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Non si sa neppure se sia vivo o morto. Nel 1991 - mi racconta Giorgio Bolondi, docente di matematica all’università di Bologna, che mi ha fatto conoscere questa storia affascinante- ha lasciato casa sua, per destinazione ignota. Lì si dedica a scrivere, in solitudine, riflessioni filosofiche ed esistenziali, e chissà cos’altro.
Il suo nome è Alexander Grothendieck, forse il più grande matematico del XX secolo. Alexander nasce nel 1928 a Berlino: suo padre è un anarchico russo, che morirà ad Auschwitz nel 1942; sua madre, Hanka Grothendieck, è una tedesca di famiglia protestante. Dei suoi genitori Alexander scrive:“I miei genitori erano atei. Per loro, le religioni erano residui arcaici, e le Chiese e le altre istituzioni strumenti di sfruttamento e dominio degli uomini… destinate a essere spazzate senza possibilità di ritorno dalla rivoluzione mondiale”.
Il giovane Alexander non riceve dunque nessuna educazione religiosa, e non ha neppure contatti con credenti o con libri che hanno qualcosa a che fare con la fede. Abbandonato precocemente dai genitori, durante la guerra viene internato in un campo francese per “indesiderabili” e studia grazie ad una associazione che si cura dei bambini rifugiati. Il suo grande merito sarà l’aver posto le basi, insieme a Jean-Pierre Serre, della geometria algebrica moderna. Lavora presso varie Università, in Francia e in America, ed alterna la passione per la matematica a interessi umanitari.
Nel 1966 ottiene la medaglia Fields, massimo riconoscimento per i matematici, consegnata ogni quattro anni e riservata a chi abbia compiuto grandi scoperte entro i 40 anni. Nel 1988 l’Accademia reale svedese delle scienze gli assegna il Crafoord Prize, una sorta di premio Nobel per i matematici. Ma Grothendieck declina l’offerta: non ha bisogno di soldi, non saprebbe che farsene. La sua mente è già altrove, forse troppo intenta nelle riflessioni che lo hanno portato, piano piano, a scoprire Dio.
Questa nuova idea gli è sorta ascoltando una lezione di biologia, nel marzo 1944. Proprio grazie ad essa, afferma di aver compreso qualcosa di essenziale: “Nell’apparizione della prima cellula vivente c’era una intelligenza… in tutta questa storia c’è una volontà, un disegno…”. Il suo percorso di avvicinamento alla fede è dunque quello tradizionale, già indicato da san Paolo: dalle perfezioni visibili alla Perfezione invisibile; dalle creature al Creatore. Grothendieck non lo sa, perché non ha alcuna cultura religiosa, ma sta seguendo la via di san Tommaso per dimostrare, a se stesso, l’esistenza di Dio.
Si troverebbe d’accordo anche con san Bonaventura quando questo grande francescano, ammirando la bellezza del creato e la sua armonia, concludeva: “è necessario che tutte le cose abbiano una proporzione numerica e, di conseguenza, il numero è il modello principale nella mente del Creatore, e il principale vestigio che nelle cose conduce alla Sapienza”.
All’inizio, però Grothendieck è sostanzialmente un deista. Scrive: “Mi rendevo ben conto che questo Creatore che vedevo manifestarsi con opere grandiosi all’inizio dei tempi era molto lontano dal Dio della Promessa dell’Antico Testamento, e dal Padre vicino e amorevole dei Vangeli. Niente della mia esperienza diretta mi portava a pensare che il Creatore, una volta messa in moto l’immensa giostra della Creazione, continuasse a occuparsi di quello che vi succedeva e a parteciparvi”.
Un deista, però, particolarmente appassionato: “Solo il Direttore dell’orchestra sente il Concerto nella sua totalità, così come ciascuna delle voci e ogni modulazione e ogni battuta. Per poco che tendiamo l'orecchio, anche noi musicisti-cantori possiamo talvolta cogliere al volo dei frammenti sparsi di uno splendore che ci trascende, e al quale ciononostante, misteriosamente, partecipiamo anche noi”. In breve si convince che Dio sia qualcosa di più di un grande orologiaio, che assiste passivo al funzionamento della sua opera. Gli appare sempre di più come un essere personale: “L’uomo ha facoltà che lo rendono capace di conoscere l’esistenza di un Dio personale … le “prove” dell’esistenza di Dio possono disporre alla fede ed aiutare a constatare che questa non si oppone alla ragione umana”.
L’itinerario procede: “dopo qualche mese all’ascolto della voce di Dio, la mia visione del mondo si è trasformata profondamente, e così quella di me stesso e del mio posto e del mio ruolo nel mondo. La trasformazione principale, quella da cui partono tutte le altre, è che ormai il cosmo, il mondo degli uomini, la mia vita e la mia personale avventura, hanno finalmente acquisito un centro, che era mancato fino ad ora (in certi momenti crudelmente), e un senso che avevo presentito solo in modo oscuro”.
Dio è ormai una rivelazione personale: ha voce, parla alla sua mente ed al suo cuore. Ma richiede che l’uomo, liberamente, lo ascolti, lo cerchi, dia il proprio assenso. La fede, si convince il nostro, ha basi razionali, logiche, trova conferma nell’esperienza, ma poi occorre un cuore che sia disposto a mettere in gioco, umilmente, la propria libertà: “se Lui parla anche a te….non parla della pioggia o del bel tempo o dei destini del mondo, ma è di te che Lui parla- di quello che è più segreto, più nascosto in te. E tu sei libero di ascoltare, se vuoi (e di sicuro, se ascolti con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, non sarà tempo sprecato…). Non è una cosa folle? Questo interesse intenso e delicato e (lo so così bene!) amorevole….non conferisce da solo all’essere umano, a te come a me come all’ultimo uomo, una dignità, una nobiltà che confonde l’immaginazione?”. (Il Foglio, 17/9/2009)