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Ayala e Boncinelli: due darwinismi molto diversi.
Di Francesco Agnoli - 02/11/2009 - Darwinismo - 2294 visite - 0 commenti

In libreria mi sono trovato dinanzi a due nuovi libri sul darwinismo. Il primo, intitolato “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli, il secondo, “L’evoluzione”, di Francisco J. Ayala, definito dal Times “l’uomo della rinascita dell’evoluzione”.

 Nella scelta tra i due ho deciso di scartare il primo, per due motivi. Anzitutto perchè il professor Boncinelli non può aver nulla di nuovo da dire, sul piano scientifico, rispetto al suo recentissimo “Le forme della vita” (Einaudi), in cui a pagina 139 si può leggere: “Fin dall’inizio si è chiarito che questa teoria (neodarwiniana, ndr) spiega benissimo certe cose, meno bene certe altre e pochissimo altre ancora. Quello che è successo prima della cosiddetta esplosione del Cambiano e gli eventi che hanno portato all’evoluzione della specie umana esulano un po’ da ciò che la teoria spiega bene”.

 Questa incapacità di spiegare, alla luce solamente di caso e necessità, l’unicità umana, l’intelligenza, il linguaggio, la libertà, l’idea di Dio, eccetera, è infatti risaputa. In secondo luogo mi è sembrato opportuno non spendere altri soldi per conoscere il pensiero filosofico di Boncinelli, perché è anch’esso già noto e, a mio modesto parere, non propriamente all’altezza degli Aristotele o dei Tommaso: Boncinelli infatti, pur ammettendo che l’unicità dell’uomo sfugge ad una spiegazione puramente materialistica, afferma poi con sicurezza adamantina che “moriamo quindi per caso come per caso siamo nati”, offrendo una “risposta” dogmatica alle domande ultime dell’esistenza che avrebbe scandalizzato anche Darwin.

Egli infatti, lungi dall’affermare un ateismo roccioso, si definiva agnostico, e a parte alcune violente suggestioni materialiste, nel complesso considerava il suo pensiero sull’esistenza di Dio e di un disegno dell’universo “fluttuante”, instabile, incerto. Ad un corrispondente olandese, per esempio, ebbe modo di scrivere che “l’impossibilità di pensare che questo grandioso e meraviglioso universo, insieme a noi esseri coscienti, sia nato per caso, mi sembra il principale argomento a favore dell’esistenza di Dio”, salvo poi aggiungere però che “l’intera questione si trova al di là della portata dell’intelletto umano” (Randal Keynes, Casa Darwin, Einaudi).

Ho scelto dunque l’opera di Francisco Ayala, che poi mi è parsa ben più prudente e meno ideologica. Ayala dedica un capitolo del libro all’ “unicità dell’uomo”, sostenendo che “gli uomini sono sì animali, ma di un genere del tutto particolare”: “per certi aspetti biologici siamo molto simili alle scimmie, per altri aspetti biologici siamo molto diversi, e in queste differenze sta la base valida per uno sguardo religioso sull’uomo come creatura speciale di Dio, e per una coscienza di che cosa ci renda squisitamente umani”.

 A fare la differenza vi sono almeno due caratteristiche peculiari dell’anatomia umana: la stazione eretta e un cervello che “rende possibili i ragionamenti astratti, il linguaggio e la tecnica”. Alle differenze anatomiche vanno poi aggiunte quelle comportamentali, “oltre la biologia”, tra cui il senso morale: se per Darwin anch’esso sarebbe rintracciabile solo in grado diverso negli animali, per Ayala “agli animali non riconosciamo alcun comportamento morale (o senz’altro non a tutti e in ogni caso non nella stessa misura che per gli uomini)”. Non siamo dunque creature in tutto determinate biologicamente, né il nostro altruismo è solo funzionale alla conservazione della specie, iscritto nei nostri “geni egoisti”, istintivo, puramente utilitaristico, come vorrebbero i darwinisti materialisti e i sociobiologi.

Al contrario “alcune norme (umane, ndr) potrebbero non favorire, anzi ostacolare la sopravvivenza e la riproduzione dell’individuo e dei suoi geni, sopravvivenza e riproduzione che sono gli obiettivi dell’evoluzione biologica”. Interessantissimo mi sembra, per concludere, questo passaggio: “Niente nella natura del processo evolutivo rappresenta una premessa verosimile per la nascita degli eucarioti. E non c’è nemmeno niente che renda probabile l’evoluzione degli organismi pluricellulari. Ancor meno la comparsa degli animali…Riattivando il nastro della vita le improbabilità si moltiplicano di anno in anno di generazione in generazione, milioni e milioni di volte. Il numero di improbabilità che risulta è di tale portata che, se ci fossero anche milioni di universi grandi come quello che conosciamo, la probabilità per l’uomo rimarrebbe infinitesimale anche dopo aver moltiplicato le improbabilità per il numero dei pianeti possibili. Queste improbabilità non sono da applicarsi solo ad homo sapiens ma anche ad ‘organismi intelligenti con cui è possibile comunicare’… Non ci resta che concludere che gli esseri umani sono soli nell’immenso universo e che saremo sempre soli”.

Ora se ammettiamo l’estrema improbabilità della vita, in tutte le sue forme, rimangano solo due conclusioni logiche: l’uomo è, come vogliono Boncinelli e Monod, un numero, ma veramente fortunatissimo, irripetibile, uscito ad una roulette che produce tutti numeri unici e fortunatissimi (eucarioti, organismi pluricelulari, animali…); oppure l’infinita improbabilità delle svariate forme di vita richiede un progetto, un disegno, una causa intelligente, e l’infinita improbabilità dell’uomo è una prova logica del fatto che, pur non essendo necessari, siamo però voluti e pensati.

Nel primo caso faremo un atto di fede, cieca, nel Caso (cieco per definizione), evitando di spacciarlo per un atto scientifico; nel secondo un atto di fede, fondato sulla ragionevolezza umana, che cerca ed esige il perché, in Dio (Il Foglio, 22/10/2009)

 
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