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Il processo Contrada: una vergogna italiana
Di Giuliano Guzzo - 13/09/2009 - Giustizia  - 1983 visite - 0 commenti

La sfiducia nei confronti della giustizia non è un requisito richiesto, e non lo sono nemmeno dietrologia o predilezione all’indagine. Per comprendere le infinite contraddizioni e l’infondatezza del processo Contrada, è sufficiente una panoramica cronologica della vicenda. Cominciamo col ricordare a chi per caso lo ignorasse che quello a Bruno Contrada, che qualcuno ha malvagiamente ribattezzato “dottor morte”, è un processo concluso da tempo.
L'ex poliziotto più famoso di Palermo è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa: per la giustizia italiana è colpevole di aver tradito lo Stato.
Eppure, ad anni di distanza dal pronunciamento definitivo della Cassazione, sono ancora tanti, troppi gli aspetti che, di quella vicenda, non convincono.
Lo ripetiamo: il processo ormai è chiuso, la giustizia ha già fatto il suo corso.
Ciononostante, il caso Contrada non deve essere dimenticato.
Al contrario, merita di essere ancora oggetto di dibattito e approfondimento, perché un servitore dello Stato è stato processato e condannato, come ciascuno può constatare, senza che sia stato appurato il movente che lo avrebbe spinto a fiancheggiare il sistema criminale da lui sempre avversato, e solo in conseguenza alle accuse di 14 cosiddetti “pentiti”, molti dei quali – combinazione - arrestati dallo stesso Contrada.
Dopo anni di verifiche, sui conti correnti dell'ex poliziotto non è stata trovata una lira, dicasi una, non riconducibile al suo stipendio, e tutte le accuse dei “pentiti” contro di lui, altro non sono state che vaghe e fumose ricostruzioni che il più delle volte solo altri mafiosi, guarda caso defunti, avrebbero potuto confermare; altri “pentiti”, più volenterosi di collaborare, hanno invece offerto sì dei riscontri, ma falsi, e sono esclusi dal programma di protezione, processati e condannati.
Assai più limpidi e concreti sono stati i racconti dei 160 testimoni chiamati in aula dalla Difesa, testimoni tra i quali troviamo due ministri della Repubblica, cinque capi della polizia, due capi del controspionaggio, tre alti commissari per la lotta alla mafia, venti tra questori ed alti funzionari, dieci ufficiali dei carabinieri e svariate decine di agenti.
Tutta gente, con rispetto parlando, che in un Paese normale dovrebbe essere presa in più seria considerazione rispetto dei componenti di Cosa Nostra.
Nel processo Contrada, questa elementare premessa si è rovesciata nell'assurda convinzione, citiamo la sentenza di primo grado, per cui l'”indice di affidabilità delle notizie riferite [...] deve rinvenirsi nello spessore mafioso degli “uomini d'onore” (p.1079).
Come a dire: più sei mafioso, e più noi magistrati crediamo alle tue dichiarazioni, anche se – come nel caso Contrada - queste vanno ad accusare colui che più d'ogni altro ti ha dato la caccia, magari riuscendo a sbatterti in galera. Pazzesco.
Ma vediamo più nel dettaglio il clima farsesco in cui si è svolto questo assurdo processo.
Un esempio illuminante è quello delle dichiarazioni di P.S., nel giro di Cosa Nostra dall'82, che asserisce di aver partecipato, presso un appartamento di Palermo, ad un incontro tra Contrada, i mafiosi M.C. e M.P. e un archeologo svizzero a proposito di un'anfora che sarebbe servita al poliziotto per comunicare con criminali e non solo.
Orbene, per cominciare l'appartamento dove detto incontro sarebbe avvenuto non si trova: risulta inesistente.
Inoltre, il mafioso M.C. sbugiarda in toto le dichiarazioni di P.S., cosa che invece non può fare il mafioso M.P., già defunto.
Dulcis in fundo, anche l'archeologo svizzero, dopo ricerche serrate, viene dichiarato inesistente: non si trova da nessuna parte.
