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Benedetto XVI parla del divorzio.
Di Francesco Agnoli - 26/09/2009 - Divorzio - 2518 visite - 0 commenti

Il divorzio, la convivenza e le famiglie allargate rovinano la vita di molti bambini, spesso "privati dell’appoggio dei genitori, vittime del malessere e dell’abbandono", e "che si sentono orfani non perchè figli senza genitori, ma perchè figli che ne hanno troppi".

Papa Benedetto XVI, parlando a un gruppo di vescovi brasiliani in visita ad limina, denuncia un "assedio alla famiglia" basata sul matrimonio tra uomo e donna e "la profonda incertezza" diffusa nel "mondo secolarizzato specialmente da quando le società occidentali hanno legalizzato il divorzio". Sin qui il papa. Proverò ad argomentare il perchè di questa posizione.

L’indissolubilità del matrimonio, il divorzio e i suoi effetti.

Discutere sull’indissolubilità del matrimonio, oggi, non è certo facile. Tutti abbiamo esperienza della fallibilità umana, della nostra miseria, della litigiosità che caratterizza certe coppie o certi momenti del rapporto coniugale. Nel passato pre-cristiano il divorzio esisteva, nella forma del ripudio dell’uomo nei confronti della donna. Il contrario non era possibile. In molti periodi i divorzi crescevano, e lo stato, gli imperatori, i re di turno, solitamente, cercavano di correre ai ripari, di mettere dei freni, di aumentare la dignità culturale, giuridica, rituale, del matrimonio. Perché tutti avevano consapevolezza che più il matrimonio tiene, più la società è stabile e serena.

Nell’antica Roma ad assistere al matrimonio di una giovane coppia vi era una donna sposata una volta sola, come testimone e auspicio. La cerimonia era lunga, solenne, per sottolineare l’importanza di ciò che stava avvenendo. Questo significa che nonostante la duritia cordis di cui parla Gesù, riferendosi al ripudio concesso nell’Antico Testamento, vigeva l’idea che l’unione stabile e fedele fosse il meglio per tutti.

Col cristianesimo si afferma il matrimonio monogamico indissolubile, che è anche la consacrazione concreta della pari dignità tra uomo e donna. L’uomo non può più ripudiare la propria sposa, ma neppure la donna può sciogliere il vincolo matrimoniale assunto liberamente, in presenza di testimoni umani e di Dio stesso. L’uomo e la donna diventano veramente, almeno nell’ideale, complementari, “un solo corpo e una sola carne”. Il vincolo che li lega, li unisce tra loro, ed è garante della loro responsabilità verso figli e la comunità. Così, il divorzio, per secoli, non è neppure contemplabile come istituto pubblico. Certo, ci sono delle separazioni, ci sono famiglie che si rompono, e famiglie irregolari, ma comunque la separazione è sempre un’extrema ratio che non cancella del tutto il matrimonio precedente.

Così sino ad Enrico VIII prima e Napoleone poi: costoro sono i primi a legalizzare il divorzio nel loro paese, a ben vedere servendosene come di una nuova forma di ripudio, per sbarazzarsi della loro legittima consorte. Perché dunque per tanti secoli una simile contrarietà all’istituto del divorzio? Perché “in presenza di casi in cui una parte della realtà si svolge in difformità dai principi e dalle norme è socialmente meglio lasciare che questi casi si svolgano fuori della legalità, anziché modificare la legalità per ricomprendere quei casi”.

L’eccezione, che pure è prevedibile, non deve determinare la regola, perché i casi “sfortunati” non possono divenire la norma, neppure da un punto di vista ideale, se non si vuole indebolire l’istituto, la norma stessa. La legalità, ciò che è riconosciuto come bene, il dover essere, infatti, hanno una funzione essenziale nella vita dell’uomo: lo influenzano, lo educano, lo spingono ad assumersi le responsabilità con una certa consapevolezza. Sapere che il matrimonio è una scelta per la vita, porta certamente a darle il giusto peso, a prepararlo con grande attenzione, a viverlo, anche nei momenti di difficoltà, con quella capacità di sacrificio e di rinuncia che possono rimuovere ogni ostacolo e rilanciare l’amore tra due persone.

