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L’antica, tragica vicenda narrata nel precedente capitolo (quella di Antigone, ndr) dimostra che in fondo all’anima anche il tiranno o re di Tebe (nell’antica Grecia la distinzione era pressoché inesistente o comunque molto sottile, mancando alla regalità, nonostante la continua intromissione dei Numi nelle vicende umane, il carattere sacro delle monarchie medioevali) Creonte sapeva di non essere Giove e di non potere modificare gli eterni principi.
Cerca di giustificare il divieto di dare sepoltura all’estinto Polinice e la condanna a morte di Antigone, con le nobili ragioni dell’amore di patria e della necessità di retribuire diversamente i buoni e i malvagi, ma non cede alla tentazione di fare proprie le parole del corifeo, che gli attribuisce il potere di imporre qualsiasi legge gli piaccia non solo sui morti, ma anche sui vivi (manca ancora un lungo intervallo di secoli al motto della monarchia assoluta lex est quod regi placuit).
Non per nulla è sufficiente a fargli mutare idea, anzi ad ispirargli il più profondo pentimento, l’ammonimento del vecchio Tiresia, sia pure accompagnato da una abbastanza vaga minaccia di quanto gli accadrebbe se persistesse a violare gli eterni comandamenti degli Dei. Sullo stesso piano si muove l’autore, Sofocle, che approva quale giusto corrispettivo della violazione la pur crudelissima pena (la totale distruzione della sua famiglia) inflitta al tiranno. Nel mondo delle idee la distanza fra Creonte e Antigone era minima e così sarebbe stato per tutti i tiranni e i sovrani succedutisi per quasi due millenni sui troni dei paesi europei. Naturalmente poteva accadere, ed in realtà è spesso accaduto, che la loro condotta non tenesse conto in maniera adeguata dei principi fissati ab aeterno.
Tuttavia ciò avveniva, esattamente come per Creonte, non per la ragionata intenzione di rifiutarli come inesistenti o non vincolanti o tanto meno di sostituirli con altri di origine umana, ma per uno scatto d’ira o altra manifestazione di debolezza umana, per la necessità di scongiurare un gravissimo pericolo altrimenti inevitabile per l’esistenza propria o dello Stato. Infine, più nobilmente, per contrasto fra due principi sentiti entrambi come vincolanti. Comunque sempre con il convincimento dell’eccezionalità dello strappo e l’intenzione di ristabilire al più presto il superiore ordine violato. A governanti e governati restava comune la distinzione fra ciò che era da sempre e per sempre interdetto e ciò che a nessuna autorità umana era lecito proibire. Identica la situazione a Roma, espressa da Cicerone nel suo trattato “Sulle leggi” in termini di assoluta modernità quando raccomanda ai governanti di rispettare la legge naturale voluta dagli Dei e segnala i pericoli del criterio della maggioranza, raccomandando di “vigilare perché nello Stato i più non contino di più” , difatti “se la volontà del popolo, le decisioni del senato, le sentenze dei giudici fossero prese con l’unico criterio della volontà della maggioranza, si potrebbero legalizzare, paradossalmente, il latrocinio, l’adulterio, la falsificazione dei testamenti” .