Lasciamo al lettore il giudizio su quanto dichiarato da P.S., che pure viene giudicato di primaria importanza da chi orchestra il processo, sempre che quello fosse ancora, ma vi sono ottime ragioni per dubitarne, un vero processo.
Infatti, nella sentenza di primo grado leggiamo che, tra le altre cose, “la mancata individuazione dell'appartamento non è idonea a smentire la veridicità delle dichiarazione del collaborante, attesa l'esistenza di altri elementi di riscontro esterni alla sua narrazione, infatti l'episodio riportato colloca il momento dell'incontro in un periodo in cui era possibile la presenza di Contrada a Palermo” (p.1093).
Incredibile: la sola “possibile presenza” di Contrada a Palermo – ripetiamo: a Palermo, mica a Toronto - è sufficiente a conferire attendibilità alle dichiarazioni di quel pataccaro di P.S., nonostante non si trovi un riscontro che sia uno (!) di quanto afferma.
Una vicenda assai singolare è stata quella di F.M.M, anch’egli “pentito” che nel gennaio del 1994 divenne uno degli accusatori di Contrada.
Peccato che poco tempo prima, il 2 e 3 aprile 1993, per ben due volte, aveva detto al PM di Palermo e Caltanissetta:”Di Bruno Contrada non so nulla. So solo che era un funzionario di Polizia in servizio a Palermo”. Per completezza, dobbiamo ricordare che non ci sono stati solo mafiosi a gettare ombre su Contrada. A gettare ombre su di lui ci ha pensato anche Tom Tripodi, ex agente americano della D.E.A (Drug Enforvement Administration), che ha raccontato che Boris Giuliano, il capo della Squadra Mobile di Palermo ucciso dalla mafia, gli aveva confidato di non fidarsi di Contrada.
A parte che, come volevasi dimostrare, anche in questo ad essere tirato in ballo è un soggetto terzo che, per ovvie ragioni, non può smentire, se Tripodi credeva Contrada in odore di mafia come mai nel suo corposo libro su mafia e servizi segreti non l’ha citato neppure una volta? Mistero, uno dei tanti di questo incredibile processo.
Processo nel quale avvennero pure degli autentici miracoli: alcuni “pentiti” infatti, tra cui spiccano nomi eccellenti, affermarono di ricordarsi di Contrada a distanza di svariati dal loro arresto, il che, se non basta a provare un avvenuto lavaggio del cervello, quanto meno fa sospettare che quelle dichiarazioni siano state dettate dal desiderio, da parte del “pentito“, d’ottenere privilegi.
Ricordiamo, tanto per rendere l’idea di questi privilegi, quanto scritto da Bruno Vespa in un suo libro, e cioè che il solo “pentito” F.M.M., uno degli accusatori di Contrada, intascava, a fine ‘99, qualcosa come venticinque milioni al mese dallo Stato italiano.
Altri “pentiti”, se possibile, hanno fatto di meglio: mantenuti coi soldi dello Stato, mentre si dilettavano in processi eccellenti (es. processo Andreotti) con accuse incredibili, sono pure tornati, come B.D.M., al loro vecchio mestiere, ad uccidere.
E’ così difficile accettare l’idea che un criminale con decine di omicidi alle spalle, pur di rastrellare privilegi si dichiari “pentito” ed inizi a raccontare frottole spacciandole come “rivelazioni eccellenti”?
E’ così inverosimile che un assassino, arrestato, possa mentire?
Un giudice coraggioso e controcorrente come Sofia Fioretta, in una sentenza, ha scritto che molti “pentiti” hanno esercitato sui magistrati che li interrogavano un “enorme e subdolo potere”, distogliendoli “dall’impiego di tempi, forze ed energie preziosi” nella lotta alla mafia.
Per un Buscetta che ha fatto luce su 121 omicidi, in un totale di quasi 2000 “pentiti”, quanti hanno raccontato, creduti, montagne di bugie?
