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Qual è il Mancuso autentico?
Di Francesco Agnoli - 23/11/2009 - Filosofia - 2646 visite - 0 commenti

Si intitola “La vita autentica” il nuovo saggio di Vito Mancuso, il teologo di maggior successo del mondo editoriale italiano. Mancuso torna alle origini, cioè pubblica con Raffaello Cortina, prestigiosa casa editrice che regalò il successo al suo “L’anima e il suo destino”. Sembra quasi un tentativo di rifarsi una verginità intellettuale, dopo il volume “di cassetta” realizzato a quattro mani con Corrado Augias, “Disputa su Dio”, che lo trascinò, suo malgrado, in una imbarazzante polemica.

Si trattava infatti di un testo piuttosto scontato, in cui in fin dei conti il credente Mancuso e l’ateo Augias, dopo aver identificato un nemico comune, la Chiesa cattolica, duellavano stando attenti, soprattutto, a non ferirsi. Poi scoppiò, grazie a Libero, lo scandalo: si scoprì che Augias, oltre alle numerosissime imprecisioni, alle forzature storiografiche e al procedere piuttosto traballante, aveva prelevato di peso dalla rete, senza citarne la fonte, un intero brano del sociobiologo E. O. Wilson, sostenitore dell’idea secondo cui gli uomini, privi di libertà, sarebbero completamente determinati, in ogni loro azione e scelta, esattamente come le formiche, dal loro patrimonio genetico.

Augias si difese in modo piuttosto impacciato, e Mancuso si dichiarò offeso e sminuito dal procedere poco “scientifico” del collega. Ma Mancuso, prima di “Disputa su Dio” e prima di divenire, a Repubblica, il teologo “cattolico” funzionale alla santa crociata antiberlusconiana, aveva esordito in altro modo: prima con un testo filosofico teologico di un certo spessore, poi con articoli piuttosto impegnativi e profondi sul Foglio.

Dopo essere divenuto col tempo, e la fama, il giornalista qualunquista di Repubblica, che spara un giorno sul papa e un giorno sul premier, mescolando sovente i due obiettivi con furore ideologico, deve aver pensato che tutto sommato non è male per un teologo tornare a parlare di “anima” e di questioni spirituali. E’ nato così “La vita autentica”. Anche questa volta il testo è potenzialmente appetibile al grande pubblico. Anche perché è scritto con eleganza e chiarezza. Bisogna riconoscere che l’autore sa essere accattivante e, soprattutto, sa schivare l’oscurità tipica di molti filosofi e teologi. In verità, però, nelle poche pagine del saggio, Mancuso esprime concetti piuttosto banali.

Sostiene ad esempio che l’uomo “autentico” è quello che “ama sopra ogni cosa la verità”, e che per questo deve essere incline da una parte ad “essere fedele a se stesso”, dall’altra a “diffidare di sé”, “a trascendersi”, a riconoscere la propria miseria. Un simile pensiero mi appare certamente condivisibile, anche se non è chiaro cosa alla fine Mancuso intenda per “verità”, e non vi sono mai esempi concreti, tratti ad esempio dalla riflessione bioetica un tempo a lui cara, che lo rendano comprensibile. Si tratta di un modo di procedere piuttosto tipico, questo, di un certo modo cattolico progressista, che non rinuncia alle belle proposizioni di principio, ma omette poi di calarle nella realtà, di incarnarle, per non urtare nessuno.

Insomma un pensiero debole, seppure non debolissimo, che può piacere a tutti, e che, se non piace, quantomeno non urta. Un altro concetto trascinato per svariate pagine, anch’esso di massima condivisibile, è quello secondo cui la vita non è univocamente interpretabile in ogni momento allo stesso modo: essa ci mette talora dinnanzi alla contemplazione di un ordine, di un’armonia, di un Mistero buono e provvidenziale, mentre in altri momenti sembra rivelarsi come assurda, insensata, piena di dolori e interrogativi inevasi.

 Proseguendo Mancuso prende le distanze da molti campioni dello scientismo contemporaneo per i quali la casualità dell’esistenza umana e dell’universo, il fatto che “moriamo quindi per caso come per caso siamo nati” (Boncinelli), sarebbe dimostrabile scientificamente: non mancano illustrissimi scienziati contemporanei, nota, da Dyson a De Duve, che la pensano all’opposto e che riconoscono anche nell’universo fisico una finalità ed un senso. Il centro di tutto, conclude allora Mancuso, “la dimensione peculiare in cui l’Io ultimamente consiste”, “è la libertà”, ed essa non può essere negata né dalle neuroscienze, che non la sanno né possono spiegare, perché “non possono pensare a prescindere dalla materia”, né dalle svariate forme di determinismo che tendono a ridurre l’uomo alle sue componenti materiali (“non siamo riducibili ai neuroni, o alle ossa e ai nervi”).

