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La vita di san Camillo de Lellis.
Di Marco Luscia - 27/10/2009 - Religione - 1216 visite - 0 commenti

A poco più di undici chilometri da Chieti, su di una collina che si eleva dolcemente sino ai 371 metri della sua sommità, sorge Bucchianico; un borgo arroccato come una cittadella medioevale che guarda verso al pianura. Ai tempi cui si riferiscono i fatti dei quali narreremo è bene ricordare come tale paese fosse un luogo ambito per abitarvi e carico di storia civile ed ecclesiastica.

A Bucchianico, nei primi decenni del Cinquecento vi era, tra le famiglie in vista del paese, quella di Giovanni del Lellis, capitano di ventura, un uomo d’armi che trascorse l’intera esistenza al servizio degli imperatori CarloV e Filippo II. Viaggiava sulle galee veneziane e sui campi di battaglia sempre alla ricerca di onori e gloria. Giovanni, nel 1525, sposò una nobildonna del paese proveniente da Loreto Aprutino, Camilla de Compellis. La vita a Bucchianico si svolgeva secondo i ritmi consueti di una società che oggi chiameremmo tradizionale, fatta di mercati, di fiere, di solidarietà e condivisione.

Le famiglie infatti, si conoscevano tutte e se qualcuno cadeva in disgrazia ecco che accorrevano in molti a dargli una mano. Insomma, in quel mondo in gran parte legato alla terra, non ci si sentiva mai soli. E quando la malasorte sembrava accanirsi per un’improvvisa carestia o per il sopraggiungere di un’epidemia, si dirigeva lo sguardo in alto e si implorava il buon Dio o qualche Santo, che ci pensassero loro dove l’uomo non poteva arrivare con le sue forze. Anche la nascita, in paese, era un evento da festeggiare, sempre e comunque. Il venire al mondo di una nuova creatura era una festa, perché non sempre le gravidanze arrivavano a buon fine e quando succedeva era in agguato il pericolo di epidemie e di malattie infantili che si portavano via buona parte dei neonati.

Il sogno

Camilla de Compellis, donna religiosa e pia, ebbe due figli dal capitano Giovanni; il primo morì bambino, il secondo, sin dal suo apparire al mondo, sembrò segnato da un destino fatale.

Quando all’età di circa sessanta anni Camilla restç incinta, una notte fece un sogno che lì per lì le diede inquietudine. A capo di una colonna di giovani vide un ragazzino che guidava uno stuolo di altri giovani; quel ragazzo portava tra le mani una bandiera bianca sulla quale era dipinta una croce rossa. Anche i ragazzi che seguivano il portabandiera avevano riprodotta sul petto la rossa croce. L’anziana donna fu assalita allora da una serie di presagi inquietanti. Forse pensò a pirati provenienti dal mare, forse a briganti e malfattori. in quei tempi infatti a volte si usava contrassegnare con un segno di croce i delinquenti condotti al patibolo. Ma il parroco del paese, il marito e le amiche cercarono di tranquillizzarla; in fondo la croce rossa rappresentava pure un simbolo di perfezione spinta sino al martirio, sulle orme del redentore che offrendo il proprio sangue aveva attratto a sè l’intera umanità peccatrice.

La nascita

 Fatto sta che il giorno della nascita del figlio atteso, giunse: era il 25 maggio, giorno di Pentecoste dell’anno santo 1550. In chiesa molti compaesani si erano radunati per aprire i festeggiamenti in onore di Sant’Urbano, protettore della cittadina. Cammilla si era avviata faticosamente verso il sacro luogo per assistere alla messa. Poco dopo la consacrazione, però, si era sentita male ed era tornata a casa. Qui, alcune amiche le avevano consigliato di scendere nella stalla e di partorire in un luogo simile a quello in cui era nato il Signore. Quel figlio, donato alla vita in un’età così avanzata, non poteva infatti che essere un dono del cielo, un miracolo. Forse pensieri di questo tipo indussero Camilla a scendere di sotto, quasi corrispondendo ad un’intuizione, ad un segreto richiamo.

Riflessioni di questo tipo probabilmente stupiranno il lettore contemporaneo, smaliziato e intriso di razionalismo; ma esse non ci devono disturbare. Infatti, se solo volgiamo lo sguardo verso un’epoca e un tempo in cui Dio comunicava la propria presenza in infiniti modi, un po’ come era stato all’epoca dei profeti e dei santi apostoli, tutto ci risulterà più comprensibile. L’umanità di allora, detto in altre parole, era aperta al mistero, assetata di Dio, bisognosa della sua presenza e perciò capace di scrutare la miriade di segni che il Signore seminava nella vita di ciascuno. Quasi a confermare quanto detto, la tradizione narra come Camillo venne al mondo sulla paglia, della stalla di famiglia, proprio nell’istante stesso in cui l’ostia consacrata veniva elevata dal sacerdote, nel cuore della celebrazione solenne in onore di S. Urbano.

Nel momento della consacrazione, nel momento del supremo sacrifico di Gesù, quel bimbo apriva gli occhi al mondo, sotto il segno dell’offerta suprema, del dono inimitabile, della grazia profusa una volta per sempre. A noi piace pensare che le cose siano andate proprio così, come la tradizione racconta. E a dire il vero, chi avrà la pazienza di leggere questa storia, potrà personalmente verificare se a tale nuova vita è corrisposta una storia che abbia confermato i misteriosi inizi. Spesso, soltanto scorrendo l’intera esistenza di un uomo, possiamo cogliere la trama sottile che lega gli eventi.

Basti pensare all’esperienza universale dell’amore; quante volte gli innamorati hanno ripensato al loro primo incontro, leggendolo come gravido di segni, di promesse, di coincidenze, che poi si sarebbero puntualmente realizzate quasi tutto fosse stato già scritto in un copione. L’uomo dei secoli trascorsi, pur sapendosi peccatore, amava Dio, perciò vedeva la sua provvidente presenza nei luoghi e negli eventi più vari. Egli sapeva cogliere in filigrana, fosse un dotto o un semplice popolano, la mano misteriosa del Creatore. Camillo crebbe in questo ambiente a contatto con questo tipo d’uomo, crebbe un bambino forte sotto lo sguardo dolcissimo di una madre che in paese la gente chiamava Santa Elisabetta, per il dono di quel figlio in età così avanzata.

