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La manifestazione per la libertà di stampa di oggi mi pare un evento ridicolo e paradossale.
Anzitutto perché è nata anche con la scusa di voler difendere Dino Boffo, direttore di Avvenire, che per la stampa di sinistra era, sino al giorno prima del linciaggio organizzato da Feltri, un nemico, quasi innominabile. Un nemico che ora fa comodo difendere, strumentalmente…
In secondo luogo perché l’amore per la libertà di certa sinistra è totalmente da dimostrare: nel mio piccolo ho raccattato due processi, con i due collaboratori di quattro giornali: uno da parte di Flamigni (Liberazione, Unità), e uno da parte di Veronesi (Corriere, Repubblica). E si badi, non certo per aver preso di mira vicende private, o aver portato in piazza indagini sulle loro favolose ricchezze (Veronesi dichiara 1.7 milioni di euro all’anno, mentre Flamigni è noto come uno degli uomini più ricchi di Bologna…?): solo per aver contrastato ad esempio il gusto del primo a sperimentare sulle persone e sugli embrioni, e l’idea del secondo che la clonazione sia cosa buona per l’umanità. Anche Boffo da questi signori libertari di denunce ne ha prese, non poche, senza che nessuno a sinistra si dichiarasse solidale…
In terzo luogo perché non capisco quale possa essere il regime di cui si parla: Santoro, la cui faziosità e arroganza non ha limiti, Floris, Fazio, Littizzetto, Berlinguer, Gabanelli, Annunziata, Lerner, Gruber, Costanzo, Augias, Dandini, Guzzanti (sino a poco fa anche Biagi, il turpe Luttazzi…)…e la gran parte dei volti noti della tv, quelli tra il resto che fanno politica, sono di sinistra e, per quanto mi riguarda, anti-cristiani. La gran parte dei giornali quotidiani, sono anch’essi di sinistra: Repubblica, Unità, Liberazione, Europa, Terra, L’Altro, il Fatto…. Di quale regime, ripeto, si sta parlando?
I giornalisti e i politici giustizialisti, sempre pronti ad invocare il tintinnio di manette, amano parlare di Unità, e cercano discordia; di Repubblica, e rimangono spesso, nell’animo, dei giacobini; di Fatto, e propongono interpretazioni forzate, linciaggi pubblici ed anticipano condanne inesistenti; di Liberazione, ed intendono la schiavitù del vizio e del nichilismo; di rispetto dell’Altro, del diverso e del lontano, e tifano per l’aborto e l’eutanasia sul vicino; di libertà di stampa, e pensano alla licenza di insultare e di demonizzare quotidianamente l’avversario; di democrazia, e sognano sempre il colpo che abbatta i governi legalmente eletti con l’aiuto di qualche magistrato; di pacifismo, e tengono in tasca la spillina con la falce ed il martello; di tolleranza e pluralismo, ed invocano la disciplina di partito nelle questioni bioetiche (vedi Ru 486 e testamento biologico), affinché nessuno possa violare il diktat anticristiano dominante…Ecco, per tutti costoro avrei da proporre un sinistro patrono, il primo grande giornalista e politico giustizialista dell’età contemporanea: Jan Paul Marat.