 E poi il matrimonio non è solamente l’esperienza romantica e sentimentale di due persone: permane anche quando l’amore viene meno: ci sono infatti dei figli, verso i quali gli sposi hanno un dovere e che hanno bisogno di due genitori, di due figure complementari e diverse. La famiglia è infatti la mirabile unione di età, generi, e ruoli diversi: è qui che si imparano il rapporto generazionale, la propria identità sessuale, la solidarietà, la rinuncia, lo stare con gli altri…

Per questo si può essere contrari alla legalizzazione del divorzio anche senza essere credenti, cattolici. Piero Ottone, direttore liberale e laico del Corriere della Sera, nel 1964 scriveva: “Se fossi vissuto sempre in Italia probabilmente sarei un divorzista. Ho invece trascorso una quindicina di anni in paesi nei quali vige il divorzio (sappiamo del resto che vige quasi ovunque). Sulla base di quel che ho visto e sentito, ho acquistato alcune convinzioni che cercherò di riassumere, e che sono, comunque, contrarie al divorzio…non perché contrasti con la morale cristiana, che rispetto, ma che non intendo prendere in considerazione (Ottone si schiererà per l’aborto, ndr) . Bensì perché lo ritengo nocivo, nel complesso, alla società... Il divorzio ha il vantaggio di riparare l’errore di un matrimonio sbagliato e permette di ricominciare. D’accordo. Ma presenta anche uno svantaggio che è, a mio avviso, ancora maggiore. Esso uccide, o riduce fortemente, la volontà dei coniugi di compiere ogni possibile sforzo per salvare un matrimonio pericolante. Dobbiamo ricordare innanzitutto che ogni matrimonio, prima o dopo, corre qualche serio pericolo. Uomini e donne sono troppo diversi gli uni dagli altri per andare costantemente d’accordo…Che cosa succede in questo momento pressoché inevitabile in qualsiasi unione matrimoniale, se esiste la possibilità del divorzio? Quel che succede l’ho visto in Inghilterra, in Germania, in Scandinavia. La possibilità di uscire da una stanza in cui si sta scomodi genera un potente, quasi irresistibile desiderio di uscire, senza tentare di rendere quella stanza, quanto più possibile, comoda e abitabile. E ogni indebolimento della volontà dei coniugi è gravissimo, anzi fatale, perché, nei matrimoni davvero pericolanti, solo un grande sforzo da parte di entrambi, senza indecisioni e incertezze, può salvarli. Ne consegue che l’istituto del divorzio, anche se ha il vantaggio di sanare di tanto in tanto le situazioni insostenibili, ha il gravissimo difetto di indebolire la fibra morale dei cittadini. Esso fa di loro, uomini e donne, persone che fuggono davanti alle difficoltà, e non persone che le affrontano con coraggio. Il danno si ripercuote su tutta la vita sociale. L’indebolimento, inoltre, si ripete a ogni successivo matrimonio di chi si sia già divorziato. L’esperienza dei paesi col divorzio conferma quanto sa benissimo ogni studioso di psicologia. Le difficoltà del primo matrimonio risorgono quasi immutate nel secondo, perché la loro causa fondamentale non risiede nel partner, cioè nell’altro coniuge, bensì in noi stessi…Là dove vige il divorzio è più facile, come in Scandinavia, la gente passa di matrimonio in divorzio tutta la vita. Vi risparmio la descrizione delle conseguenze per i figli, perché furono descritte già migliaia di volte…Sono convinto che l’assenza di divorzio non può salvare tutti i matrimoni, ma ne salva molti che altrimenti finirebbero male. Lo Stato, per la salvezza della famiglia, che è un istituto di importanza ovvia, e per la felicità della maggioranza dei cittadini, fa quindi bene a mio avviso a non permettere il divorzio, anche se questo sacrifica l’esistenza di una minoranza verso i quali tutti sentiamo, si capisce, una profonda comprensione” (citato in Gabrio Lombardi, Perché il referendum sul divorzio?, Ares, 1988).

