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La Birmania, stato dell’Asia sudorientale, è balzato agli onori della cronaca per le proteste dei monaci buddisti e per le coraggiose denunce del premio Nobel Aung San Suu Kyi.
Quello che stupisce è che i nostri media tacciano il “colore” dell’attuale governo, limitandosi a parlare di “generali” o di “giunta militare”, lasciando quasi ad intendere che al potere ci sia una sorta di dittatura di destra ad opera di nipotini di Pinochet. Per questo è bene ricordare la storia e il presente di questo Stato che dal 1962 non conosce più la parole “libertà”.
La Birmania, liberatasi dalla dipendenza inglese nel 1937, si trasformò in una repubblica indipendente il 4 gennaio 1948, iniziando però a subire forti pressioni dalle minoranze etniche che premevano per uno Stato Federale e che non mancarono di manifestare i loro dissensi ricorrendo ad atti di vera guerriglia. La debolezza della democrazia birmana permise così nel 1962 al generale Ne Win di imporre una dittatura militare, presentando il suo progetto politico nel manifesto “La via birmana al socialismo” in cui al centro stava la nazionalizzazione dell’economia da parte dello Stato (fine della libertà d’impresa) unita ad una rigida autarchia (la chiusura del mercato all’estero in un’ottica di autosufficienza nazionale). Tale progetto necessitava di un fedele guardiano, che reprimesse ogni “disturbo” (così è chiamata ogni azione/critica contro il governo) e fu trovato in un esercito dalle grandi dimensioni, che con le sue 500mila unità è il decimo esercito del mondo. Ritengo superfluo raccontare i risultati di questa politica, dato che ottenne gli stessi identici frutti di tutti gli altri Stati dove il comunismo si è realizzato.
Nel 1988 i tumulti studenteschi, passati alla storia come la “rivolta 8888” (dalla data 8/8/88), vengono repressi con forza, lasciando sul campo un migliaio di vittime. Tuttavia questi fatti indebolirono la giunta militare che due anni dopo, dopo ventotto anni, permise libere elezioni. Il problema fu che il NLD (Lega nazionale per la democrazia), il partito di Aung San Suu Kyn, ottenne ben l’80% dei consensi, provocando l’irritata reazione dello SLORC (Consiglio di restaurazione della legge e dell’ordine di Stato), partito spalleggiato dall’esercito, il quale si affrettò a cancellare i risultati elettorali e ad arrestare il leader dell’NLD. Per allentare le tensioni delle minoranze, il nuovo (vecchio) regime cambiò il nome dello Stato “Birmania” (legata all’etnia egemone dei Bamar) in “Myanmar”, etnicamente neutro.
Dal 1992 il governo è nelle mani del generale Than Shwe, colui che fu il braccio armato della repressione dell’88, e che tutt’oggi prosegue la “via birmana al socialismo”. Con lui la linea dura da dieci anni si esprime anche con la persecuzione delle minoranze cristiane (4% della popolazione) e islamiche (4%), arrivando a distruggere più di 3mila villaggi, con la conseguenza che così si sono creati 250mila esuli, costretti a muovere verso i campi profughi al confini con la Thailandia, dove non vi è né corrente elettrica, né medicinali, fondamentali per combattere parassiti, epatiti ed Aids; dove la fame è un terribile spettro quotidiano che costringe molte famiglie a cedere i loro bambini alla prostituzione o al lavoro forzato. Nell’agosto 2007 abbiamo visto la “rivolta dei monaci buddisti” ma va detto che questi non sono mossi tanto da motivi “etico-morali”, ma più da motivi economici, in particolare per l’aumento del prezzo del petrolio.
Infatti il buddismo, praticato dal 90% della popolazione, è stato ed è comunque uno strumento con cui il governo tenta di far accettare lo status quo (i monaci tra l’altro sono esentati dal servizio di leva e dai lavori forzati, oltre a godere di molti privilegi economici). Mai i monaci hanno avuto da che dire di fronte alla persecuzione ai danni di cristiani e islamici; mai si è alzata la loro voce di fronte alla confisca delle scuole cattoliche o al divieto di leggere la Bibbia, mai hanno protestato contro la negazione dell’accesso a ruoli dirigenti per cittadini di quelle religioni; mai hanno condannato la distruzione materiale delle croci sulle montagne (sostituite con pagode). Ecco quindi che l’Occidente dovrebbe fare più attenzione ad identificare quei monaci come “eroi”, “martiri per la libertà”. La realtà è, come abbiamo visto, ben diversa.