Primi anni

Quella donna, Camilla, trasfuse nel figlio una vera e propria messe di consigli, avvertimenti, abitudine devote. Instillò nel ragazzino l’amore per i deboli, i poveri, soprattutto il primato della carità che sa accogliere e riconoscere il prossimo lì dov’egli è. Non era infrequente, per il fanciullo sedere a tavola con qualche povero che la mamma invitava ad entrare per rifocillarsi e mangiare qualche cosa. Accanto a questi valori, in Camillo crescevano, quasi a disputarsi il suo acerbo cuore, una tendenza alla spavalderia e alla vanagloria che gli derivavano dal mestiere e dai modi del padre. A dire il vero papà in casa si vedeva poco, tanto era preso dalla sua attività di soldato, e questo non favorì la maturazione di Camillo che ogni giorno di più diventava un problema per monna Camilla. L’anziana madre si consumava in preghiere e recite di rosari, temendo la malasorte potesse un giorno abbattersi sul destino di quel figlio che fisicamente cresceva a dismisura superando i due metri di altezza. Camillo, che di animo era buono, si rattristava vedendo la mamma così preoccupata per certe sue ribalderie; e chiedeva perdono una volta, due, per poi ricadere sempre negli stessi errori. L’attrazione per la lotta, per le armi, per le allegre bevute in compagnia, per il gioco, erano seducenti attrazioni cui non sapeva resistere.

Nel 1563, la mamma morì e l’educazione di Camillo passò direttamente nelle mani del padre che subito lo iniziò all’arte delle armi. Nel 1567 Camillo su arruolò con i Veneziani per combattere contro i Turchi, ma il suo tentativo di arruolamento non andò a buon fine. Intanto, il padre, vecchio e malandato si ammalò e di lì a poco morì con i conforti religiosi vicino al santuario di Loreto. Camillo era solo, incerto sul da farsi; il suo sogno di diventar soldato non si era ancora assopito dentro il suo cuore, quando un strana piaga cominciò a dolergli sul collo del piede destro.

 Prese a grattare quella vescichetta che si irrito e si trasformò in un’ulcera. Fu allora che, prostrato fisicamente e totalmente disorientato non sapendo che direzione dare alla propria vita, avvertì in cuore il richiamo di cose buone, di un ritorno a quella religione cui la madre lo aveva avviato quand’era fanciullo. Nell’animo di Camillo insomma si ridestarono i germi fecondi che l’amore e la saggezza materna avevano seminato nel suo spirito. Mosso da un istintivo impulso, per non dire da un richiamo profondo decise di farsi frate. Camillo aveva uno zio, padre Paolo Loretano, guardiano dei frati francescani al convento di S. Bernardino all’Aquila. La capacità di scrutare il cuore umano dello zio, riconobbe in Camillo una vocazione dettata dall’istinto più che da una ragionata ponderazione.

Infatti Camillo dopo aver trovato conforto presso il convento in un baleno mise da parte il suo proposito di farsi frate. Partì allora per Roma desideroso di conoscere la città eterna, ma soprattutto nella speranza di curare adeguatamente la ferita al piede che continuava ad infastidirlo. Si fece ricoverare all’ospedale S. Giacomo. Era il 7 marzo 1571 e poiché non aveva denaro si accordò con gli amministratori di prestare, in cambio della cura, la sua opera come inserviente. Ma anche in questa occasione Camillo si rivelò inadeguato al ruolo che si era assunto: spesso, mancava agli impegni presi rifugiandosi presso il Tevere a giocare con i barcaioli; portava infatti sempre con sé un mazzo di carte. Insomma il vizio del gioco e le allegre bevute, in una parola uno stile di vita licenzioso e dissoluto, esercitavano su di lui un fascino irresistibile. Inoltre la piaga non era per nulla migliorata. Fatto sta che gli amministratori dell’ospedale, dato il comportamento di Camillo, decisero di allontanarlo in quanto incorreggibile.

Era il 31 dicembre 1571. Per quasi tre anni Camillo vagò alla ricerca di un buon arruolamento. Entrò nella Lega Veneta che si proponeva di sbaragliare i Turchi, quindi dopo essersi trasferito a Zara per unirsi ai veneziani si arruolò con la Spagna. In quegli anni rischiò di morire più di una volta, ripromettendosi sempre di cambiare vita se si fosse salvato. Ma regolarmente tradì la promessa e con analoga puntualità mise da parte quel sogno di farsi frate che riemergeva periodicamente nella sua mente, soprattutto nei momenti del pericolo. Doveva toccare il fondo. Durante il suo peregrinare capitò a Napoli. Nella città del Vesuvio perse tutto giocandosi la liquidazione del congedo, la spada, persino la camicia. Quelle esperienze andavano preparando il terreno alla grazia divina che di lì a non molto lo avrebbe trasformato per sempre.

A Napoli Camillo fece il mendicante e divenne povero. Fu un’ esperienza dalla quale il futuro Santo trarrà un indelebile insegnamento tanto che avrà spesso a ripetere nel corso della sua vita: “ Se non ci fossero più poveri sulla terra, bisognerebbe scavarli di sottoterra per servirli ancora, come si serve a nostro Signore Gesù Cristo.” Ma stiamo correndo troppo, torniamo alla nostra storia: Camillo mendicava dunque, ed era curioso veder quel giovane di soli 25 anni, alto più di due metri, stendere la mano nella speranza di impietosire qualche passante.

Fu grazie ad uno di questi che Camillo venne a sapere di come presso Manfredonia si stesse raccogliendo della manodopera per l’edificazione di un convento di frati cappuccini. Dopo aver vinto l’ennesima tentazione di arruolarsi ancora una volta per svolgere il mestiere delle armi, eccolo bussare alla porta di Padre Francesco da Modica, guardiano del convento. Fu così che Camillo iniziò a portare pietre e calcina ai lavoranti, ma il lavoro, in breve, doveva logorarlo. Inoltre riaffiorava dal suo cuore l’orgoglio del soldato ferito nell’amor proprio nonché la passione del gioco e il miraggio di facili guadagni. Ma l’ambiente e la pazienza dei padri cappuccini ebbero la meglio sulle ultime resistenze di una natura che oramai era pronta per l’incontro risolutore.