Nel 1970 viene approvata la legge Fortuna-Baslini, che rende legale il divorzio in Italia. Il mondo cattolico, ormai da un po’ di anni diviso e confuso, non sa come reagire: la Dc non vuole inghippi, non desidera trovarsi in campo aperto, sotto il fuoco della contestazione di quegli anni. Meglio un profilo basso, per non esporsi e non rischiare di perdere potere. Anche la gerarchia ecclesiastica è spaccata: sono in molti gli ecclesiastici di alto e basso grado che non comprendono l’importanza di una battaglia culturale in nome del diritto naturale. Paolo VI stesso, secondo numerose testimonianze, ad esempio di Giulio Andreotti, non vorrebbe che si arrivasse ad uno scontro referendario sul tema.

Abbiamo poi una ampia schiera di cattolici famosi, come Franco Bassanini, Sabino Acquaviva, Pietro Scoppola, Paolo Prodi, Tiziano Treu, Giuseppe Alberigo, Raniero La Valle, Giancarlo Zizola, il rettore della cattolica Giuseppe Lazzati e fratel Carlo Carretto, che in occasione del referendum abrogativo del 1974 si schiereranno in favore del divorzio, sostenuti più o meno silenziosamente da prelati e religiosi, anche di rango. Il divorzio è dunque oggi un dogma intoccabile, ma oggi, dopo 38 anni dalla legge che lo rese legale, è ancora possibile sposare la posizione di Ottone? Certamente, e per farlo si può proporre un bilancio realistico dei fatti. Partirò dalla mia esperienza personale.

Nella mia non lunga carriera di insegnante, capita ormai sempre più spesso. Sono a udienza, si avvicina un genitore, e io mi alzo, gli preparo la sedia, con un po’ di premura, per accogliere il “poveretto”. Dovrò dirgli, penso dentro di me, tutta la verità, perché qua il caso è grave. Spesso, infatti, nicchio, tergiverso, copro anche gli alunni poco studiosi o indisciplinati. Ma quelli che hanno problemi gravi, di personalità, quelli “caratteriali”, mi sembra sia giusto aiutarli, affrontando il problema. Il genitore si siede, e prima che io inizi a spiegare gli strani comportamenti, le anomalie, le tristezze profonde del ragazzo/a, si affretta a dirmi: “Sono venuto io, mio marito (o mia moglie) non c’è, siamo divorziati…ma il ragazzo/a la ha presa bene, ha capito…”.

Ecco, mi è successo troppe volte, ormai, qualcosa di simile, perchè non abbia compreso come stanno le cose: nel 95% dei casi, a stare cauti, i problemi di un ragazzo/a, quelli seri, intendo, sono problemi familiari, dei genitori. I quali in verità, sotto sotto, lo sanno, ma non vogliono ammetterlo. Per questo si consolano dicendo che il figlio ha “capito”, che in fondo è una vicenda ormai diffusa, normale, lo fanno in tanti, come hanno spiegato loro giornali, tv, psicologi e avvocati…Però, quei ragazzi, o ragazze, che magari hanno l’anoressia, un comportamento che sembra schizofrenico, o che addirittura si feriscono e si tagliano sulle braccia o in altre parti del corpo, in verità sono inquieti o apatici, insomma tristi, tristi, talora sino al suicidio. Non hanno “capito” proprio nulla, perché nessuno si rassegna, soprattutto da giovanissimo, a perdere l’affetto di coloro che lo hanno generato, cullato, accudito.

Chi insegna questo lo sa benissimo per esperienza: i casi difficili aumentano sempre di più, proporzionalmente all’aumentare dei divorzi, che, come era prevedibile, crescono di anno in anno (contemporaneamente al diminuire dei matrimoni): il 2006 è stato l’anno dei record nei divorzi, che sono cresciuti del 25%.

