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Gli inizi della riflessione filosofica si mescolano con le antiche intuizioni religiose dell’umanità. Talete introduce il concetto di principio per definire la misteriosa realtà immortale da cui scaturiscono tutte le cose e da cui esse sono mantenute nell’essere e verso cui esse costantemente ritornano.
Egli poi identifica questo principio con l’acqua, in quanto era questa la realtà più decisiva rinvenibile nella sua esperienza; al di là di questa identificazione oggi insostenibile, rimane non solo l’acutezza del concetto di principio, ma anche la scoperta della capacità di questa acutezza nel soggetto umano: l’uomo si sorprende capace di scoprire che ci deve essere un principio ultimo e quindi di essere in rapporto con esso. Anassimandro sviluppa l’intuizione del suo maestro e scopre che il principio deve essere una realtà infinita, che abbraccia, genera e governa tutte le cose. Questa consapevolezza dell’infinito resterà non solo la più importante di tutte le intuizioni filosofiche basilari, ma anche la conferma più chiara dell’acutezza del soggetto umano. Anassimene cerca di dare una determinazione all’infinito identificandolo con l’aria: tentativo poco felice, ma servirà egualmente a far comprendere che ogni riduzione dell’infinito è contraddittoria; anche qui si rivela l’acutezza del soggetto umano, nella sua misteriosa veste di scopritore e indagatore dell’illimitato.
Eraclito introduce l’idea del dinamismo incontenibile dell’essere: panta rei, tutto scorre, tutto diviene; tuttavia egli stesso riconosce che questa dinamicità è possibile sono all’interno dell’unico essere: “da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose”. Questo ‘uno’, o sostanza primordiale, è ‘fuoco’, cioè energia che muove tutte le cose secondo una determinata legge o regola, cioè Logos. L’anima umana è della stessa natura del principio, cioè è fuoco, ed è immortale e senza confini.
Rimane insoluta l’evidente contraddizione: come può una realtà limitata-impersonale come il fuoco essere al contempo una realtà illimitata-personale? Dunque anche la riflessione eraclitea proprio nel momento in cui tenta di definire e determinare materialmente la realtà personale scopre che essa non si lascia ridurre in nessun modo.
I Pitagorici notano l’esistenza di rapporti numerici che consentono di rappresentare in modo matematico molte realtà: l’universo si presenta come armonia e numero, cioè come razionalità e conoscibilità. Il soggetto umano è chiamato a conoscere questa razionalità matematica della realtà attraverso una ‘vita contemplativa’, fatta di studio (musica, aritmetica, geometria), ascolto, osservazione della natura e del cosmo: in questo modo essa si purifica e giunge alla contemplazione del vero.
I Pitagorici non si spingono a indagare quale possa essere la natura di quest’anima capace di cogliere la razionalità della realtà: essa rimane un dato di fatto, misterioso e fondamentale. Esso infatti mostra la ‘vocazione’ insita nell’anima a cercare ciò che le corrisponde, cioè il livello più profondo e razionale dell’essere: il soggetto umano non ha solo la capacità di cogliere la razionalità dell’essere, ma anche l’esigenza di farlo, per poter realizzare se stesso.
Parmenide segna il punto più alto dell’ontologia presocratica e può essere considerato il fondatore dell’ontologia stessa come scienza dell’essere in quanto essere. La celebre riflessione parmenidea sull’essere, inteso nella sua assolutezza, sembra collocarsi agli antipodi dell’antropologia, legata com’è quest’ultima nel pensiero dell’Eleate al mondo del divenire e quindi delle apparenza illusorie. Tuttavia Parmenide ritiene che l’uomo possa cogliere l’assolutezza dell’essere; se può fare questo è perchè non è dotato solo dei sensi, che lo ingannano in quanto gli ‘dimostrano’ la realtà per sé illusoria del divenire, ma è dotato della ragione o partecipa in qualche modo di essa: l’uomo infatti per convincersi della verità dell’assolutezza, eternità, immutabilità, unicità, omogeneità, immobilità dell’essere, deve “giudicare per mezzo della Ragione (Logos)”.
Il pensiero parmenideo rimane criptico in molti passaggi ed intuizioni, ma non c’è dubbio che il presupposto della consapevolezza dell’essere assoluto che esso attribuisce all’uomo implica che quest’ultimo sia un soggetto sostanziale dotato della capacità di intuire l’assoluto. Dunque all’alba dell’ontologia appare già insieme ad essa, come un suo corollario inscindibile, l’antropologia e il presentimento della sua insondabile profondità. Melisso di Samo prosegue la riflessione parmenidea su essere e non essere per giungere alla conclusione che l’essere è infinito, in quanto non può essere limitato dal non-essere, ed eterno, in quanto non può essere preceduto dal non-essere. La valenza antropologica di questa scoperta vertiginosa sta nella collocazione straordinaria che l’essere umano viene ad assumere in questo orizzonte infinito: l’uomo scaturisce da una realtà infinita, eternamente compiuta; ciò significa che non ha molto senso pensare che l’uomo possa essere stato voluto da questa realtà infinita e compiuta come una realtà assurda e contraddittoria: se dunque l’uomo si sperimenta come essere razionale dotato di desiderio di compimento, non è razionale pensare che la realtà infinita che lo ha fatto scaturire così lo abbia allo stesso tempo limitato fino a porlo nella condizione di non-esistenza o di annientamento.
Dunque se l’uomo è ‘figlio’ di una realtà infinita, non lo si può ridurre ad un non senso, ad un meccanismo inutile, alla catastrofe dell’io. Paradossalmente proprio Melisso, che ha escluso ogni validità all’esperienza diveniente dell’io, ha in realtà posto le basi per la più solida fondazione ontologica dell’essere contingente, cioè la dimostrazione della verità dell’assoluto.
Con Anassagora l’osservazione filosofica si sofferma sulla realtà del Nous, cioè dell’intelligenza presente dentro l’essere: “L’intelligenza è illimitata, indipendente, e non mescolata ad alcuna cosa, ma sta da sola in sé”. Si tratta di una intuizione per così dire embrionale, senza una considerazione delle conseguenze, quali la distinzione tra materia e spirito che verrà a galla in altri filosofi. Tuttavia si tratta di una poderosa intuizione, che mette bene in evidenza una dimensione innegabile dell’essere, l’intelligenza, vale a dire la realtà complementare necessaria alla dimensione scoperta dai Pitagorici, cioè l’intelligibilità. In questo contesto risulta più chiaro che il soggetto umano, dotato di razionalità, partecipa in qualche misura della dimensione ‘mentale’ o intelligente dell’essere.
Per Democrito tutto è prodotto dagli atomi e dal loro movimento, secondo un dinamismo meccanico e necessario. Anche l’anima sarebbe formata da atomi, benché più sottili e perfetti degli altri, definiti “divini”. Democrito dunque da una parte è coerente anche in antropologia con il suo materialismo-meccanicismo, dall’altra afferma l’irriducibilità dell’anima alle realtà materiali comuni e si sente costretto a parlare per essa di materia ‘divina’ per giustificare l’evidente diversità e superiorità della soggettività umana nei confronti del mondo della semplice oggettualità. Infatti proprio nel momento in cui il materialista è convinto di poter concludere meccanicisticamente riguardo all’anima, si vede impossibilitato ad una riduzione materialistica ultima e totale di questa realtà troppo diversa nelle sue caratteristiche da quelle della semplice materia.