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Non parla. Straripa. Giampiero Mughini deve aver covato questo libro per trentasette anni esatti.
Da quel 17 maggio 1972 in cui un killer, per i magistrati Ovidio Bompressi, sparò due colpi al commissario Luigi Calabresi: uno alla testa, l'altro alla schiena. Poi risalì sulla macchina, mormorando: «Che schifo».
«Che schifo - ripete Mughini -, tutta questa storia è una storia di straordinaria omertà» e l'indignazione quasi gli strozza in gola la voce. Per questo ha scritto Gli anni della peggio gioventù. L'omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione che la Mondadori manderà in libreria la prossima settimana.
«È stato un parto dolorosissimo, ma io avevo un debito verso la verità e ho dedicato queste mie pagine alla verità». Qual è la verità? «La verità è quella che molti conoscono, ma tutti si ostinano a non voler vedere. La verità è che il delitto Calabresi nasce dalle viscere di Lotta continua. La verità è che Adriano Sofri sapeva».
Lei parla di verità, ma le prove dove sono? «Io ho letto le carte processuali, io conosco le persone, io vengo da quell'esperienza (Mughini fu direttore di Lotta continua, ndr), anche se me ne sono allontanato da tempo immemorabile. Lo scandalo è la mancata emersione della verità».
Perché? «Molti dei ragazzi di Lc, fra i migliori talenti di quella generazione, la mia generazione, sono oggi valorosi giornalisti. Meglio non disturbarli. Meglio non scavare, a parte le gloriose eccezioni di Marco Travaglio, Giampaolo Pansa e pochi altri. Meglio far credere alle professoresse democratiche lettrici della Repubblica che quei ragazzi erano arcangeli».
Invece? «Almeno venti-trenta persone sanno bene, benissimo, come andò. Qualcuno l'ha anche ammesso. Erri De Luca, lo scrittore, è stato esplicito: "Ridateci il corpo di Sofri e noi vi diremo cosa successe". C'è una documentazione alta così che li inchioda alle responsabilità di allora, alle molotov, alle rapine, alle armi. Ma c'è chi non vuole riconoscere come erano, come eravamo canaglie quando eravamo giovani, dovrebbe dire una volta per tutte che gli arcangeli erano la peggio gioventù».
Quel passato è sigillato? «Si resta incatenati a quella favola antica: Lc non c'entra». Fino al 1988 e al pentimento di Marino non era emerso nulla. «Infatti ci eravamo baloccati con l'idea che Calabresi fosse stato ucciso da un marziano. Poi nell'88 arriva il pentito, guardato con disprezzo da quegli intellettuali che avevano studiato alla Normale, erano circondati dai libri, sopportavano a stento il proletariato, anche se da giovani ruggivano a favore degli operai».
Il pentito ha resistito agli attacchi. «Il pentito Marino sostanzialmente ha detto la verità». Sostanzialmente? «Marino ha fornito dettagli minuziosissimi sull'omicidio. Ma poi perché mai avrebbe dovuto inguaiare Bompressi? Bompressi la cui faccia sembra strappata dall'identikit dell'assassino. Al processo, hanno provato in tutti i modi a screditarlo: miserabili. C'è una frase pronunciata da Giorgio Pietrostefani che mi ha colpito: "Figurarsi - ha detto in aula - se io parlavo con Marino di politica, semmai discutevo della nebbia all'aeroporto di Caselle dove lui andava a ritirare i giornali di Lc". Miserabile. Sarebbe bastato poco...».
Cosa? «Sarebbe bastato chiedere perdono e dire: "Abbiamo sbagliato, siamo stati noi, ma non siamo più quelli di allora"; no, recitano: noi con la violenza non c'entriamo. Ma se Prima linea nasce armi e bagagli da Lc. Io non potevo essere complice di quell'omertà, da vent'anni sento dire che ci sarebbe stato un complotto costruito dai carabinieri, dal Pci, dalla magistratura per incastrare quel gruppo. Risibile».
Sofri? «Sofri sapeva. Sofri sa. Non so se Sofri abbia dato l'ordine a Marino come Marino racconta. Sofri ha due voci». Due voci? «Parla di sé in un modo, di Lc in un altro. Sofri si è caricato sulle spalle tutta quella storia e il sangue di Calabresi. Calabresi l'amerikano, lo chiamavano quelli di Lc, con la K, anche se Calabresi in America non c'era mai andato. E la sua colpa era quella di aver interrogato per due, tre ore Giuseppe Pinelli. Sofri ha confessato e rivendicato tutta quella tregenda nell'articolo pubblicato dal Foglio a settembre: secondo lui gli assassini di Calabresi erano bravi ragazzi che volevano vendicare piazza Fontana, come se la bomba l'avesse messa Calabresi. Io darei subito la grazia a Sofri, ma mi dispiace: l'onore che questi signori difendono non è l'onore di quei ragazzi e delle loro parole e imprese scellerate, a cominciare dall'articolo di giubilo che Sofri scrisse all'indomani della morte di Calabresi, ma è l'onore degli agiati professionisti che oggi occupano posizioni importanti nella società. E nei giornali. La peggio gioventù era senza onore».
Stefano Zurlo - 19/05/2009 Fonte: il Giornale