La vocazione.

E’ un mistero grande riuscire a comprendere perché a volte Dio scelga la via stretta, il tortuoso percorso, la prova ripetuta per trarre a sè lo spirito umano. Quasi il Signore volesse temprare i suoi figli più eletti attraverso prove altissime per poi chiedere loro tutto. La chiamata divina -come vedremo anche nel caso di Camillo- non si è manifestata e realizzata in un preciso istante; piuttosto, negli anni che abbiamo raccontato, essa si è stata ripetuta incessantemente; cioè ha riecheggiato nel cuore di Camillo molte volte, a partire dai primi elementari ma essenziali insegnamenti della madre, fatti di parole e atti concreti. Solo che in quei primi anni il germe non trovò un terreno sufficientemente coltivato, perciò non mise radice profonda e parve perduto. Ci volle un evento risolutore, un sorta di momento fondativo, dal quale cominceranno a prodursi copiosi frutti che riveleranno come nulla di ciò che era stato seminato era andato perduto.

La vita di Camillo stava per radicarsi definitivamente in Cristo e da questo incardinarsi dovevano discendere effetti benefici per tutti. E’ questo un tratto tipico della spiritualità cristiana: quando il cristiano risponde pienamente alla chiamata di Dio egli si apre al mondo. Osserva esemplarmente al riguardo padre Andrè Bernard: “Mentre tra gli uomini, “l’atto di scegliere uno”- si pensi alla vocazione matrimoniale- sembra implicare la ripulsa di altri, nel caso di Dio la benedizione è sempre universale e la scelta di uno significa che costui ha un funzione mediatrice a vantaggio di tutta la comunità. Inoltre nell’antico testamento appare spesso l’aspetto paradossale dell’azione divina: Dio sceglie ciò che è debole per farne uno strumento del suo disegno d’amore.”

Quante volte nella vita dei Santi è accaduto tutto questo. Camillo era debole, reietto, con la mente confusa, certamente con scarsissima autostima; ebbene Dio sceglie proprio lui per trasformare un mondo: quello del malato. Ma procediamo per gradi. Era il primo febbraio 1575, una giornata non fredda e padre Francesco chiese a Camillo di risalire la mulattiera che si inerpica sul monte Gargano per recarsi al convento di S. Giovanni Rotondo, e così scambiare tagliolini freschi con del buon vino. Nel primo pomeriggio Camillo giunse al convento e incontrò padre Angelo. Questi lo accolse e forse grazie al suo intuito comprese che qualcosa di originale si stava agitando nel cuore di Camillo.

Vi era una nota tragica di inquietudine e tristezza nonché di incompiuta grandezza, impigliata nel tratto angoloso del volto di quel ragazzo; quel giovane gigante sembrava trattenere un’energia, una forza che, se volta a buon fine avrebbe dato grandi risultati. Forse questo pensò padre Angelo quando invitò Camillo a sedersi con lui per discorrere un pochino sotto il pergolato. Le sapienti parole del Frate smossero la “sopita lava” che bolliva nello spirito di Camillo. In quel momento egli fu colto da un moto di profonda contrizione e si avvide di quanto aveva sprecato nel corso della propria vita. Camillo per tutta la notte ripensò alle parole di quel semplice e sereno frate. “Dio è al primo posto, Dio è tutto il resto è nulla, sputa in faccia al demonio”. Angelo aveva capito che una volta sottratta al potere di Satana quell’anima si sarebbe fatta santa.

 Al mattino Camillo ripartì e il tragitto verso Manfredonia fu segnato dalla crisi e dalla rinascita. Mentre pensava tra le lacrime alla propria fallimentare vita, quando fu in un luogo detto valle dell’inferno per il suo aspetto arido e pietroso, visse un’esperienza simile a quella si S. Paolo; scese dalla cavalcatura, cadde in ginocchio e battendosi il petto chiese perdono per propri peccati ripromettendosi di donarsi totalmente a Dio. Camillo ricorderà sempre quel giorno come giorno della sua seconda nascita; era rinato dallo spirito vincendo “la carne.” Come S.Agostino, come l’apostolo Paolo, come molti altri grandi peccatori attraverso il rimorso e il senso della “felice colpa,” Camillo si avviava a diventare santo senza saperlo.

La nuova vita.

Tornato al convento Camillo manifestò immediatamente il desiderio di prendere i voti, padre Francesco gli consigliò di non correre troppo. Però noi possiamo capirlo: ora egli aveva trovato il tesoro del campo, di memoria evangelica e aveva fretta di acquistare quel campo. Fu inviato per il noviziato presso Trivento, nel Molise, e qui si mise subito in luce per l’impegno, la disponibilità e la capacità di sacrificio, tanto che dai confratelli fu soprannominato, frate umile. Purtroppo prima che portasse a termine il noviziato, la vecchia piaga al piede riprese a disturbarlo al punto che i superiori ritennero opportuno invitarlo a farsi ricoverare. Camillo accettò soffrendo la decisione dei superiori confidando nel soccorso di Dio.

Certo, se il Signore lo portava ancora una volta in ospedale forse aveva in mente qualcosa che lui, misero uomo, non poteva comprendere. Venne pertanto ricoverato per la seconda volta al S. Giacomo di Roma e probabilmente cominciò ad insospettirsi nei confronti di quella piaga che aveva un che di misterioso, quasi fosse lei a dettare i tempi di un piano che per ora gli era oscuro, oltre che doloroso. Al S. Giacomo rimase per tre anni come infermo, infermiere e guardarobiere, salendo via via nella considerazione dei responsabili dell’ospedale in quanto si mostrava efficiente nelle cure e nell’attenzione verso i malati. In quel periodo inoltre ebbe modo di conoscere e di prender come padre spirituale il futuro S. Filippo Neri, che gli consigliò fra le altre cose, di rinunciare al sogno di farsi cappuccino e di servire invece gli infermi. “Vedrai”, gli diceva Filippo, “che se lascerai l’ospedale la piaga si riaprirà.”