Due parole si di lui. Marat è un giovane francese, con ascendenze sarde e calviniste, che fin da bambino è contrassegnato dalla tenace volontà di diventare “qualcuno”. Una volta, scrive un suo biografo, Italo Sulliotti, si rivolge sdegnosamente verso i compagni e dice loro: “fra pochi anni sarò il vostro professore”. Per anni il nostro tenta la fortuna e la fama, cercando soprattutto di diventare un medico famoso. Ma nella professione non riesce più di tanto ed il suo animo comincia ad esacerbarsi. Allo scoppio della rivoluzione francese, questo borghese istruito è in realtà un frustrato, insoddisfatto, che vede piano piano in questo avvenimento la possibilità di diventare “qualcuno”. Inizia così, “nelle umide cantine di Parigi”, a “stampare il piccolo foglio nel quale si distilla l’odio e si domanda la strage”, nel quale si invoca la dittatura, sotto un titolo democratico, accattivante, tollerantissimo, repubblicano: “L’amico del popolo”. Colui che diventerà la “molla della ghigliottina”, è ora il “re del pamphlet”, l’autore di un quotidiano che incita all’odio, alla strage, alla devastazione, con toni eccitati, con il gusto sadico di chi si crede l’unico giusto sulla terra. Marat è un “demolitore di uomini”, un “cannibale di reputazioni”, un abile dissodatore del terreno che porterà alla Grande paura e al Terrore sinistro dei giacobini, che in nome della laicità eliminerà a migliaia i religiosi, e in nome della democrazia ucciderà i parlamentari girondini e proclamerà la dittatura, con l’alleanza dei “tribunali del popolo” (lo stesso nome che useranno nazisti e comunisti).
Scrive Marat: “rinchiudete l’austriaca e suo cognato, impadronitevi di tutti i ministri e dei loro commessi, metteteli in catene…Cinque o seicento teste abbattute a tempo vi avrebbero procurato riposo, libertà e felicità: un falso umanitarismo ha trattenuto il vostro braccio e sospeso i vostri colpi…”. Più avanti: “Tre mesi orsono ho invocato la condanna capitale di seicento colpevoli: seicento capestri avrebbero salvato la Francia. Non mi avete ascoltato. Oggi non sono più seicento; sono ventimila le teste che bisogna abbattere”.
Nell’agosto del 1790 Marat si fa difensore intrepido della libertà di stampa: spiega che “incatenare la comunicazione del pensiero significa impedire che gli uomini siano uomini”, che “solo i tiranni agiscono così perché sono avvoltoi che vogliono mozzare le ali ai piccioni per poterseli mangiare con più comodo”. Lasciate la libertà di stampa, urla, e “allora la verità trionferà, i pregiudizi spariranno e il dispotismo non risusciterà mai più”. Manca poco alla dittatura di cui lui sarà uno dei pionieri; a breve l’odio distillato sulla carta, diverrà sangue versato sulla ghigliottina. A breve il dispotismo diverrà così terribile che la gente incomincerà ad armarsi e a tentare di riportare sul trono il vecchio re. A breve scriverà: “Abbattete poi, senza esitazione, la testa dei Generali, dei Ministri e degli ex Ministri controrivoluzionari; passate a fil di spada tutto lo Stato Maggiore parigino, tutti i neri dell’Assemblea Nazionale, tutti i partigiani riconosciuti del dispotismo…”.
La sua mano frenetica non si stanca mai: scrive articoli con la stessa foga con cui, un giorno, ottenuto il potere politico, stilerà liste di proscrizione degli avversari politici. Il 23 giugno 1793, dopo le vittorie dei vandeani ribelli contro la libertè giacobina, l’uomo della libertà di stampa, non più all’ “opposizione”, chiede ora la censura: “Se la libertà delle opinioni deve essere illimitata, ciò è per servire la patria e per non perderla. Tutto deve essere lecito per fare il bene e nulla deve essere lecito per fare il male…perciò guerra senza quartiere ai libellisti stipendiati che calunniano la rivoluzione, che diffamano le operazioni delle autorità costituite fedeli alla patria, che pervertono lo spirito pubblico. Le loro macchine da stampare devono essere spezzate ed essi chiusi in case di correzione…”.
Ecco, a me pare che il sedicente “democratico” Marat possa andare benissimo per l’Italia di oggi, in cui l’ “antifascismo” è diventata la scusa, da cinquant’anni, per un dominio culturale della sinistra più intollerante e nichilista, che si sente sempre, proprio come Marat, al di sopra di ogni giudizio, legittimata ad ogni demonizzazione e mostrificazione dell’avversario, politico o ideale che sia. (il Foglio, 1/10/2009)