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C’è molta euforia nelle parole di Armando Massarenti quando commenta, come ha fatto sabato scorso sulle colonne de Il Sole 24 Ore, i risultati di un’indagine di Observa, l’Osservatorio scienza e società istituito nel 2002 per monitorare tendenze e orientamenti dell’opinione pubblica italiana sui temi eticamente sensibili, secondo i quali due italiano su tre, precisamente il 66%, sa definire che cosa sia il testamento biologico. C’è di più: pare che addirittura il 73% degli italiani ritenga giusto sospendere la somministrazione di acqua e cibo, percentuale che, conoscendo il liberalismo di Massarenti, lo renderà assai ilare. Peccato che questi numeri, della cui attendibilità statistica nessuno dubita a priori, significhino ben poco. Per almeno due ragioni. La prima: tra definire cosa sia il testamento biologico e sapere effettivamente in che cosa consista, ovvero aver consapevolezza del complesso incrocio che verrebbe a configurarsi tra volontà del testatore, l’interpretazione del medico e quella del fiduciario, ce ne passa. La seconda: per quanto pregevole, stiamo parlando di un solo studio, dicasi uno. E data l’intrinseca mutevolezza del parere sondato, saggezza imporrebbe di andar cauti ad affermare, come fa Massirenti, che il “testamento non è ignoto” (Il Sole 24 Ore, 3/10/2009). Anche perché è di pochi mesi addietro uno studio di Mannheimer, altrettanto autorevole, che fotografava una realtà diversa, che vedeva un italiano su due del tutto ignorante quanto al biotestamento.
Certo, mesi di bombardamento mediatico avranno dato i loro frutti, ma da qui ad individuare nell’italiano medio un bioeticista provetto, consentiteci, la prudenza è d’obbligo. Tra l’altro apprendiamo con sorpresa una rinnovata attenzione di certi ambienti dopo che, in seguito all’epocale batosta referendaria del 2005, molti intellettuali, scossi nelle loro effimere certezze di presunti conoscitori dell’opinione pubblica, avevano trovato riparo dietro la manfrina del popolino ignorante e parrocchiale. Meglio tardi che mai, verrebbe da aggiungere. Ad ogni modo il testamento biologico è forse la più complessa delle casistiche che il dibattito in bioetica abbia mai esplorato, e se diversi Paesi europei, per prassi o per legge, l’hanno autorizzato, questa non è affatto una buona ragione per liquidare, come tanti cervelloni vorrebbero, la questione come risolta. Del resto, casi agghiaccianti che mettono in crisi la presunta eticità delle direttive anticipate di trattamento di certo non mancano.
E’ solo di venerdì scorso la denuncia di tre quotidiani italiani della vicenda di Kerrie Wooltorton, ventiseienne inglese che, giunta in ospedale in seguito a volontario avvelenamento, ha esibito ai medici pronti a soccorrerla un foglietto nel quale documentava la propria volontà di non essere curata. Risultato: la giovane, in seguito alla massiccia dose di anticongelante ingerito, se n’è andata proprio come voleva, tra l’incredulità dei medici timorosi di incorrere nell’illegalità qualora avessero agito per salvarla. Domanda: è giusto che uno stato tuteli l’aspirante suicida di turno paralizzando ogni soccorso, pena azioni giudiziarie? Contrariamente alle conclusioni che Massirenti trae con tanta, compiaciuta disinvoltura, quasi che il pubblico consenso bastasse a conferire bontà ad una pratica, il dibattito sul testamento biologico è da considerarsi tutt’altro che esaurito. Lo prova, senza scomodare auliche elucubrazioni, l’impeccabile ragionamento di un pensionato romano che in una lettera si è chiesto:”Se io, ora che sono sano, firmo un bio-testamento ma dopo, nel momento cruciale, quando non ho più possibilità di farmi capire, non desidero più accorciare la mia vita perché sento e vedo ancora, come faccio a tornare indietro dal momento che mi fanno morire di fame e di sete? In pratica avrei firmato la mia condanna a morte” (La Stampa, 3/10/2009). Esattamente.