Ma Camillo non ascoltò Filippo e visto che da più di sette mesi la piaga non gli dava fastidio decise di lasciare l’ospedale. Fu così che riprese il noviziato presso il convento di Tagliacozzo, manifestando ancora una volta una condotta irreprensibile. Ciò non tolse che le previsioni di Filippo Neri puntualmente si avverassero: la piaga alla gamba si riaprì e la vita religiosa per l’ennesima volta gli venne sconsigliata. Camillo insomma dovette abbandonare il noviziato. Erano trascorsi solo quattro mesi ed eccolo di nuovo varcare la porta del S. Giacomo. Fu probabilmente in quel momento che il futuro santo si rese conto che la volontà di Dio voleva per lui un destino diverso da quello di indossare il saio dei cappuccini.

Prima nel cuore, poi nella mente, quindi sulle labbra di Camillo, prese forma una sorta di solenne dichiarazione ch’egli faceva innanzitutto a se stesso: “Poiché Dio non mi ha voluto cappuccino, né in quello stato di penitenza dove tanto desideravo di stare e di morire, è segno che mi vuole qui, al servizio di questi poveri suoi infermi.” Era dunque nuovamente al S. Giacomo, un ospedale che offriva ricovero e conforto ad ammalati incurabili, piagati, esseri umani soli, colpiti dai morbi più infetti e sconosciuti.

Fu in questo ambiente che Camillo vide sempre più maturare la propria scelta vocazionale; era stato nominato maestro di casa ed economo, e con questi nuovi ruoli, oltre ad amministrare sapientemente le risorse disponibili, cominciò a riformare l’organizzazione della struttura ospedaliera, ponendo somma cura verso gli infermi. Introdusse, per migliorare lo stato dei malati, l’usanza di lavarli, ristorarli, ma soprattutto di accoglierli amorevolmente affinché trovassero negli infermieri e nei medici, prima di tutto delle persone sensibili, capaci di confortare e sostenere umanamente.

Gli ospedali del tempo non avevano alcun riguardo per la dimensione igienica, per non parlare poi di come venivano trattati i poveri e i derelitti prossimi alla morte che mani pietose avevano raccolto ai bordi delle strade avvolti in cenci sudici. Camillo pose attenzione ad ogni singolo uomo e quando egli stesso non lavava e medicava le ferite più putride eccolo pronto a sostenere e catechizzare i più avviliti e depressi, parlando loro di nostro Signore e dell’immenso amore che Lui provava per ogni creatura, anche quella apparentemente più insignificante. Non trascurò neppure di osservare di nascosto il modo in cui gli infermieri trattavano i malati e accadde più di una volta che sanitari brutali e insensibili fossero da lui denunciati e allontanati. Intanto la fama di Camillo cresceva; molti nella sua figura, nel suo impegno instancabile vedevano un modello da imitare e si offrivano come volontari presso il S. Giacomo.

Alla metà di agosto del 1582, durante la notte della Madonna Assunta, Camillo che da lunghe ore stava dedicandosi alla preghiera, avvertì nel petto come l’improvviso avvampare di un fuoco e dalla bocca gli sgorgarono delle precise parole: “ Amore ci vuole, non basta il salario! Solo l’amore può risollevare queste povere membra di Cristo. Voglio organizzare una compagnia di uomini pii e da bene, che non per mercede, ma volontariamente e per amor di Dio, servano gli infermi, con la carità e l’amorevolezza che hanno le madri per i propri figli infermi.

Quella notte nell’animo di Camillo si delineò con chiarezza il fulcro della sua vocazione, ciò che Dio da lui voleva: che si facesse prossimo dei più deboli e indifesi, i malati, ma che in questo non fosse solo, perché il male era tanto, forse troppo e le sue mani, per quanto forti e grandi, non avrebbero saputo confortare che qualche disperato. No! Doveva organizzare una moltitudine di uomini che si dedicassero al servizio degli infermi. “ Bisogna servirli per il puro amor di Dio, come una madre che assiste il suo unico figlio infermo”.

Queste parole andava ripetendo con la frequenza di una stucchevole litania mentre la notte percorreva le corsie del S. Giacomo, sottraendo al riposo le sue lunghe membra, sfinite da una giornata di lavoro indefesso. E la compagnia nacque. Iniziarono in cinque ritrovandosi in un piccolo oratorio ricavato in una stanzetta dell’ospedale. Questi uomini che avevano in cuore un sogno, condividevano la passione per Cristo e per tutti i derelitti che sulla propria pelle prolungavano all’infinito le sofferenze di Lui, in questo mondo. Perciò l’inizio dell’avventura non fu un incontro in cui si concordassero strategie e si distribuissero incarichi e ruoli; quegli uomini di fede sapevano che tutto sarebbe dipeso dalla volontà di Dio.

Perciò a Lui rivolsero lo sguardo e il cuore dedicandosi intensamente alla preghiera, fonte da cui far scaturire l’azione. Tutto questo avvenne nonostante i contrasti. Sì! i contrasti, perché la fama di Camillo ben presto suscitò invidie e apprensioni, nonostante fosse il frutto di una carità e di un umiltà senza pari. Nell’idea della compagnia si intravvide la volontà di impossessarsi dell’ospedale. Taluni azzardarono che Camillo si fosse montato la testa e che, privo di cultura qual era, non sarebbe stato in grado di organizzare e coordinare alcunché. Nella stanzetta adibita ad oratorio campeggiava un grande crocifisso.

Qualcuno, durante quei giorni carichi di tensione e insinuazioni malevoli era entrato nel piccolo oratorio e aveva staccato il crocefisso dal muro gettandolo dietro una porta. Camillo fu profondamente ferito da questo anonimo gesto che rappresentava un cattivo segnale. Cercò conforto presso il superiore del Fatebenefratelli all’Isola Tiberina, padre Pietro Soriano; questi lo rincuorò e lo sostenne nel proposito di fondare la compagnia. Ma fu ancora una volta il Signore a prendere la parola e dirigere il corso degli eventi. Lo fece in modo insolito, inatteso, quasi si rivolgesse ad un amico di vecchia data.

