Diventa socio
Sostieni la nostra attivitą
Contatti
In un momento in cui la comunità internazionale è concentrata su quello che sta avvenendo in Iran, mi sembra opportuno fare una sintesi per tentare di comprendere il più possibile la situazione, superando interpretazioni di comodo, basate sulle scarne e faziose notizie che i media nazionali riportano.
Prima di iniziare, quindi, è necessario liberarsi dagli stereotipi che ci vengono inculcati e che non permettono di analizzare con serietà e con libertà i disordini di questi giorni: non è vero che Ahmadinejad è un feroce dittatore che non ha alcun consenso popolare, ma non è neanche vero che la ribellione sia la solita “rivoluzione colorata”, ossia finanziata dalla Cia in collaborazione con il Mossad.
L’Iran sembra cioè muoversi con una logica tutta sua, tutta interna: per capirla cerchiamo di seguire le complesse trame che attraversano questa nazione e di cui gli aspetti sociali, politici e culturali non sono che il riflesso.
L’Iran è oggi un paese multietnico, in cui sono molto importanti le comunità locali, unite però dal collante religioso dell’islam sciita. Dalla rivoluzione del 1979 è una repubblica islamica, retta da una specie di sistema duale: da un lato ci sono organi politici non elettivi (cui si accede per cooptazione), in cui risiede il cuore del potere; dall'altra gli istituti (Parlamento, Presidente) eletti dal popolo. Al vertice della piramide del potere troviamo la Guida Suprema, massima espressione della Velâyat-e faqîh (in persiano significa “La tutela del giurisperito”), ossia quella dottrina ideata dall’ayatollah Khomeini secondo cui il giurista musulmano, in quanto esperto della legge (shari'a) che è emanata direttamente da Dio, ha il compito di sovrintendere a ogni azione del Parlamento perché si conformi a quella che il giurista stesso ritiene essere la corretta interpretazione della shari'a.
La Guida Suprema, dal 1989 l'Ayatollah Khamenei, nomina i sei membri religiosi del “Consiglio dei Guardiani della Costituzione”, composto da 12 membri, che ha il compito di approvare (giudizio insindacabile) le candidature alla presidenza della Repubblica e certificare la loro competenza e quella del parlamento, al pari delle più alte cariche giudiziarie. Di fatto con questo sistema il Consiglio dei Guardiani riesce a bloccare ogni legge che contrasti il potere dei religiosi e dei loro alleati. In queste ultime elezioni sono stati approvati quattro candidati: l’attuale presidente Mahmud Ahmadinejad, Mohsen Rezaei, Mir-Hossein Mussawi, Mehdi Karroubi. Ahmadinejad, laico ma religiosissimo, è visto come “l’uomo del popolo”, dalle modeste origini, il cui sostegno elettorale è da ricercare nei contadini abitanti le campagne e nei poveri lavoratori delle città. Egli appartiene alla seconda generazione dei rivoluzionari, cioè a quella che si è formata sui sanguinosi campi di battaglia nella guerra contro l’Iraq tra il 1980 e il 1988. Da iraniano sconosciuto, sale alle cronache politiche nazionali quando viene eletto sindaco di Teheran nel 2003, per divenire due anni dopo Presidente dell’Iran, vincendo tra la sorpresa generale le elezioni con il 61% dei voti.
Mussawi, lo sfidante di punta, è lontanissimo dall’immagine che l’Occidente gli ha cucito addosso. Egli innanzitutto non è un “homo novus”, fu primo ministro dal 1981 al 1989, usato come pedina da Khomeini per contenere le ambizioni di Khamenei. In queste elezioni egli aveva l’appoggio delle città utilizzando, più di ogni altro candidato, i mezzi tecnologici (Facebook, Youtube ed sms) il che non è un particolare insignificante in un Paese dove il 60% della popolazione ha meno di vent’anni, di cui il 30% (23 milioni di iraniani) naviga regolarmente in internet. Razaei fu capo dei Guardiani della Rivoluzione sotto la presidenza di Rafsanjani dal 1989 al 1997 e trova il suo consenso nei quadri dei servizi segreti. Karroubi è visto come un “riformista sociale” e i suoi voti li avrebbe presi “rubandoli” nelle campagne ad Ahmadinejad. Egli ha usato argomenti super demagogici, promettendo ad esempio di distribuire direttamente al popolo gli introiti petroliferi, proposta che nessuno di quelli al potere penserebbe mai di realizzare. Va ricordato anche le modalità in cui si è svolta la campagna elettorale: per la prima volta gli sfidanti si sono affrontati liberamente in faccia a faccia, duelli dai quali è uscito sempre vincitore Ahmadinejad, il quale ha avuto gioco facile appellandosi a sentimenti anti-casta e anti-corruzione molto diffusi nel Paese, citando spesso le massime dell’ayatollah Khomeini, sentite come un “ritorno alle origini”, il che suonava come una non tanto velata critica all’attuale casta sacerdotale, giungendo perfino ad accusare apertamente Rafsanjani di parassitismo e corruzione.