Sintetizza Marta Sordi, “per i romani esiste uno ius divino inviolabile da cui dipendono i diritti degli uomini…L’intento di voler fondare sulla divinità trascendente – senza volerla definire in maniera confessionale – anche i diritti dell’uomo è un’idea che gli antichi avevano in sé e trasportavano nelle scelte politiche”
E solo fra ‘500 e ‘600 della nostra Era che, assieme alla investitura divina dell’autorità e, quindi, della natura sacrale dei monarchi e delle monarchie si comincia a mettere in dubbio non solo l’efficacia, ma la stessa esistenza di immutabili e inviolabili leggi superiori. Il fenomeno si manifesta soprattutto in Francia, dove, subito dopo la fine delle guerre di religione, si trattava di restaurare la base dell’autorità e dell’intangibilità del monarca, grandemente scosse, più che dai sanguinosi scontri sul campo fra cattolici e ugonotti, dalle polemiche politico-filosofiche e dal rapido mutare di opinioni dei polemisti degli opposti schieramenti a seconda del volgere delle fortune della guerra e delle prospettive politiche. Se inizialmente la sacralità del potere sovrano era stata difesa a spada tratta contro gli ugonotti dai sostenitori cattolici dei Valois e dei Guisa, le parti si erano invertite non appena si era profilata la possibilità dell’ascesa al trono del protestante Enrico di Navarra. Contro di lui era stata addirittura teorizzata la legittimità del regicidio (e difatti il nuovo re finì ucciso dal pugnale di Ravagnac).
Nel frattempo i protestanti avevano riesumato le teorie medioevali sulla sacralità del potere. Terminate le guerre con la conversione al cattolicesimo (il celebre “Parigi val bene una messa”) e l’incoronazione di Enrico di Borbone a Re di Francia, giuristi e filosofi si impegnarono a ricondurre all’assoluto rispetto dell’autorità un popolo, che aveva assistito incredulo a repentini mutamenti di opinione, che tutti vedevano legati assai più alle contingenze delle vicende terrene, che all’esame e all’approfondimento dei principi di un ordine superiore. I tecnici mediocri, quelli che oggi si definirebbero giuristi e filosofi “di servizio”, si accingono, adeguandosi agli ordini della Corte, al compito di fare rivivere il concetto di regalità esattamente nei termini precedenti.
Altri, dotati di maggiore ingegno e più lucida visione, non tardano a comprendere l’inutilità di questo tentativo e, come scrive Lucio Pala nella Introduzione al volume “L’assolutismo laico” curato da Anna Maria Battista , “giudicano necessario definire una forma di legittimazione del potere rispondente a tale nuova realtà sociale e istituzionale che, escludendo il ricorso a valori extragiuridici, poggi soltanto sulla effettiva positività dell’autorità dello Stato e della legge. Il nucleo concettuale dell’ “Assolutismo laico” è tutto qui” .
Gli esponenti più celebri di questa corrente di pensiero sono due filosofi, Michele de Montaigne e, dopo di lui, Tommaso Hobbes. Entrambi, ma in modo particolarmente drastico e pregnante il secondo, muovono dal presupposto di una innata e incorreggibile malvagità dell’essere umano. Montaigne denuncia “quel complesso di codici di morale, di giudizio e di comportamento che connotano una determinata civiltà, codici ai quali l’uomo aderisce meccanicamente, convinto di farsi interprete di valori assoluti e universali, di seguire i dettami della propria coscienza, senza mai supporre che la sua azione non discende affatto da una libera opzione, ma esclusivamente da un passivo adeguamento all’opinione dominante” .
Di conseguenza – prosegue il Pala - “rifiuta esplicitamente qualunque ideologia politica che, ignorando la pluralità delle fedi e delle dottrine in atto, faccia ricorso a principi religiosi, al nome di Dio per sanzionare il potere e fondare l’obbedienza” . Montaigne è un filosofo e il suo interesse riguarda non tanto i problemi concreti della monarchia (non per nulla si è ritirato nel suo castello lontano dai rumori della Corte e della politica concreta) quanto il mondo delle idee. Inevitabilmente la riflessione sulle origini dell’autorità si estende alle leggi e al loro fondamento.
“Ora le leggi – scrive - si mantengono in credito, non perché sono giuste, ma perché sono leggi. Questo è il fondamento mistico della loro autorità; esse non ne hanno altro… Chiunque obbedisca loro perché sono giuste, non obbedisce loro in modo giusto, come va fatto” . Ancora più drastica di lì a poco la posizione di Hobbes.