Quella notte Camillo fece un sogno, vide il suo amato crocifisso che lo fissava sorridendo e quasi si staccava andandogli incontro pronunciando queste parole: “ Non temere pusillanime, continua, che io ti aiuterò e sarò con te e trarrò gran frutto da questa proibizione,”-di fondare una compagnia-. Quanto sia stato importante questo annuncio lo vedremo fra poco, in esso infatti è racchiusa l’amorevole sapienza di Dio e il fondamento su cui l’agire umano deve piantare le proprie radici per non risultare vano; non disse forse Gesù, nel vangelo di Giovanni: “Senza di me non potete fare nulla” ?

Ma ogni cosa a suo tempo. Camillo, confortato da Cristo stesso e ben consigliato da amici fidati, comprese come fosse giunto il momento di farsi sacerdote; era questa la necessaria premessa che avrebbe preluso alla nascita della compagnia. Il 26 maggio 1584 Camillo, nella basilica lateranense, riceve l’ordinazione sacerdotale. Ha compiuto da un giorno 34 anni.

Dopo l’ordinazione Camillo torna a distanza di quattordici anni nel suo paese natale, Bucchianico e qui dopo aver visitato la tomba della madre, si ferma per circa un mese. In lui è ancora vivo il ricordo della sua scapestrata gioventù e quasi fatica a capacitarsi dell’imprevisto percorso che la divina provvidenza per lui solo, aveva disegnato. Ora, alla memoria riaffiorano gli ammonimenti della madre e le continue amorevoli esortazioni con le quali lei si sforzava di trarlo via dal vizio per farlo innamorare della virtù. Ora si commuove e capisce. Vede, con gli occhi rinnovati della fede quanto sia bello il suo piccolo paese e quanto sia bello il mondo, come tutto fluisca da una grazia sovrabbondante e come a noi spetti soltanto il coraggio di assecondarne il richiamo.

E pensare che da giovane voleva fuggire quei luoghi in cerca di avventure e di fama…ma adesso capiva che persino i suoi errori, le sue intemperanze, i suoi vizi erano serviti al suo Signore per forgiarlo adeguatamente, come si forgia un metallo al fuoco incandescente di una fucina. Ma quanti anni c’erano voluti e la strada non era che al suo principio, chissà cosa lo attendeva ora. A Roma, al S. Giacomo, i rancori non erano cessati e Camillo, durante quella breve vacanza sulle tracce della propria infanzia, maturò la convinzione di andarsene. Tornato a Roma infatti, nuovi contrasti e nuove avversità cercavano di dissuaderlo dal suo sogno sconsigliandogli di fondare la compagnia.

 Fu in questa rinnovata circostanza che Dio stesso giocò la sua ultima, definitiva carta vincente. Camillo in quei giorni era preso fra più fuochi: si sentiva assalito dai timori, solo, ancora una volta abbandonato; persino dubitava del sogno e del crocifisso che gli aveva parlato. Anche Filippo Neri, sua autorevole guida spirituale non si stancava di insistere affinché riponesse il suo sogno nel cassetto e si dedicasse soltanto al lavoro in ospedale, senza ambire al ruolo di fondatore di qualsivolglia compagnia. Camillo pregava lunghe ore inginocchiato davanti al crocifisso e chiedeva una luce, un conforto, sentendo come il proprio cuore fosse lacerato. Temeva che quel suo desiderio, quel comando che lo spingeva ad organizzare un gruppo di uomini dediti ai malati, potesse essere il frutto di un insano orgoglio, la larvata e subdola presenza nel suo cuore di un’ambizione non ancora sopita e vinta. In fondo, non voleva semplicemente diventar prete? Ebbene l’obiettivo era stato raggiunto. Perché ora non si accontentava? Non è che magari, la sua maledetta natura inquieta, mai paga, stava riemergendo sotto nuove spoglie sospingendolo verso un’avventura dal destino incerto?

Pregava e piangeva Camillo, fissando il crocifisso; fu allora che vide il Cristo della croce animarsi e scendere verso di lui con sguardo sereno e dolcissimo, quindi vide Gesù compiere il gesto del piegarsi per sostenerlo e risollevarlo. Poi vennero le parole: “ Camillo, mio caro Camillo, di che cosa t’affliggi? Non essere pusillanime! Continua, che io t’aiuterò, perché quest’opera che hai iniziato, è opera mia e non tua!”. Camillo rimase come invaso da quella vista e da quelle parole. Dio si era piegato ancora una volta sul suo dolore, sul suo smarrimento e come un amico preoccupato lo aveva raccolto da terra, risollevato. Sembra esprimersi in questa visione l’idea stessa dell’incarnazione, l’amore di Dio che si fa prossimo sino al punto di farsi coinvolgere dalla storia di ciascuno di noi. La continua caduta dell’uomo appare in tal modo definitivamente vinta, solo che l’uomo si deve prendere la briga di ascoltare. Continua, dice il Signore, anche se sei debole, anche se il compito ti appare sproporzionato rispetto alla tue forze, Continua! “ perché quest’opera è opera mia e non tua.”

Viene alla memoria l’incontro di Mosè con il roveto ardente e il comando divino che lo spinge a tornare in Egitto, e la risposta impaurita di Mosè che si sente una nullità rispetto al potere del faraone. Mosè non era riuscito a liberare il suo popolo quand’era principe d’Egitto; come poteva ora, più vecchio, più stanco intraprendere una tale impresa. La risposta risiede in un fatto semplicissimo: ora Mosè, liberatosi dai propri progetti e dalla propria ambizione è disponibile ad agire fidando solo in Dio. Quale lezione! Le opere umane lasciate a se stesse hanno il respiro breve della nostra caducità e debolezza, ma quando l’artefice, il fondamento, è Dio, tutto si realizza. Camillo questo comprese e da quel giorno non dubitò più. Era l’8 dicembre del 1584, festa della Natività di Maria.

Quel giorno, il Santo fece indossare l’abito clericale a Bernardino e Curzio, suoi primi compagni nell’avventura della santità operante. Il passo successivo fu quello di lasciare il S. Giacomo. Se ne andò dall’ospedale che fece maturare la sua vocazione portando con sé il solo crocifisso, “l’amico” che in tutti i momenti di sconforto lo aveva risollevato.

