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Platone è lo scopritore della teoria delle idee, cioè di una fondamentale verità ontologica che è al contempo anche una fondamentale verità gnoseologica, vale a dire antropologica.
L’esistenza delle idee, infatti, con tutte le loro caratteristiche, indica e dimostra l’esistenza della realtà soprasensibile, e allo stesso tempo mostra la natura soprasensibile del soggetto umano che le conosce. L’uomo cioè, per il fatto di conoscere e possedere delle idee, manifesta la sua irriducibilità al dato finito e meccanico. Non a caso Platone associa alla teoria delle idee quella dell’immortalità dell’anima.
Le idee esprimono l’essenza stabile delle cose, immutabile rispetto alla mutabilità delle singole realizzazioni (l’idea di cavallo è immutabile, nonostante che i singoli cavalli muoiano e vengano rimpiazzati da altri): […] è evidente che le cose in se stesse hanno una propria essenza stabile, non sono per rapporto con noi, né sono trascinate da noi in su e in giù con la nostra immaginazione, bensì sono per se stesse in rapporto con la loro essenza, come sono per natura . […] c’è di ciascuna cosa un genere e una essenza in sé e per sé Dunque la realtà si pone su due piani diversi: uno immutabile ed eterno, colto dall’intelletto; l’altro mutabile e transitorio, colto con i sensi: […] vi è una forma di realtà che è sempre allo stesso modo, ingenerata ed imperitura, che non accoglie dal di fuori altra cosa, né essa passa mai in altra cosa, e non è visibile né percepibile con altro senso. Ed è questo, appunto, che all’intelligenza toccò in sorte di contemplare. E bisogna ammettere che di nome uguale e ad essa somigliante vi è una seconda forma di realtà che è sensibile, generata in continuo movimento, che nasce in un qualche luogo e nuovamente di là perisce. E questa si comprende con l’opinione che si accompagna alla sensazione.
In questo importante passo del Fedone, che riprende le cose sopra esposte, Platone applica la teoria ontologica delle idee – cioè della realtà soprasensibile “ingenerata e imperitura”, “non visibile”, assoluta, in sé e per sé, vale a dire ciò che è “puro, eterno, immortale, immutabile” – all’uomo.
Quest’ultimo infatti possiede l’intelligenza che gli permette di cogliere questa realtà soprasensibile e invisibile, oltre alla corporeità che gli permette di percepire ciò che è mutevole, visibile, sensibile. Dunque l’intelligenza non è riducibile alla corporeità, ma si ricollega ad una realtà diversa che caratterizza l’uomo, cioè l’anima.
Mentre la sensibilità è affine a ciò che è corporeo, l’intelligenza è affine a ciò che è soprasensibile, cioè a ciò che ha le caratteristiche del ‘divino’: " La realtà in sé, quella realtà del cui essere noi diamo conto formulando domande e dando risposte, si trova sempre nelle medesime condizioni, o a volte in un modo e a volte in un altro? L'uguale in sé, il bello in sé e ciascun'altra cosa che è in sé, insomma il puro essere, può mai subire in sé mutazione alcuna, di qualsiasi genere essa sia? Oppure ciascuna di queste cose che è in sé, essendo e uniforme ed in sé e per sé, si trova sempre nella medesima condizione e non può subire mai, per nessuna ragione e in nessun modo, alcuna alterazione? "
"E' necessario, o Socrate, che rimanga sempre nella medesima condizione " rispose Cebete.
" E che diremo delle molte cose belle, come ad esempio uomini, vestimenti, e di tutte le altre cose di questo genere, che designamo come "belle" o come " uguali", e di tutte le altre cose che designamo con lo stesso nome che hanno le cose in sé? Permangono sempre nella medesima condizione, o, proprio al contrario delle cose in se, non sono mai identiche né rispetto a se medesime né rispetto alle altre e, in una parola, non sono mai in alcun modo nelle medesime condizioni? '".
"E' proprio così " disse Cebete. " Non permangono mai nelle medesime condizioni ". "E non è forse vero che, mentre queste cose mutevoli tu le puoi vedere o toccare o percepire con gli altri sensi corporei, quelle, invece, che permangono sempre identiche non c'è altro mezzo con cui si possano cogliere, se non col puro raziocinio e con la mente, perché queste cose sono invisibili e non si possono cogliere con la vista ? "
" Verissimo " rispose " è quello che dici ". " Poniamo dunque, se vuoi, " egli soggiunse " due specie di esseri: una visibile e l'altra invisibile"
" Poniamole " rispose.
" E che l'invisibile permanga sempre nella medesima condizione e che il visibile non permanga mai nella medesima condizione ".
" Poniamo anche questo " disse.
" Ebbene, che altro c'è in noi " riprese Socrate " se non, da un lato, il corpo e, dall'altro, l'anima?
" Non c'è altro" disse.
" E il corpo a quale delle due specie di cose diremo che è più simile e più affine? ".
" E' chiaro a tutti che è più simile e più affine alla specie visibile ".
" E l'anima è visibile o è invisibile? ".
" Agli uomini, almeno, o Socrate, non è visibile" disse.
" Ma noi non stiamo ora parlando di cose visibili o invisibili alla natura umana? O tu pensi a qualche altra natura? ".
" Sì, alla natura umana". " Che cosa diciamo, dunque, dell'anima? Che è visibile o che non è visibile?". " Che non è visibile".
" Allora è invisibile ". " Si".
" Dunque, l'anima è più simile all'invisibile che non il corpo; questo, invece, è più simile al visibile ".
" Di necessità, o Socrate ".