Già, Rafsanjani. Ecco l’uomo che ha più responsabilità nei fatti che sono seguiti ai risultati elettorali. Infatti suo era il piano originario che mirava a sostituire il Presidente in carica con il “suo” uomo Mussawi, in vista del suo vero obiettivo: la carica di “Guida suprema”, spodestando Khamenei. Purtroppo per lui gli esiti finali stanno andando in una situazione inimmaginata da tutti gli uomini dell’alto clero, con un Iran sull’orlo di una rivoluzione, con una guerra civile imminente che rischia di mettere fine alla casta clericale e quindi alla teocrazia stessa. Ma andiamo con ordine: il progetto politico di Rafsanjani era quello di arrivare al secondo turno, sfruttando la bassa affluenza elettorale, per poi dirigere tutti i voti di Razaei e Karroubi in favore di Mussawi contro Ahmadinejad.
I fatti però sono stati clamorosi: maggioranza assoluta al primo turno del presidente in carica e poco importa adesso se favorita da brogli (che appaiono comunque certi) e grande partecipazione popolare, con l’83% dei votanti. Salta completamente il sogno di Rafsanjani, il quale però, insieme a Mussawi, si ritrova a gestire la dinamicità di un’enorme rivolta giovanile e popolare che si muove con un’anarchia di fini, cioè priva di uno scopo preciso e che, come in tutte le rivoluzioni, non sa ancora dove si fermerà e cosa potrà abbattere. In gioco cioè potrebbe finire la teocrazia di cui gli stessi Rafsanjani e Mussawi fanno parte; a rendere tale pericolo ancora più concreto, si è aggiunto la “discesa in campo” della guida suprema Khamenei, il quale, “annusando” i reali intenti del duo Rafsanjani-Mussawi, ha azzardato legittimare la vittoria di Ahmadinejad.
Le elezioni hanno cioè messo “in piazza” lo scontro interno al clero iraniano, tra Rafsanjani e Khamenei, scontro che non ha motivazioni solo religiose e politiche ma anche economiche. Vediamo quindi quali sono le forze sulle quali muovono la loro azione questi due personaggi. Intanto la premessa per capire la dinamica economica interna dell’Iran: se in Occidente i governi sono posseduti dal sistema bancario-finanziario, in Iran è il Ministero del Petrolio che comanda. E chi ha in mano la maggior parte del petrolio iraniano? Rafsanjani. E’ lui il padrone, per usare una terminologia cara ai suoi oppositori, della “Oil Mafia”.
Per capire l’importanza dell’oro nero in Iran basti pensare al fatto che Ahmadinejad da quando è Presidente ha cercato due volte di nominare ministro del petrolio un suo uomo, ma per due volte il parlamento, pagato dalla Oil Mafia, ha respinto le nomine; questo almeno fino all’agosto 2007 quando, su pressione di Khamenei, è passato il nome di Gholamhossein Nozari. Questo atto per Rasfanjani costituisce una perdita inaccettabile; da qui il suo ardito progetto, da qui l’inizio della sovversione iraniana. E’ sempre Rafsanjani, l’uomo tra i più ricchi dell’Iran, a gestire un vero impero finanziario, sfruttando posizioni di monopolio nel commercio con l’estero, oltre a possedere il bazar di Teheran e anche grandi proprietà terriere, fondando in alcune di queste più di trecento università private, all’interno delle quali studiano 3 milioni di ragazzi, i cui campus sono stati gli spazi dove più forte si è scatenata la protesta contro Ahmadinejad. Inoltre può godere del sostegno degli importantissimi chierici di Qom, città sacra all’islam sciita perché custode della tomba di Fatima. Furono proprio questi chierici che nel 1989 si opposero alla scelta di Khamenei, stabilendo che una vera Guida suprema doveva avere due qualità: una grande preparazione teologica ed essere “fonte di emulazione”, quest’ultima mancante a Khamenei (che non aveva seguito popolare) e che invece aveva Rafsanjani.
In quell’occasione per spuntarla Khamenei si appoggiò alle Guardie rivoluzionarie e ai servizi segreti. Per come stanno le cose oggi, ci troviamo di fronte ad uno scontro Khamenei-Ahmadinejad contro Rafsanjani-Mussawi. Sullo sfondo troviamo il vitalismo di un popolo giovane e stufo dell’ipocrisia dei religiosi che sono da troppo tempo al potere, che predicano la moralità quando vivono sulla corruzione degli introiti petroliferi e che oggi hanno occupato lo Stato, trasformandosi in una casta. Quello che questa rivoluzione in embrione sembra mettere in gioco è la legittimità del clero sciita, ossia le fondamenta del potere costituito, che è basato sulla “liberazione” dallo Scià Mohammad Reza Pahlavi. Il problema è che il 60% degli iraniani non era ancora nato e non ricorda l’oppressione dello Scià, ma patisce solo quella presente della casta teocratica.
In questi giorni si sta decidendo se reprimere nel sangue la rivolta: se così sarà, potrebbe rappresentare un colpo decisivo per la legittimità di un potere che si pretende legittimato da Dio; infatti è alquanto difficile credere che Dio voglia mitragliare il suo popolo.