D’ora in poi la palestra di carità per Camillo e i suoi divenne l’ospedale S. Spirito, il primo ospedale di Roma, opera voluta da Papa Innocenzo III che diede il via ai lavori nel 1198. Antesignano dei moderni ospedali, l’auspicio sotto il quale sorse quest’opera cristiana, fu detto dallo stesso Papa con queste parole: “Lì doveva essere servito Gesù Cristo, il capo, nelle sue membra inferme e bisognose.” Dopo molteplici peripezie nel corso di due secoli, il S. Spirito fu ricostruito da Papa Sisto IV tra il 1471 e il 1476 realizzando la maestosa corsia che prese il nome di sistina, lunga 120 metri, alta tredici e larga dodici, sovrastata da una cupola ottogonale sotto la quale troneggiava l’altare.

La corsia era affrescata da opere d’arte e l’altare univa simbolicamente e realmente il cielo e la terra, quasi a mostrare il fecondo frutto della sofferenza dell’uomo Dio, che si fa, nel suo sacrificio, prossimo ai più bisognosi, i malati, vera e propria icona di un’umanità perennemente in cerca di una redenzione, fisica e morale. In quell’ospedale trovavano posto oltre che i malati, anche i poveri, i pellegrini, la gente venuta dalla campagna in cerca di un temporaneo rifugio.

Quando Camillo vi entrò per la prima volta fu comunque colpito dalla mancanza di igiene e di adeguata assistenza, pur costatando l’impegno profuso dal personale stipendiato e dai volontari. Ogni giorno, Camillo e i suoi primi compagni si recavano all’ospedale ad assistere i malati. Camillo volle denominare subito quel suo gruppetto, chiamandolo “Compagnia dei servi degli infermi”. Consegnò ai compagni, insieme alla forza di quel titolo che li faceva tutti servi del malato, un abbozzo di statuto, un primo insieme di regole cui ispirarsi e votarsi. In breve ecco i punti salienti stilati da Camillo con riguardo specifico al malato: l’amore appare come la regola principe alla quale deve essere informato ogni altro valore, un amore che tutto vede, tutto sopporta, a tutto pone rimedio. Fa seguito il dovere di prestare la massima diligenza nell’osservare ogni bisogno, vuoi umano-spirituale, vuoi sanitario, manifestato dall’infermo. “Ognuno guardi il povero come la persona del Signore” ripeteva Camillo.

 La fama di Camillo e dei suoi compagni cresceva tanto che il 18 marzo 1586 nacque formalmente la congregazione religiosa dei Ministri degli infermi, Camillo fu subito eletto superiore per tre anni. Persino Papa Sisto V, che conosceva la fama di santità di Camillo, volle incontrarlo. Fu in quell’occasione che il futuro santo presenterà al pontefice l’idea di apporre sul saio scuro della congregazione la grande croce rossa che da quel momento caratterizzerà la famiglia camilliana.

Ora il lontano sogno che tanto aveva inquietato sua madre trovava il suo pieno significato. Dio non inganna; i suoi tempi non sono i nostri; i sui segni possono a volte confonderci o intimorirci, ma prima o poi, in questa vita o nell’altra, il conto torna e Camillo si stava rendendo conto che aveva intrapreso una via di cui conosceva l’origine ma non la fine. Quella sera, dopo aver incontrato il Papa, che da quel giorno gli sarà amico e ammirato sostenitore, ritiratosi in preghiera ringraziò il “suo” crocifisso e pianse. Il 21 settembre 1591 la bolla pontifica Illius qui pro gregis elevò la congregazione camilliana ad ordine religioso: L’ordine dei chierici regolari dei ministri degli infermi. Camillo il giorno 8 dicembre pronunciò assieme ai suoi venticinque compagni la formula della professione perpetua.

Il malato è il padrone.

 Nella sua passione instancabile per il malato Camillo incontrava di tutto: uomini dolci e arresi alla malattia che avanza, come pure uomini irosi, violenti e ingrati. Con tutti egli manifestava una dolcezza che gli derivava dalla costante “frequentazione del Cristo” e dalla quotidiana assunzione del Suo corpo nelle specie consacrate del pane e del vino. Questa frequenza sacramentale aveva progressivamente trasformato Camillo rendendo la sua vita sempre più santa. Ma ecco alcuni esempi di questa sua “nuova natura”. Una volta un malato dopo essere stato amorevolmente accudito prese ad inveire contro Camillo e questi pacatamente gli disse: “ Ti chiedo perdono, fratello mio, per non averti compreso prima, ma ogni qualvolta desideri qualche cosa, chiamami che vedrò di servirti nel modo migliore”.

Altre volte ad un malato che lo ringraziava rispondeva quasi con disagio: “ Ma figliolo perché mi ringrazi? Sono io che debbio ringraziare te della buon occasione che m’hai dato di servirti: sappi che ho fatto voto di esserti servo, perciò ti prego di non ringraziarmi.” Un’altra volta un alto prelato lo mandò a chiamare mentre stava accanto ad uno dei suoi malati, ma Camillo declinando l’invito rispose: “ Dite a Monsignore che sto occupato con Gesù Cristo: ma come avrò finito la carità sarò da sua Signoria illustrissima.” Camillo serviva i malati spesso in ginocchio, baciava loro le mani e i piedi e li esortava a pregare per la sua anima, che reputava mai adeguatamente purificata e comunque sempre debitrice, nei confronti di Cristo e dei fratelli. In tal modo, dando l’esempio, Camillo si era convinto che tra le altre cose avrebbe convertito molti infedeli che, vedendo la carità operante sua e dei suoi fratelli, certo sarebbero stati affascinati da Cristo. Camillo aveva fatto della corsia centrale del Santo Spirito non solo un luogo dove celebrare l’eucarestia quotidianamente, ma anche un luogo in cui far risuonare la bellezza della musica durante la liturgia.

Persino il grande Pierlugi da Palestrina non mancò di accettare gli inviti di Camillo ad animare la messa, soprattutto in occasione di grandi feste e ricorrenze. Così il malato non solo doveva sentirsi curato per quanto riguardo il corpo ma anche nello spirito: tanta umanità derelitta poteva in tal modo, partecipare alla bellezza di celebrazioni in cui la presenza del Signore si faceva palpabile perché tutto contribuiva a dirigere il cuore verso il centro della celebrazione. Sotto la cupola del Santo spirito veramente, pur fra mille sofferenze si apriva in quei momenti uno squarcio di paradiso.