 Nel 1975 i divorzi nel Belpaese erano 10.618, nel 1995 erano 27.038, nel 1998 erano 33.510, nel 2002 40.051, nel 2005 47.036 e nel 2006 61.153! Ogni anno che passa sempre più persone stabiliscono di non essere capaci di stare insieme, di condividere lo stesso tetto, di portare avanti uno stesso progetto, di allevare i figli del loro amore. Succede così che negli Usa un terzo dei minori abbia un solo genitore, mentre in Europa del nord, Gran Bretagna e Germania, è un quinto dei figli a non godere del padre o della madre. Senza contare che tra coloro che hanno entrambi i genitori, sempre più spesso uno dei due è semplicemente adottivo. Il divorzio è dunque oggi in Italia una vera emergenza, un’ ecatombe.

Insegnare, ci diciamo spesso tra di noi, diventa sempre più impegnativo e stressante: sempre di più molti ragazzi non sanno concentrarsi, non riescono a stare fermi, non sopportano un minimo di disciplina. Indisciplinati lo diventano, anzitutto, nella testa, piena, purtroppo, di paure, di ansie, di turbamenti, respirati in casa, in famiglia, vivendo accanto a due genitori conflittuali, o passando da una casa all’altra, dalla mamma, alla nonna, al padre, con l’aggiunta, quando va ancora peggio, di nuove figure, nuovi “padri” o “madri”, cioè, secondo un linguaggio antico e ben chiaro, “patrigni” e “matrigne”! E poi, quando succede il patatrac, quando un ragazzo si uccide, quando fugge di casa, quando finisce nella droga, ecco allora che si cercano mille scuse. Sarà questo, sarà quello…

Eppure, anche quando è chiaro che l’unica vera causa è la disgregazione familiare, è la mancanza di amore in cui questi ragazzi sono cresciuti, c’è sempre qualcuno che si affretta a negarlo: no, non si può dire, il divorzio è intoccabile, un “diritto”, una “conquista di civiltà”! Guai solo ad affermare sottovoce che la rottura del vincolo coniugale è anzitutto fonte di infinito dolore e paura nei figli! Guai solo a sussurare che se i giovani esitano a mollare le ancore, se non vogliono affrontare la vita in due, se hanno paura di sposarsi e di fare dei figli, è perché, a loro volta, hanno vissuto sulla loro carne l’insicurezza, l’instabilità, il fallimento dell’amore dei loro genitori.

Come insegnante, questa è la mia esperienza, sempre più triste, e questa anche l’idea che si sono fatti molti colleghi, magari i miei stessi professori di un tempo, incontrati per strada. “Sai, è sempre più dura…c’è qualcosa che non va, un buco nero, in molti giovani”, mi diceva recentemente una vecchia professoressa, che ricordo con simpatia. La stessa esperienza viene oggi raccontata in uno splendido libro, “La fabbrica dei divorzi” (san Paolo, 2008), da un avvocato civilista, Massimiliano Fiorin, del foro di Bologna.

Fiorin descrive con passione, competenza, e logica ferrea, il meccanismo tritacarne dell’individualismo odierno. Avrebbe potuto intitolare il suo libro anche “Come farsi del male”. Al centro della “fabbrica” infatti, c’è la convinzione post sessantottina, per cui il divorzio è un diritto, un bene in sé, un modo per cercare una via alternativa di realizzazione, quando la strada precedentemente imboccata si rivela scomoda e difficile. Il divorzio, spiega Fiorin, fu introdotto in Italia con gli stessi ragionamenti con cui fu legalizzato l’aborto: come estrema ratio, come soluzione a qualche caso difficilissimo, patologico, abnorme. Si può uccidere il figlio, sì, ma solo in determinate e rarissime circostanze. Così fu fatta passare all’opinione pubblica.

Lo stesso col divorzio. La legge entrò così a normare per la prima volta il diritto dei genitori sul figlio, e il diritto dei genitori, indipendentemente dai figli. I deboli, insomma, si videro togliere le tutele, che furono così regalate ai forti, agli adulti. Ma a poco a poco, in brevissimo tempo, l’aborto e il divorzio sono diventati fenomeni di massa, perdendo così il loro carattere di eccezionalità, e divenendo dei veri e propri diritti individuali. Se lo fanno tutti è normale, anzi giusto, sacrosanto, intoccabile…Questo è il ragionamento che c’è dietro alla deriva di fronte a cui oggi ci troviamo.

