Tra pochi giorni si celebrerà, tra nostalgia e ricordi, il compleanno dell'evento simbolo del Sessantotto: il concerto di Woodstock, tre giorni di musica ininterrotta che fecero di Bethel, una piccola provincia dello stato di New York, il palcoscenico di quello che ancora oggi molti giudicano il più grande Festival rock di sempre.
Ma al di là del fenomeno musicale, che vide protagonisti artisti del calibro di Joan Baez, Joe Cocker, Jimi Hendrix e Santana, il compleanno di Woodstock ci offre la possibilità di una ulteriore riflessione sull'eredità del Sessantotto, la vera rivoluzione sociale del Novecento.
Posto che non fu affatto un fenomeno lineare e coordinato, ma che anzi ebbe, in origine,
almeno tre celebri teatri - l'America, la Francia e Praga – assai
difformi fra loro, il Sessantotto rimane una stagione assai preziosa da studiare, soprattutto se si vogliono leggere in modo più limpido le forme del presente.
Prima della guerra in Vietnam e di un modello di società alienante, a scatenare la contestazione fu, sostengono in molti, la sordità di una politica e di una generazione rintronate dal boom economico.
Può apparire un'analisi semplicistica, ma è impossibile negare la responsabilità di quanti, ancor prima che la rivoluzione albeggiasse, s
ottovalutarono la questione giovanile.
A titolo d'esempio, basti ricordare come, nel bel mezzo della ripresa economica, il sociologo Camillo Pellizzi parlasse di una “
gioventù che desta poche preoccupazioni, che ispira scarso interesse e che non dà l'impressione di riserbare grandi sorprese” ( Il Messaggero, 2/2/59). Mai ci fu analisi più incauta.
La stessa musica, che conobbe a Woodstock il suo apice, non fu che un pretesto politico generazionale. Non per nulla sulla “Stampa alternativa”, giovani ribelli confessavano:”
Non ce ne frega niente o quasi niente di riprenderci la musica [...] per noi riprenderci la musica vuol dire togliere dalle mani dei padroni uno strumento mostruoso di corruzione”.
Sarebbe comunque ingenuo dimenticare la paternità ideologica di un fenomeno che, pur originatosi da premesse educative oggettivamente fallimentari, smarrì presto la propria spontaneità per divenire funzionale ad un
progetto politico, ancorché non istituzionale, decisamente efficace nel propalare il proprio credo edonista. Emblema di questo credo fu la
droga, la stessa droga che intasò i corpi di larga parte dei presenti a Woodstock e che conobbe una diffusione trasversale, dalle periferie metropolitane ai salotti alti del potere.
Persino i Beatles, i quattro di Liverpool che si presentarono al mondo in giacca e cravatta, divennero presto schiavi di questa dipendenza; George Martin, storico collaboratore della band, nel suo S
ummer of love. The making of Sgt. Pepper (Edizioni Coniglio) racconta di come i Beatles ricorressero molto spesso alle droghe, e di come una volta Lennon, sotto effetto di lsd, urlò di volersi lanciare dal tetto di un edificio.
In questo senso, il Sessantotto fu un
paradosso amarissimo: sorto per propiziare un mondo libero, finì per incrementare la più devastante delle prigionie.
Un altro grande equivoco, tutt'ora ignorato dai più, è quello di considerare quella ribellione giovanile come fenomeno politico di sinistra, contro il sistema e prettamente antifascista. Ebbene, fu l'esatto contrario. Scrive Marcello Veneziani:”I
l 68 somiglia maledettamente al primo fascismo rivoluzionario, col suo mito vitalista e giovanilista, la sua voglia di trasgredire, il suo spirito antiborghese e antisenile” (Libero, 24/10/08).
E se la rivoluzione fascista si ossificò in un regime, quella del sessantotto finì, a sua volta, per instaurare non una, bensì
molte dittature, da quella già citata delle droghe, che divenirono per la prima volta fenomeno di costume, a quella del tanto vituperato Progresso.
Ennesima contraddizione: con la scusa di brandire la causa di un mondo bucolico e armonioso, si è spazzato via ogni cosa che sapesse di Tradizione, con l'unico risultato d'aver
spianato la strada ad un capitalismo che, nonostante la crisi economica, a decenni di distanza non offre ancora alcun segnale di cedimento.
Alla faccia dell'anticapitalismo dei sessantottini!
E' curioso, infine, rilevare come oggi i primi a decretare il fallimento di quel periodo non siano dei reazionari, bensì i figli di coloro che, la rivoluzione, la fecero in prima linea. E che non esitano a puntare il dito contro i propri genitori e, più in generale, contro la generazione che li ha preceduti: da Anna Negri, figlia di Toni, a Marco Archetti che nel suo
Gli asini volano alto (Feltrinelli) parla di un papà “
dissennato testa calda” che costringe la mamma ricalcitrante ad “
edificare il comunismo”.
Ma anche gli stessi ex sessantottini, o almeno alcuni fra loro, ripensando a quel periodo non esistano a tornare sui propri passi; Bertinotti ha pubblicamente fatto ammenda sulla primavera di Praga e Vittorio Feltri ha scritto:”
Noi figli [...] dell'amato odiato Sessantotto non percepiamo più che fedeltà e sacrificio sono dovuti, prima ancora che alla persona umana, all'integrità del proprio Io, alla consistenza di esso. L'abbiamo confusa con la narcisistica adorazione di sé, ed ora non ci capiamo più nulla. Siamo malati, malati nell'Io”.
Che dire, non è mai troppo tardi.