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Giampaolo Pansa, il revisionista.
Di Francesco Agnoli - 11/06/2009 - Storia del Novecento - 1968 visite - 0 commenti

Ci vuole un certo coraggio a definirsi “revisionisti”. Nell’epoca dell’assenza di certezze religiose, la storiografia provvede, da oltre trecento anni, a creare miti fondatori con cui legittimare il pensiero culturale dominante.

Tra questi miti, oltre al Rinascimento e al Risorgimento, c’è la Resistenza: dopo il male assoluto del fascismo, il bene assoluto, senza macchia, della lotta partigiana. L’origine della nostra Repubblica si fonderebbe proprio su questa palingenesi: l’Italia si sarebbe auto-redenta, avrebbe partorito l’evento salvifico, dividendo la storia in due: il fascismo e l’antifascismo.

Due categorie metafisiche, in cui molti ancor oggi vorrebbero ingabbiare ogni realtà. Sei un pro life? Evidente residuo del fascismo. Proponi politiche per la famiglia? Mentalità fascista. Non ritieni che esista matrimonio tra persone dello stesso sesso? Sei proprio un clerico-fascista… Così, ciò che è morto viene perpetuato, tenuto artificialmente in vita, allo scopo di bollare l’avversario, di screditarlo, di metterlo a tacere con una etichetta infamante. Su un antifascismo superficiale e sulla mitica Resistenza si sono costruiti decenni di dominio ideologico, la supremazia culturale della sinistra in Italia.

Scomunicando con violenza cieca chiunque osasse alzare la mano per ricordare alcune verità: che l’orrore fascista è figlio, oltre che della I guerra mondiale, della rivoluzione bolscevica, perché senza di essa non sarebbe mai nato. Il biennio rosso viene prima della marcia su Roma, e il Mussolini antidemocratico, violento, totalitario e socialista massimalista, prima del Mussolini fascista.

Ebbene, un valoroso giornalista di sinistra, Giampaolo Pansa, ha voluto in questi anni revisionare il mito fondatore messo in scena ogni 25 aprile, fino a definirsi con orgoglio, nella sua ultima biografia, “revisionista” (Pansa, Il revisionista, Rizzoli). Pansa ha alle spalle un percorso esemplare: la frequentazione di quel mondo culturale torinese, segnato dal magistero dei Galante Garrone, dei Bobbio e degli Einaudi, che molto ha contribuito a creare la religione laica dell’antifascismo.

Eppure l’onestà intellettuale non gli ha impedito di abbandonare, piano piano, spinto dalla curiosità e dall’amore per la verità, la versione ingessata e manichea della storiografia di regime attorno a cui vegliano notte e giorno le vestali dell’Anpi e degli Istituti per la storia della resistenza. Ha voluto indagare le “ragioni”, ma soprattutto il “sangue dei vinti”, e con vari fortunati volumi ha ridato colore alle circostanziate denunce postbelliche di Pisanò e Guareschi: la Resistenza fu segnata da atti eroici, ma anche da innumerevoli misfatti, da tanta inutile e ideologica ferocia. Dopo l’aprile del 1945, a guerra finita, circa 30.000 persone furono assassinate!

Il vecchio PCI, il “Partitone Rosso”, ha sempre occultato questo spargimento di sangue, non ha mai voluto ricordare quei morti, non di rado assolutamente innocenti. Soprattutto ha saputo monopolizzare e manipolare la Resistenza facendone un fenomeno solamente comunista, cosa che non fu affatto, e nascondendo alcune evidenti verità: che i partigiani non di rado si uccisero tra di loro, perché avevano idee ben diverse su come ricostruire l’Italia post fascista; che i partigiani rossi non combattevano per la libertà e la democrazia, come poi cercheranno di far credere, ma per sostituire la dittatura nera con quella rossa, per scambiare la statuina di Mussolini con quella di Stalin o di Tito; che in più occasioni i partigiani rossi sobillarono e auspicarono le rappresaglie naziste, allo scopo di rendere più forte l’odio antitedesco; che molte persone assassinate dopo l’aprile 1945 non erano affatto fascisti, bensì, spesso, antifascisti o apolitici, “colpevoli” però di essere anticomunisti, o cattolici, o non sufficientemente stalinisti, quando non semplicemente “maledetti padroni” di un pezzo di terra. “Non ragioni come noi? Allora sei fascista. Ecco l’assioma, il principio categorico che governa le pulsioni di gran parte delle sinistre”, ancora oggi.

Come si è potuto mentire per tanti anni, si chiede Pansa? Grazie alla solidità ideologica dei dogmatismi del PCI prima e dei Ds dopo. Grazie alla rigida disciplina di partito, ai giornali come l’Unità, capaci di piroette e contorsioni inenarrabili, per salvaguardare sempre la “verità” di Mosca e del Partito. Gli ex comunisti di oggi, sostiene Pansa, anche quando, come Veltroni, sostengono contro ogni evidenza di non esserlo mai stati, non sono cambiati: la disinformazione, la “fabbrica delle bugie”, l’abitudine a mentire e a demonizzare l’avversario con categorie stantie, sono ancora la cifra di chi negli anni Settanta discettava sulle “cosiddette Brigate rosse che in realtà sono nere” e firmava la condanna a morte per Calabresi a mezzo stampa. Di chi, sino al 1989, cioè alla caduta del muro di Berlino, non ebbe quasi mai il coraggio di fare autocritica, su Lenin, su Stalin, sui gulag e sugli orrori di quell’immensa prigione che fu l’Europa dell’est, “liberata” dai nazisti, ma, come dimenticano di scrivere ancora oggi molti libri di testo scolastici, per essere schiacciata e martoriata dal comunismo.

 I racconti di Pansa rendono finalmente giustizia a tanti: anche al mio caro nonno Carmelo, carabiniere, antifascista, che ascoltava radio Londra di nascosto, finché il suo meccanico comunista, non gli disse, in amicizia, che in cellula avevano deciso di ucciderlo, perché in fondo, a ben vedere, anche lui si era comportato da “fascista”. Mio nonno riuscì a salvarsi, ma tanti altri, in quegli anni di guerra civile, no. (Il Foglio, 11/6/2009)

 
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