Le beatitudini di Camillo.

Colmo della presenza di Dio nel proprio cuore Camillo, un giorno, vergò di suo pugno una sorta di rievocazione delle beatitudini evangeliche calate nella realtà del presente. Si tratta di un vero e proprio manifesto di vita rivolto in primis ai propri confratelli. “Beati voi, Padri e Fratelli, che avete fatto questa elezione di vita. Beato e felice il ministro degli infermi che consumerà la vita sua in questo santo servizio con le mani dentro la pasta della carità. Felici voi se morirete per i poveri di nostro Signore Gesù Cristo, perché andrete a goderlo eternamente. Beati e felici quei ministri degli infermi che gusteranno di questo santo liquore celeste, le opere di carità negli ospedali. Maggiore grazia non può avere da Dio il ministro degli infermi che morir fra i poveri. Beati voi! Beati voi! Che avete così buona occasione di servire Dio al letto dei malati. Beati voi! Padri e Fratelli miei, che andate in quella santa vigna dell’ospedale. O felici e beati i ministri degli infermi che sapranno conoscere il gran bene della loro vocazione.”

L’esemplare modello di vita che Camillo attraverso le “beatitudini” comunica non ha bisogno di commenti. In esso si esprime uno stile di vita ricalcato sulla figura di Cristo stesso quale manifestazione piena e fontale di ogni umana forma di carità. Camillo non fu solo uno straordinario curatore di corpi e di anime; egli visse su se stesso costantemente la condizione del malato. Percorse la via dell’espiazione del male del mondo attraverso il quotidiano ed instancabile servizio, dimenticando se stesso e soffrendo fisicamente. Fu costantemente vessato da molteplici disturbi fisici: prima di tutto la piaga, una “compagna di vita” che gli scavava il piede sino a scoprirgli l’osso, tanto che egli nei momenti di maggior dolore sentiva la sua carne come lacerata da denti di cane. E poi c’erano l’ernia inguinale, i duroni ai piedi e le coliche renali.

 La spiritualità di Camillo si nutrì anche di questo, temprata dal patire seppe compatire, ovverosia condividere la condizione del malato, il quale, in tal modo poteva avvertire l’amore di quel confratello nella sofferenza che tanto si prodigava girando per le corsie ad ogni ora del giorno e della notte. La comunità camilliana cresceva e con essa l’impegno dei ministri degli infermi presso gli ospedali romani; oramai in tutti si potevano scorgere le sagome di quegli uomini dal nero saio e dalla croce rossa cucita sul petto. Non solo, la fama dei camilliani crebbe a tal punto che richieste della loro presenza cominciarono a giungere da tutta Italia. I camilliani in tal modo cominciarono ad agire negli ospedali di Napoli, Milano, Genova. Il 29 dicembre del 1600 una bolla pontificia concedeva ai religiosi di avere l’abitazione all’interno dell’ospedale.

In occasione di grandi calamità, come le epidemie di peste, Camillo e i suoi confratelli erano sempre in prima linea; il futuro santo aveva chiesto al Signore di fargli la grazia di morire accanto ai propri malati. Quando l’epidemia giungeva Camillo organizzava un’immediata “sagra della carità”, perché queste per lui erano occasioni in cui spendersi senza sosta eroicamente. Anche Roma fu presa nella morsa della peste e della carestia. Camillo a capo dei suoi confratelli era sempre lì, sul proscenio del dolore. Visitava gli anfratti, portava ristoro fisico, alimenti, cure di ogni genere. Cosa fosse la peste è ben narrato da un cronista del quattrocento, Angelo di Taro: “ Per la città non si sentiva più un rintocco di campana, né alcuno rimaneva a piangere i morti, perché i superstiti temevano di subirne la medesima sorte(…) Il padre non assisteva alla morte del figlio, il fratello fuggiva il fratello, la sposa abbandonava lo sposo per timore del contagio, potendo questa orribile malattia comunicarsi anche soltanto con l’alito. Si seppellivano i cadaveri senza alcuna cerimonia e solennità. Ed io, attesta lo stesso cronista: sotterrai i miei figlioli in una fossa con le mie mani ed il simile fecero molti altri.”

E davanti a questo spettacolo, a questa ecatombe, che i consacrati Camilliani, assieme ad altri fratelli di ordini religiosi diversi, si rimboccano le maniche anziché fuggire. Ma l’opera di Camillo doveva ancora crescere. L’esercizio della carità si espanse sui campi di battaglia e a fianco dei militari feriti. Dall’anno 1609 al 1612 Camillo dimorò nel “suo paradiso”, l’ospedale S.Spirito. Qui occupava una stanzina provvista del solo letto, con una piccola finestra che guardava verso il Tevere.

 In tal modo Camillo poteva assistere i propri malati e pregare. Osserva il Colafranceschi biografo di Camillo: “Usava preparare delle fette di pane inzuppate in un vino generoso…se non potevano masticare si procurava dai contadini delle uova fresche per farle loro sorbire”. Come detto quando non era accanto ai malati sostava in adorazione davanti al Santissimo Sacramento, perché sapeva che la forza per agire doveva essere attinta dalla contemplazione.

La fine e l’inizio.

Giunse l’anno 1614. Camillo aveva 64 anni. E il male che lo aveva colpito lo stava rapidamente per ricongiungere al Padre. Il 2 luglio, dopo aver ricevuto l’eucarestia disse: “ Signor mio io confesso di non aver mai fatto niente di buono e di essere un miserabile peccatore, perciò non mi resta che la speranza della tua divina misericordia e del tuo preziosissimo sangue.

