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Salutarsi, diceva Shakespeare, è una pena così dolce che verrebbe voglia di prolungare l’addio fino a domani. Mike Bongiorno, nel congedarsi così all’improvviso da questo mondo, ha di fatto risparmiato ai suoi telespettatori ogni pena: se n’è andato un giorno di inizio settembre, senza preavviso, in tutta fretta, quasi a voler arginare le lacrime che pure righeranno il viso di molti italiani. Il re della nostra televisione, nel suo soggiorno terreno durato ottantacinque anni, non si è fatto mancare nulla: tre mogli, un plotone di Telegatti, una laurea honoris causa e una gita generazionale che gli ha consentito di farsi conoscere da giovani e meno giovani.
Ma il segreto più grande di questo italo americano, scampato, tra le altre cose, ad una fucilazione che i nazisti non portarono a compimento solo grazie alla provvidenziale esibizione del suo passaporto statunitense, è stata proprio, ironia della sorte, la sua normalità: le sue gaffes hanno fatto epoca, così come le sue sfuriate, lui che non si faceva problemi, nemmeno a telecamere accese, a riprendere le innumerevoli vallette pescate dall’anonimato, e poi lanciate nel firmamento televisivo. Insomma, Mike era l'italiano medio per antonomasia, ambasciatore permanente della normalità in un mondo, quello televisivo, che di normale ha ben poco .
Ciò non toglie, tuttavia, che fosse un monumento vivente: era la l’incarnazione del dopoguerra; socializzò, a San Vittore, con uno sconosciuto Montanelli, come lui prigioniero dei tedeschi; fu colui che più d'ogni altro lanciò l’impero televisivo di Berlusconi; presentò svariate edizioni del Festival di Sanremo e trovò anche il tempo, non senza autoironia, di duettare con Fiorello. Ma soprattutto - e qui sta forse il merito più grande del padre dei quiz - ha ricordato agli italiani che non c’è vero incontro senza “Allegria”.