E come si sa, una volta preso il via, in discesa, il sasso rotola: nascono sempre nuove esigenze, nuovi egoismi, sempre sacralizzati e giustificati, e mai contrastati, e con essi, nuovi drammi. Si diffonde l’idea del figlio perfetto, e l’aborto diventa addirittura una pratica meritoria: si elimina, ma per non far soffrire. Si sgretolano le famiglie, e qualcuno pronto a seminare altra incertezza, altre paure, altri freni, inventa i pacs, i dico, i di-do-re, affinché già la partenza, il momento in cui si decide di stare insieme, sia accompagnata dalla sfiducia. Sì, facciamo una famiglia, ma per poco tempo, a scadenza… con tutti diritti, ma senza doveri…benché tutte le indagini sociologiche dimostrino che “le donne che hanno avuto esperienze di convivenza prematrimoniale, così come quelle che si sono sposate con rito civile e quelle che hanno avuto esperienze di divorzio in famiglia, sono risultate più portate a divorziare a loro volta” .

La realtà della fabbrica dei divorzi, spiega Fiorin, è che nel nostro paese vige una legge amplissima, che permette di fatto il no-fault-divorce, cioè il divorzio senza colpa: basta una genericissima “incompatibilità caratteriale”. Mentre in Inghilterra, ad esempio, la patria di Enrico VIII, che con le mogli non era tenero, e coi divorzi non era parco, “per ottenere il divorzio giudiziale occorre provare l’adulterio, l’abbandono o quantomeno un ‘comportamento irragionevole’ dell’altro coniuge, tale da rendere intollerabile la prosecuzione di un rapporto ormai compromesso”. In Italia invece, nota Fiorin, la magistratura concede il divorzio “senza alcuna indagine di merito, né alcun obbligo di mediazione familiare preventiva”.

Non vi è neppure, insomma, un vago “favor familiae”, ad indirizzare l’operato di mediatori familiari, avvocati e magistrati che si aggirano nella fabbrica. Al contrario, vige un indiscutibile “favor divortii”. Dal momento che il divorzio è diventato un diritto sacrosanto, insindacabile, e non più un dramma, un “oceano di dolore”, una estrema ratio, cosa serve capire, provare a rimediare, facilitare il dialogo tra le coppie, aiutarle in un percorso che potrebbe magari servire alla riappacificazione, al ricongiungimento?

Succede così che ci siano più agevolazioni, in molti casi, per i separati, che per le coppie sposate; accade che aiutare una coppia a ripensarci, da parte dell’avvocato, o di altri, sia visto come una ingerenza indebita e intollerabile; che vi siano persone che non comunicano neppure al coniuge il loro desiderio di abbandonare il tetto coniugale, e lasciano il lavoro sporco all’avvocato. Succede, ancora, che gli avvocati di parte, invece che guardare al bene comune, perfettamente calati nell’ottica di garanti del “diritto”, usino tutti i mezzi possibili per spaccare ancora di più, rivendicando questo e quello per il loro cliente, asetticamente considerato, invece che sforzarsi di favorire un possibile pacificazione…L’importante, per gli abitanti della fabbrica, è che si arrivi a “divorziare bene”, da persone civili, come se questo fosse possibile, umano. Persino l’adulterio, in quest’ottica, può diventare non una colpa, ma un diritto, e il marito che non tollera che i suoi figli vivano col nuovo amante della moglie, può trasformarsi, nelle perizie, nelle sentenze, nel parere dei servizi sociali, in un povero pazzo rozzo, antiquato e immaturo. Eppure qualcuno dovrebbe iniziare a pensarci, a quanti fatti di sangue, a quanti “oceani di sofferenza”, a quante tragedie familiari sono determinati dalle disgregazioni familiari. Forse, se almeno incominciassimo a mettere in dubbio la bellezza e la normalità del divorzio e a riconsiderare la realtà per ciò che è, sarebbe già un bel passo verso una società meno triste, più aperta all’amore, ai figli, alla vita, alla gioia vera, che non è mai l’egoistica affermazione, magari per via legale, di un proprio “diritto”.

