoso, o anche solo inutile, per l’uomo primitivo”.
Perché la crescita del cervello, se in primis è solo causa di mortalità alla nascita e di parti più dolorosi e rischiosi? Afferma Wallace: quando “modificazioni nocive o inutili al tempo della loro comparsa” divengono, “col tempo estremamente vantaggiose, e sono ora essenziali per il pieno sviluppo morale e intellettuale della natura umana, dovremmo dedurne l’azione di una mente che prevede e lavora per il futuro, proprio come facciamo noi quando vediamo l’allevatore organizzare il proprio lavoro con il determinato proposito di produrre un dato miglioramento nella coltivazione di una pianta o nell’allevamento di qualche animale domestico”.
Wallace argomenta poi in questo modo: la crescita del cervello, il suo volume, ci differenzia dalle scimmie, ma la differenza tra il volume dei selvaggi e quello dei civili è ben misera ( il cervello dei selvaggi è “immensamente più grande di quello degli animali”; “la selezione naturale avrebbe anche potuto dotare il selvaggio di un cervello non molto superiore a quello di una scimmia, e invece egli ne possiede uno di pochissimo inferiore a quello di un filosofo”). Eppure il selvaggio non usa moltissime delle facoltà di cui si serve l’uomo civile. Ma l’ampiezza del suo cranio (quello di un nero selvaggio può anche essere maggiore di quella di un bianco europeo) dimostra che il suo cervello “è capace, se coltivato e sviluppato, di svolgere un lavoro dal punto di vista sia qualitativo che quantitativo che va molto al di là di quello che gli viene normalmente richiesto”.
Tra i selvaggi possiamo trovare esempi di senso artistico, di altissima moralità, ecc…, pertanto, “considerato che tutte le facoltà morali e intellettuali occasionalmente si manifestano anche nel selvaggio, possiamo benissimo concludere che esse sono sempre latenti e che il suo grande cervello è sovradimensionato per le reali richieste della sua condizione di selvaggio”.
Il cervello del selvaggio sembra cioè “predisposto per essere completamente utilizzato via via che egli progredisce nella civilizzazione”. Ma un cervello così grande rispetto alle necessità, non può essere frutto solo della selezione, che agisce in modo economico, badando all’utile immediato, portando ciascuna specie “ad un grado di organizzazione esattamente proporzionato alle sue necessità, mai oltre”, e mai preparando “nulla per il futuro sviluppo della razza”.
Le facoltà umane della geometria e dell’aritmetica, come tante altre come possono essere emerse “in un epoca in cui non sarebbero state di nessuna utilità per l’uomo nella sua primitiva barbarie?” Si tratta infatti di facoltà “così incredibilmente lontane dalle necessità materiali degli uomini selvaggi”; del resto l’ “ipotesi utilitaristica (che altro non è che la teoria della selezione naturale applicata alla mente)” “sembra inadeguata anche per spiegare lo sviluppo del senso morale”, in quanto “nella nostra natura esiste un sentimento, un senso del giusto e dell’ingiusto, che è anteriore e indipendente da esperienze utilitaristiche”. Come Darwin era partito dallo studio degli allevamenti artificiali, cioè dalla selezione operata dall’intelligenza umana, così l’evoluzionista Wallace conclude ipotizzando all’origine del cosmo una “intelligenza superiore”, analoga a quella, appunto, dell’allevatore o del coltivatore. Il Foglio, 4/12/2009