Negli ultimi tempi lo spirito di Camillo non era percorso dalla serena consapevolezza per l’immenso bene procurato a migliaia di esseri umani, piuttosto si arrovellava ripensando al tempo della sua gioventù, ai molti peccati e alle omissioni commesse. Come ogni natura santa, elevata dalla grazia di Dio sempre più in alto, Camillo scorgeva con stupefacente chiarezza ogni manchevolezza, presente e passata. In quei momenti rivedeva il crocifisso che, risollevandolo, lo rimetteva in carreggiata stimolandolo a proseguire; ma forte in lui premeva il senso della colpa. Allora guardava alla Madre di noi tutti, Maria, che conosceva il dolore di donna trafitta dal dardo più insopportabile: la passione, l’agonia, la morte di quell’unico figlio innocente.

E la Vergine lo confortava. Dal giorno della sua conversione infatti Camillo aveva sempre attribuito un ruolo decisivo a Maria quale privilegiata artefice di quel prodigio. Il Santo ricordava sovente ai suoi confratelli come molte date cruciali lungo il corso della loro storia avessero coinciso con festività mariane. Il 12 luglio fu trascorso da Camillo ascoltando letture spirituali e ogni tanto stringendo al petto e baciando il quadro del crocifisso. Camillo in quei momenti nei quali le forze andavano lentamente scemando, meditava le ferite sante di Cristo e si affidava a lui cedendo ad una condizione di abbandono che lo faceva sciogliere in lacrime gioiose; perché al venire progressivamente meno la propria forza e la propria volontà faceva contrasto il dolce irrompere nell’anima, di Lui, l’amato Gesù.

Come era lontano il tempo delle ambizioni guerresche, della auspicata gloria umana! Ora, come un bimbo che conosca poche parole, ma essenziali, le balbettava alla madre del cielo e al Padre di noi tutti: “ Verrò Signore, verrò non quando piacerà a me, ma quando piacerà a Te…Signore, tutto quello che sono stato, che sono, che sarò, il tutto è venuto dalla tua grazia…Signore, mi pento di averti offeso, non vorrei averlo fatto, ma spero in te, Signor mio!”.

Come siamo lontani da certo cattolicesimo contemporaneo in cui tutto si giustifica, tutto è ammesso, in cui la preoccupazione della perfezione morale è annacquata in una dolciastra idea di tolleranza, in cui il principio della formazione cristiana, sembra essere il gusto del singolo, la sua psicologia, il suo benessere, l’assenza di ogni senso di colpa. Tutto dipende dalla tua grazia, pensava Camillo, ed era vero; la matassa ingarbugliata della sua infanzia e della sua prima giovinezza, gli insegnamenti della madre e pianti di lei, gli errori, il gioco, la caduta in disgrazia. Tutto si era sciolto. Ogni filo, di ogni colore, si era rianimato e disposto in perfetto ordine e armonia a formare l’ordito dell’arazzo della sua vita.

Ora poteva ammirarlo con le poche forze che gli restavano; ed era bello rivedere Bucchianico in primavera, con le vie piene di vita, con i rumori dei vari mestieri e delle varie officine artigiane; come era bello sentire il profumo del pane appena cotto spandersi per le vie attigue alla bottega del fornaio. Era bello ricordare il gioco con i compagni, per la strada e per i boschi, come era unico il ritorno a casa dove ad attenderlo c’era sempre la mamma. A Natale poi, il tempo ruotava tutto attorno alla Chiesa: si preparava la Sacra notte con trepidazione e i sacerdoti che officiavano il rito sembravano essere scesi in quel momento dal paradiso, tanto erano sontuosi i loro paramenti, tanto le volte della Chiesa si addensavano del fumo d’incenso e del chiaroscuro delle candele. In quel tremolante chiarore, i lunghi ceri dalla fumigante fiamma, allestivano, come silenziosi testimoni dalla breve vita, il luogo della nascita del Salvatore del mondo.

Poi la fantasia e il ricordo si spostavano, ed ecco monte S. Angelo e il santuario scavato nella roccia, luogo consacrato da S. Michele Arcangelo stesso. Rivedeva, Camillo, i luoghi della sua conversione: la mulattiera che si inerpicava dal golfo di Manfredonia lasciandosi alle spalle il sontuoso e trasparente colore del mare di Puglia. E quella luce che rende scintillanti e leggere come fini cristalli tutte le cose; e rivide le pietre e sentì il vento e avvertì il dolore nell’anima e sulle ginocchia che si piegavano e cedevano in segno di umiliazione e di conversione davanti Dio. La sera del 14 luglio 1614 i confratelli chiesero a Camillo se desiderasse un po’ di brodo; il Santo rispose: “ Aspettate un quarto d’ora e mi ristorerò”. Quindici minuti dopo, mentre padre Mancini ripeteva le preghiere, Camillo pronunciò a fior di labbra i nomi di Gesù e Maria. Intanto i confratelli pronunciavano queste parole: “ Ti si manifesti il volto mite e festevole di Gesù Cristo”.

In quel preciso istante, dolcemente, Camillo entrò nel suo Dies natalis. Era finalmente nato al cielo, quel cielo che aveva inseguito per quarant’anni attraverso l’instancabile preghiera e i sacramenti della Chiesa, quel cielo che aveva intravisto infinite volte negli occhi dei suoi malati.

Il testamento.

Nell’ultima parte del suo testamento spirituale Camillo pronunciò queste parole, frasi che in sentesi magistralmente riassumono la sua vita e la vita che ogni cristiano dovrebbe perseguire: “ Infine lascio a Gesù Cristo crocifisso tutto me stesso, e confido che per sua pura bontà e misericordia mi accoglierà, benché io sia indegno di essere ricevuto da così grande Maestà Divina, come già una volta qual buon padre, accolse il suo figlio prodigo; mi perdonerà come perdonò alla Maddalena, e mi sarà benevolo come fu con il buon ladrone all’estremo della sua vita, mentre era in croce. Così in questo mio ultimo passo egli riceverà l’anima mia, affinché riposi eternamente col Padre e lo Spirito Santo(…) I miei protettori sono: la Beata Vergine, san Michele Arcangelo, il mio santo Angelo Custode, san Carlo, santa Maria Maddalena e tutti gli altri santi, in particolare tutti i fondatori degli ordini e delle congregazioni.” Si era così congiunto idealmente a tutta la Chiesa trionfante che partecipa in ogni tempo all’umano destino di ciascuno. (da: Santi e rivoluzionari, Sugarco)

 
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