La fabbrica dei divorzi, infatti, “uccide assai più della criminalità: in Italia gli episodi accertati di questo tipo sono mediamente più di cinquanta all’anno, con picchi di oltre ottanta, e le vittime sono un numero ancora maggiore. Secondo le statistiche di alcuni istituti nell’ultimo decennio i morti per la violenza connessa alle esigenze della logica divorzista, nel solo nostro paese, sono stati più di un migliaio. Dal 2000 al 2005 invece i suicidi secondo i rapporto dell’Eurispes, sono stati più di 250”.

Analogamente ricerche e studi governativi fatti in America, dove evidentemente è oggi finalmente possibile violare il tabù culturale del divorzio bello e leggero, dicono che “già negli anni ottanta il 63% dei suicidi in età giovanile si era verificato in famiglie col padre assente”, vuoi per colpa sua o per colpa del coniuge, e che i figli di un single soffrono “più frequentemente di disordini psichici”, ed hanno “una probabilità assai maggiore di cadere in abuso precoce di alcool e droghe”. “Una ricerca durata per oltre 34 mesi sui bambini dell’asilo ricoverati negli ospedali di New Orleans negli anni ottanta, quali pazienti del reparto di psichiatria, ha rivelato che nell’80% dei casi la patologia era originata dall’assenza (voluta o imposta, ndr) del padre”.

Ancora: “A detta delle statistiche elaborate dagli appositi dipartimenti del Ministero di Grazia e Giustizia, agli inizi degli anni novanta il 43% dei detenuti americani era infatti cresciuto in casa con un unico genitore, mentre un ulteriore 14% era vissuto senza entrambi i genitori. Un altro 14% aveva trascorso l’ultima parte dell’infanzia presso un collegio, un’agenzia o un altro istituto giovanile…In Texas, nel 1992, l’85% dei giovani carcerati era parimenti proveniente da fatherless homes. Così come lo era l’80% degli autori di stupri motivati da accessi di rabbia incontrollata. Nel Wiscosin, secondo una ricerca del locale dipartimento di giustizia condotta nel 1994, solo il 13% dei giovani delinquenti proveniva da famiglie i cui genitori biologici erano sposati, mentre il 33% aveva dei genitori divorziati o separati e il 44% aveva genitori mai sposati”.

Ebbene, di fronte a questi dati, a questa realtà, che spesso si tenta di nascondere, perché la tecnica degli struzzi è l’unica che permette di non dover ripensare il presunto e conclamato “diritto”, ciò che sconcerta maggiormente è che la cura proposta per la malattia, non essendo più essa concepita e riconosciuta come tale, serve solo a rafforzarla. La famiglia crolla? La legge si limiti a fotografare la realtà, perdendo qualsiasi funzione educativa, culturale, rinunciando a proporre modelli più umani e civili. Ecco quindi che i soliti noti, radicali e membri del Pd, propongono matrimoni più leggeri definiti in vari modi; ecco che i radicali costituiscono la loro ennesima associazione, per sostenere questa volta il “divorzio veloce”, per togliere qualsiasi spazio, tempo e voglia per un ripensamento, deprezzando così ancora un poco, di diritto e di fatto, l’istituto matrimoniale; ecco che persino i “cattolici” più aggiornati spiegano ai loro figli che la convivenza preliminare al matrimonio è assai positiva, quando sappiamo bene “che la convivenza prematrimoniale non è una garanzia di lunga durata dell’unione, anzi essa sembra favorirne lo scioglimento”, perché “secondo recenti ricerche nelle coppie non sposate si verificherebbe una specie di auto-selezione di soggetti meno impegnati nei confronti dell’istituzione, con una visione più individualistica del matrimonio e quindi più propensi ad una eventuale rottura coniugale” (A. Zanatta, Le nuove famiglie, il Mulino).