Se per Montaigne l’uomo è una creatura debole e spaurita, incapace di grandi slanci e di grandi decisioni, per il filosofo inglese (non per nulla passato alla storia in pillole per il suo “homo homini lupus”) l’essere umano è essenzialmente e irrimediabilmente malvagio. Le molle del suo agire sono esclusivamente la volontà di perseguire ad ogni costo il proprio utile e di primeggiare sugli altri con la conseguenza di una conflittualità assoluta e perenne. Da questa guerra di tutti contro tutti “la necessità che nasce dall’istinto di sopravvivenza di dar vita ad una struttura statale che non può che essere implacabilmente coercitiva”. Di qui la conseguenza e la giustificazione, che il Pala ritrova anche nei “Pensieri” del cattolico Pascal, “di uno Stato assoluto privo di qualsiasi connotato etico-religioso e letto in una chiave meramente positivistica” .
Il rifiuto dell’esistenza di principi appartenenti ad un ordine universale ed eterno, nasce, quindi, dal tentativo di dare legittimazione alle monarchie assolute. Tuttavia questo rifiuto troverà piena attuazione solo più tardi in alcuni degli Stati totalitari del XX secolo (in particolare in Russia e in Germania). Per il momento, sul finire del XVII secolo e per gran parte del XVIII, rimane ferma tanto nei governati quanto nei governanti la convinzione dell’esistenza e dell’obbligatorietà di questi principi, tanto più che è proprio un allievo di Hobbes, Pierre Nicole, ad attenuare le fosche tinte del pensiero del maestro.
Difatti, il Nicole, pur accettando le tesi hobbesiane sulla natura umana essenzialmente malvagia, vi apporta una piccola correzione che apre la strada al concetto di “amor proprio illuminato”. Su questa strada si pongono altri pensatori, come Pierre Bayle, che considera “l’amor proprio illuminato l’elemento propulsore della nascente economia capitalista, quindi molla propulsiva della ricchezza delle nazioni”. Secondo il Nicole, che esprime il suo pensiero soprattutto nelle opere Saggi di Morale e La carità e l’amor proprio, appunto “il desiderio insopprimibile di essere ammirato ed amato più degli altri porterà l’uomo ad accettare modelli comportamentali altruistici ed apparentemente disinteressati pur di realizzare la sua esigenza più profonda, quella appunto di essere più di ogni altro considerato e stimato”
Con questo discorso – conclude il Pala - Pierre Nicole indica la via per il superamento della proposta politica di Hobbes e per la “fondazione di una società civile in cui le spinte egocentriche finiscono per armonizzarsi e non richiedono più, quindi, il ricorso ad una presenza statuale particolarmente vincolante e neppure ad un codice di valori etico-religiosi” .
Tuttavia, se è vero che questa filosofia diviene la base del cosiddetto assolutismo illuminato, che caratterizza gran parte del XVIII secolo europeo, resta il fatto che né il Nicole allora né il Pala oggi approfondiscono fino alle ultime conseguenze il loro pensiero.
Né l’uno né l’altro – in particolare il Nicole, che accetta in pieno l’antropologia dell’ Hobbes - si chiedono come mai comportamenti altruistici e apparentemente disinteressati suscitino ammirazione e conferiscano prestigio in un mondo di individui che naturalmente non dovrebbero conoscere né l’altruismo né il disinteresse. Inevitabile la conclusione che gli uomini traggano queste nozioni così estranee alla loro natura da un ordine posto fuori di loro, ma da loro conoscibile e sentito come superiore sicché quanti, vincendo le spinte della propria natura, riescono a rispettarne i principi e a seguirne le regole divengono oggetto di ammirazione.