Il “pentitismo”, senza che molti ci dessero importanza, ha di fatto scavalcato, in ordine di importanza, le indagini sul campo. Ed è un vero peccato.
Tornando al processo Contrada, urge sottolineare che, in fondo, colui che era lo sbirro più famoso di Palermo, era creduto colpevole, e trattato come tale, ben prima che il processo fosse celebrato.
Lo dimostra, su tutto, la carcerazione preventiva, in totale isolamento, durata 949 giorni, presso un carcere militare riaperto solo per lui.
Un trattamento, ci permettiamo d’annotare, non troppo lusinghiero per chi, come Contrada, nella sua carriera ha raccolto decine di riconoscimenti tra cui  si segnalano un attestato di merito speciale, 14 encomi, 7 elogi della magistratura, 50 riconoscimenti da parte del SISDE.
Oltre a questo trattamento barbaro e ad un processo farsesco, negli anni, Contrada è toccato pure accusato d'essere stato visto poco dopo l’esplosione della bomba, sul luogo della strage che dilaniò Borsellino e la sua scorta.
Ebbene, quel giorno in quelle ore Contrada era in barca, come hanno testimoniato dieci persone che erano con lui, eppure ovunque - senza alcun fondamento! - da Wikipedia alle fiction televisive, l’immagine di Contrada in Via D’Amelio continua a spopolare.
Ma perché questo accanimento questo contro di lui?
Tra l’altro, non molti sanno che il reato che contrada avrebbe commesso nemmeno esiste. Il concorso esterno in associazione mafiosa, infatti, non è una norma creata dal Legislatore così come prevede la tanto sbandierata Costituzione italiana, bensì dalla giurisprudenza.
Trattasi, come insigni giuristi hanno avuto modo di constatare in ripetute occasioni, di un reato inventato dalla magistratura dopo gli omicidi Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino, ovvero sulla base di una tensione che se all’epoca aveva la sua giustificazione emotiva, nei fatti, è persino di dubbia costituzionalità.
La riprova della fumosità e dell’infondatezza di questo reato (lo stesso contestato a Dell’Utri e non solo) che si presta a infinite sfumature e consente di arrestare chiunque in totale assenza di prove e movente, la possiamo rinvenire proprio nel caso Contrada, dove il superpoliziotto, dicono le sentenze di condanna, avrebbe fatto scappare criminali pericolosi, eppure nessuno gli ha mai contestato il reato d’omissione di un atto d’ufficio. Tanto meno è stato inquisito per corruzione o favoreggiamento, tutti reati veri, che richiedono, a differenza dell’informe concorso esterno, prove certe, riscontri oggettivi e non storielle come quelle raccontate su Bruno Contrada, uno che collaborò con Falcone (che in una missiva gli riconobbe stima e gratitudine) e che dopo decenni di stimato ed eccellente servizio allo Stato, non si sa come mai (nessuna sentenza lo dice) sarebbe diventato la gola profonda della mafia, al punto di ritardare di anni (questo la sentenza lo dice, ma ovviamente non lo dimostra) l’arresto di boss come Totò Riina.
Tutto questo, chiaramente, senza nessun tornaconto.
Insomma, Contrada si sarebbe bevuto il cervello mettendosi a fare il gioco di quanti, fino al giorno prima, dava la caccia.
Un gioco pericoloso che, secondo i giudici, avrebbe tenuto in piedi per anni, senza che in Polizia nessuno, a parte lui, ne fosse a conoscenza e nessuno, a parte lui, ne fosse implicato.
Chi lo dice? Dei mafiosi “pentiti”, che domande.
Chiudiamo con un aneddoto che la dice lunga sullo spirito di questo incredibile processo. G.G., uno dei “pentiti” accusatori del superpoliziotto, poi condannato per calunnia, disse che il “pentito” G.P. glì consigliò di accusare gente importante, se voleva diventare un pentito di serie A.
G.G. chiese allora a G.P. un consiglio in proposito, e quest’ultimo, guarda caso, gli fece il nome di Bruno Contrada.
 
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