Concludo con un’altra statistica, che dovrebbe già di per sé far riflettere sul cammino intrapreso: diminuiscono i matrimoni, crescono i divorzi e aumentano contemporaneamente i singles. Nel 2208 si conta che in Italia vi siano 5 milioni e 977 mila single, o “unità unipersonali” come li chiama freddamente l’Istat nell’ultimo censimento, e la loro crescita non accenna ad arrestarsi. Un incremento percentuale del 98,8% dagli anni 70 agli anni 90, una crescita progressiva sino al 2001, 1,7 milioni in più nel 2007! E la situazione, in Svezia, Danimarca, Germania e in genere nei paesi meno cattolici, è ancora più tragica. Che l’egoismo dei cosiddetti “diritti civili” generasse solitudine e dolore era razionalmente prevedibile: ora è definitivamente provato. Al contrario, la “durezza” del dovere, l’intangibilità e la non negoziabilità del principio, per quanto possano spaventare, e sembrare, talvolta, crudeli, sono in realtà l’unico vero ausilio che è dato alla nostra debolezza, e fragilità: l’uomo che conosce bene a priori ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, costruirà meglio la sua vita e il suo rapporto affettivo, e sarà sorretto dalla consapevolezza della responsabilità che si è assunto, nel momento, immancabile, in cui verrà assalito dallo sconforto, dalla propria fragilità e miseria, e dalla conflittualità col coniuge. Avviene così il contrario di ciò che solitamente siamo abituati a pensare: l’eliminazione del principio, in questo caso l’indissolubilità del matrimonio, lungi dal rappresentare un’opportunità in più, una prospettiva di maggior felicità, si rivela sovente, in un momento di debolezza, ciò che ci spinge a gettare la spugna e a dichiararci sconfitti, anche laddove si sarebbe potuto resistere, e vincere. Certo, ciò non toglie che nella vita possa succedere, al di là di qualsiasi colpa, che un matrimonio costruito con le migliori intenzioni e con la massima buona volontà possa fallire: nulla ci garantisce, su questa terra, dalla sofferenza e dall’errore. Ma in questi casi, che dovrebbero essere assai rari in una società consapevole dell’importanza del matrimonio, non dovrebbe essere la legge a trasformare l’eccezione in regola, perché la legge, come non è mai abbastanza ripetere, non ha il compito di normare i casi estremi, ma di riconoscere il bene comune, e possiede in se stessa una fortissima funzione pedagogica. Tanto è vero che l’introduzione di una legge e di una cultura divorzista, ha determinato l’aumentare vertiginoso e progressivo dei divorzi; tanto è vero che l’aumentare dei divorzi ha portato, ad esempio in Spagna, all’introduzione del divorzio veloce, il quale a sua volta ha contribuito a rendere ancora più fragile l’istituto matrimoniale, generando un aumento delle rotture tra coniugi, già dopo il primo anno di applicazione, del 300 % circa! P.S. Oggi ai numeri del divorzio nessuno sembra interessato, neanche per cercare di escogitare qualche piccolo aggiustamento, qualche strategia per porre quantomeno un freno al fenomeno. Prima del 1970 però, il fronte divorzista era assai più attento al fascino dei numeri: si disse e si continuò a ripetere, senza alcuna verità, che le persone coinvolte nelle separazioni erano ben 5 milioni! Il calcolo era palesemente forzato, comprendeva nonni e parenti dei separati sino alla quinta generazione, ma la menzogna ripetuta insistentemente servì ad aprire la strada: se sono così tante le persone coinvolte, in senso lato, si pensò, allora è giusto intervenire, legalizzando il fenomeno. Qualche anno dopo, come vedremo, la stessa strategia della menzogna e dei numeri gonfiati fu utilizzata per far passare l’idea che anche il ricorso all’aborto, essendo assai diffuso, era da considerarsi “normale”. (da: Scritti di un pro life, Fede & Cultura)

 
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