Naturalmente il problema è quale sia l’origine di tale ordine superiore, che Antigone attribuisce agli Dei e i filosofi razionalisti, quando ne ammettono l’esistenza, alla Ragione che, presa conoscenza della natura umana, elabora un progetto nel quale sono fissati alcuni principi necessari per consentire il vivere sociale. Un risultato che viene però conseguito attraverso percorsi diversi. Difatti, o presiedono, come ritengono i filosofi persuasi dell’irrimediabile malvagità umana, all’emanazione delle norme duramente coercitive ritenute indispensabili da Hobbes, oppure, per chi invece giura crede in una originaria naturale bontà, essere inseriti in un contratto sociale dagli uomini liberamente e concordemente stipulato
Fra questi estremi, sulle tracce di David Hume e di quel filone del pensiero filosofico del XVIII secolo definito da Friedrich von Hayek “evoluzionista”, rappresentato soprattutto da un gruppo di filosofi moralisti scozzesi (oltre a Hume, Adam Smith e Adam Ferguson), è stata poi elaborata una teoria definibile intermedia in quanto, se da un lato esclude l’ immutabile perennità dei principi connaturata all’ origine divina, dall’altro mira ad evitare la continua modificabilità propria dei prodotti della ragione umana, si tratti di un tiranno che li determina a proprio arbitrio, o di una collettività di uomini che li stabiliscono di comune accordo.
La modificabilità è indubbiamente maggiore nel primo caso, ma permane anche nel secondo soprattutto se, come avviene in regime democratico, non si richiede per la revoca l’unanimità, ma la semplice maggioranza dei consensi. Secondo i loro interpreti del XX secolo il pensiero di questi filosofi, attenti ai problemi della morale e della giustizia, perviene così alla conclusione che “le esigenze della morale e della giustizia sono dei cosiddetti “artefatti”: non sono né frutto di un ordinamento divino, né parte integrante della natura umana originale, né svelati dalla pura ragione: sono il risultato dell’esperienza pratica dell’umanità. L’unico elemento che possa resistere al lento collaudo del tempo è l’utilità della norma morale per l’incremento dell’umano benessere” .
In altri termini nessun progetto né divino né umano, nessun razionale disegno prestabilito. Principi e istituzioni risultano frutto di un accumulo di azioni di uomini ignari di mete da raggiungere, ma semplicemente impegnati a risolvere contingenti problemi concreti, di successi e di errori, di empirici tentativi, alcuni falliti, altri coronati da successo; insomma di tutto quel complesso di cose che nel loro organico sovrapporsi e concatenarsi costituiscono la tradizione. In realtà questa dottrina raggiunge lo scopo di escludere l’esistenza di un superiore ordine sovrannaturale, ma fallisce nel tentativo di dare maggiore stabilità e durata nel tempo a principi solo molto relativamente immortali.
Difatti, una volta compreso che questi sono comunque il prodotto esclusivamente di un’attività umana e smontato il meccanismo o, meglio, il processo organico che ha presieduto alla loro nascita, non è affatto necessario seguire la stessa procedura, frutto più del caso che della volontà o, comunque, di una volontà finalizzata a quello scopo, per abrogarli o modificarli. Nulla vieta che gli uomini che li hanno inconsciamente ed empiricamente prodotti provvedano a sbarazzarsene consapevolmente con un semplice tratto di penna o il voto espresso in una cabina elettorale.
Passando dal campo della filosofia della politica a quello della politica in atto e della storia, a credere a Madame de Stael, che appunto per questo (oltre che per ambizioni deluse e dispetti da salotto politico-letterario) aveva preso in odio il suo ex-amico e campione, fu Napoleone il Grande il primo fra tiranni e sovrani a non riconoscere o, comunque, a comportarsi come se non riconoscesse né principi eterni né leggi superiori alla sua volontà (tuttavia anche lui, dopo gli anni di purgatorio di Sant’Elena, dichiarò di morire nel seno della Chiesa cattolica romana).
Comunque Madame de Stael, resa particolarmente acuta e preveggente dal rancore, non ha torto. Napoleone è il capofila di una numerosa schiera di tiranni moderni, in qualche misura tutti convinti assertori di varie ed aggiornate forme di assolutismo laico, che pur nelle contingenti diversità condividono il punto essenziale dell’esclusione di qualunque ordine superiore a quello stabilito dall’ordinamento dello Stato attraverso un sempre variabile sistema di leggi positive.