"E non dicevamo poco fa anche questo: che, cioè, quando l'anima si avvale del suo corpo per fare qualche indagine, servendosi della vista o dell'udito o di altra percezione sensoriale (infatti far ricerca per mezzo del corpo significa far ricerca per mezzo dei sensi), allora essa è tratta dal corpo verso le cose che non permangono mai identiche ed erra e si confonde e barcolla come ubriaca, perché tali sono appunto le cose cui si attacca? "
" Certamente ".
" Ma quando l'anima, restando in sè sola e per sè sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, avendo natura affine a quello, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sè e per sè sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato dell'anima si chiama intelligenza" .
"Perfetto !" disse.
"Ciò che tu dici è bello e vero, o Socrate ".
" Orbene, in base alle cose dette prima e a quelle che abbiamo dette ora, a quale delle due specie a te pare che l'anima assomigli di più? ". "A me pare, o Socrate, che chiunque, anche il più duro di mente, debba ammettere, messo così sulla strada, che l'anima, sotto ogni rispetto, è più simile a ciò che è immutabile che non a ciò che non è immutabile".
" E il corpo? ". " All'altro" . " Considera ora la questione anche da quest'altro punto di vista. Quando anima e corpo sono uniti insieme, la natura impone al corpo di servire e di lasciarsi governare e all'anima di dominare e di governare. Orbene, anche per questo rispetto, quale dei due ti pare simile a ciò che è divino e quale a ciò che è mortale? O non ti pare che ciò che è divino debba governare e comandare, e ciò che è mortale debba essere governato e servire?".
"A me pare". " Dunque l'anima a quale dei due assomiglia? "
"E' chiaro, o Socrate, che l'anima assomiglia a ciò che è divino e che il corpo assomiglia a, ciò che è mortale " . " E ora osserva, o Cebete, se dalle cose che abbiamo dette non consegue che l'anima sia in sommo grado simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme, indissolubile, sempre identico a se medesimo, mentre il corpo è in sommo grado simile a ciò che è umano, mortale, multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai identico a se medesimo. Abbiamo qualcosa da dire contro queste conclusioni, o Cebete? O non è così? ". "No, non abbiamo nulla da dire".
L’anima dunque “è la dimensione intelligibile, metempirica, incorruttibile dell’uomo” .
Ciò comporta la sua immortalità, in quanto distinta radicalmente da ciò che è corporeo e quindi mortale. Oltre alla prova già contenuta nella citazione precedente, Platone aggiunge anche quest’altra nel Fedro: Ma, poiché si è dimostrato che è immortale ciò che si muove da sé, nessuno proverà vergogna nell'affermare che appunto questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti, ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno, è inanimato; invece, quello a cui proviene dal suo interno e da se stesso è animato, perché la natura dell'anima è appunto questa. Ma se è cosi, ossia se ciò che muove se stesso non può essere altro se non l'anima, allora, di necessità, l'anima dovrà essere ingenerata e altresì immortale.
Anche le cosiddette “dottrine non scritte” di Platone, che costituiscono il vertice della sua ontologia, indicano la grandezza del soggetto uomo, che si scopre in relazione con l’essere ultimo e assoluto. Tali dottrine non scritte cercano di portare a compimento il discorso ontologico sviluppato con la teoria delle idee.
Queste ultime, per quanto pressoché divine, non possono infatti costituire il livello ultimo dell’essere, in quanto sono molteplici e non possono quindi rappresentare quel principio unitario cui tutto l’essere rimanda: anche le idee in definitiva fanno parte dell’essere, che è una realtà insieme unica e molteplice. L’essere è ultimamente l’Uno. Nello stesso tempo questo Uno è il Bene. E’ questo il fondo, l’orizzonte, la fonte di tutto l’essere. La cosa straordinaria è che l’uomo, con l’atto più serio della sua razionalità, lo intuisce: […] l'idea del bene è il limite estremo del mondo intellegibile e si discerne a fatica, ma quando la si è vista bisogna dedurre che essa è per tutti causa di tutto ciò che è giusto e bello: nel mondo visibile ha generato la luce e il suo signore, in quello intelligibile essa stessa, da sovrana, elargisce verità e intelletto, e chi vuole avere una condotta saggia sia in privato sia in pubblico deve contemplare questa idea».
Il Bene stesso comunica la conoscenza di lui, cioè la verità, rimanendo egli superiore a tale conoscenza; la conoscenza comunque di questa realtà superiore è la qualità più alta dell’uomo e lo rende un soggetto eccelso:
Ora, questo elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi conosce la facoltà di conoscere, di’ pure che è l’Idea del Bene; e devi pensarla causa della scienza e della verità, in quanto conosciute. Ma per belle che siano ambedue, conoscenza e verità, avrai ragione se riterrai che diverso e ancora più bello di loro sia quell’elemento. E come in quell’altro àmbito è giusto giudicare simili al sole la luce e la vista, ma non ritenerle il sole, così anche in questo è giusto giudicare simili al Bene ambedue questi valori, la scienza e la verità, ma non ritenere il Bene l’una o l’altra delle due. La condizione del Bene dev’essere tenuta in pregio ancora maggiore. […] anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal Bene la proprietà dì essere conosciuti, ma ne ottengono ancora l’essere e la sostanza, anche se il Bene non è sostanza, ma qualcosa che per dignità è potenza trascende la sostanza.
Se dunque già la teoria delle idee mostrava la trascendenza dell’uomo, tanto più la consapevolezza del livello ultimo dell’essere, cioè dell’Uno-Bene, suggella questa trascendenza come un fatto imponente e ineludibile.
La metafisica platonica costringe a prendere atto del mistero uomo, un essere che si colloca sia nella dimensione sensibile che in quella soprasensibile.