La libertà, infatti, è per definizione “autonomia dalla materia”, capacità dell’uomo di elevarsi sopra le sue determinazioni biologiche e istintive, a differenza delle pietre, delle piante e degli animali. Così, per una volta, il teologo torna a parlare quantomeno di anima, di verità, di bene, di libertà, le parole che forse, anche perché sempre più desuete, avevano affascinato i suoi primi lettori. Ma lo fa con quella leggerezza, si diceva, che sterilizza anche le idee più nobili e le rende sostanzialmente inerti.

Come si declina, concretamente, la libertà? Quali sono, se ne ha, i suoi limiti? Esiste una Verità alla luce della quale giudicarla, cioè ad essa superiore? Queste e altre domande fondamentali rimangono inevase, mentre al lettore, alla fine del libro, ne sorgono delle altre.

Qual è il Mancuso “autentico”? Quello che fu sacerdote di santa romana Chiesa, o quello che non perde occasione per gettare ogni sorta di veleno su di essa, criticando radicalmente non l’infedeltà, inevitabile, di alcuni suoi membri, ma l’istituzione stessa? Quello vero è il Mancuso che una volta scoperti i copia e incolla del suo amico Corrado Augias, ne prese pubblicamente le distanze, o quello che continua a presentare insieme a lui, in giro per il paese, il fortunato (economicamente) libro che scrissero a quattro mani? Quello autentico, ancora, è quello che si scandalizza per le vere o presunte avventure dongiovannesche del premier, e lancia pesantissimi anatemi contro chiunque semplicemente lo saluti, o quello che scrive su un quotidiano da sempre molto libertino, il cui fondatore Eugenio Scalfari, nella sua autobiografia, racconta tranquillamente di aver fatto le sue prime esperienze col gentil sesso, per vincere la “timidezza”, in un bordello?

Quello vero è il teologo che ha anche rivendicato l’umanità dell’embrione e del feto, nei suoi scritti passati, o quello che dinanzi alla legalizzazione della Ru 486, vero pesticida umano per grandi e piccini, finisce come sempre per prendersela col papa e col governo? (Libero, 19/11/2009)

Infine, leggendo approfonditamente il libro, ci accorgiamo che il Mancuso che vi compare la pensa molto diversamente, seppure quasi a bassa voce, dai suoi colleghi di Repubblica. Cosa può avere a che fare, infatti, con la “vita autenticità”, un Corrado Augias che sforna libelli pieni di imprecisioni e calunnie, lui che collaborava coi servizi segreti di un regime comunista, ferocemente repressivo di ogni libertà? Che relazione tra il riconoscimento della libertà, l’ottica antiscientista di Mancuso, la sua fiducia in un significato della vita umana, e il casualismo di Scalfari, che arriva a equiparare l’uomo ad una mosca (“l’uomo è una forma della natura come la mosca”), perché entrambi sarebbero prodotti di una natura che ciecamente “esplode forme continuamente nel modo più casuale”?

Che rapporto può esistere tra l’Io libero e teso verso verità, bene, giustizia, per quanto indefiniti, di Mancuso, e l’Io che Scalfari considera una “gabbia”, un “capriccioso dittatore”, un “prigioniero” da distruggere? Che relazione, ancora, tra l’umanità di Mancuso e il transumanismo di un altro giornalista di Repubblica, il marxista Aldo Schiavone, secondo il quale la tecnica ci permetterà a breve di spostare la nostra coscienza su supporti removibili e di conservare post mortem, dopo il seme e gli ovuli, le funzioni di un individuo, il suo pensiero, la sua personalità, entro strutture biotech?

Che cosa c’è, infine, di comune tra la tensione ai valori spirituali che caratterizzerebbero la ricerca di una vita autentica e libera, e il sogno di un altro collaboratore di Repubblica, quel Desmond Morris che definisce l’uomo una “scimmia nuda” e che implora dalla scienza un’immortalità pesantemente terrestre, senza personalità né autenticità alcuna, allorché scrive: “Se solo il mio cervello potesse essere inserito nel cranio di un giovane morto per trauma cranico…potrei ricominciare da capo e godermi un altro po’di vita su questo nostro piccolo, affascinante pianeta” (Repubblica 10/4/2008)?

 
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