Tutte le dittature del secolo XX, tanto di destra quanto di sinistra, hanno difatti nel loro DNA il gene dello Stato etico, che fissa da sé i principi del Bene e del Male, in piena autonomia perfino quando sembra mutuarli da un credo religioso o da un sistema filosofico.
Anche in questo caso non si esce, nonostante le apparenze, dallo stretto ambito dell’assolutismo laico e positivista. L’essenzialità e l’eticità di quei principi derivano sempre ed esclusivamente dal riconoscimento dello Stato, che, così come li ha accettati, potrebbe anche rinunciarvi o addirittura trasformarli nel loro opposto, pur se spesso evita di enunciarlo e preferisce seguire i metodi così ben descritti da Orwell nella sua Fattoria degli animali. Ciò che rileva è che la tirannia napoleonica, paludata di ermellini imperiali, è stata preceduta, subito dopo il sanguinoso tramonto dell’assolutismo illuminato, da una pur breve fase democratica caratterizzata dal conclamato riconoscimento dell’esistenza di inviolabili leggi naturali, e che altrettanto è accaduto nei due secoli successivi coi suoi emuli, succeduti tutti non ad un precedente tiranno, ma ad una democrazia.
Se si osservano le vicende delle varie forme di governo realizzate nel corso della storia umana ci si avvede che nessun regime, nemmeno le monarchie legittime pur convinte della propria sacralità conseguente ad una investitura divina , regge il confronto con la democrazia nella continua proclamazione della propria fede nell’esistenza di diritti naturali e universali, di quest’ ordine naturale e necessario . Non per nulla all’instaurarsi nell’ultimo quarto del XVIII secolo di regimi che, per la prima volta in età moderna, si definiscono democratici si accompagnano sulle due sponde dell’Atlantico solenni dichiarazioni sui diritti inalienabili dell’uomo, che governi e governanti hanno il dovere di rispettare e di fare rispettare.
Niente di più naturale dal momento che le democrazie nascono in un clima culturale fortemente modificato rispetto alle convinzioni dominanti alla fine del ‘600. Le valutazioni a tinte fosche sulla natura umana di Tommaso Hobbes, dopo essersi stinte nel mezzo ottimismo di Pierre Nicole, erano state ribaltate nel loro opposto da Jean Jacques Rousseau, che all’uomo allo stato di natura attribuisce ogni genere di virtù, purtroppo adulterate se non addirittura cancellate dalla civiltà quale si è venuta realizzando nel corso dei secoli. Nasce così il mito del buon selvaggio, che caratterizza tutta un’epoca e trova il suo manifesto letterario nel romanzo Paul et Virginie di Bernardin de Saint Pierre, il più letto ed ammirato dai giovani della generazione di fine secolo XVIII.
Ma se l’uomo è naturalmente buono e a corromperlo ha provveduto la civiltà con la sua organizzazione sociale e le sue leggi, è necessaria ed evidente la pre-esistenza e, dal momento che le Virtù sono preferibili ai Vizi, la superiorità di un ordine naturale, che i governi saggi, preoccupati del benessere dei loro popoli, sono tenuti a rispettare, adeguandovi le loro leggi e abrogando tutte i relitti del passato che lo contraddicono.
Politicamente, e forse anche filosoficamente, poco importa poi che questo ordine superiore vada attribuito, invece che al Dio della rivelazione cristiana (come comunque espressamente dichiarano di credere, invocandone la protezione, i coloni americani al momento di varare la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione), ad una Natura pressoché deificata, che, dopo tutto potrebbe anche coincidere con l’Architetto dell’Universo, la vaga e imprecisata divinità dei teisti frequentatori delle logge massoniche. (da: Francesco Mario Agnoli, Antigone contro la democrazia zapatera, cap.II, Solfanelli)