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Mi sembra sempre di più, dagli studi e dalla vita, a quanto capisco, che l’esistenza o meno di Dio non sia affatto un problema razionale, quanto di atteggiamento dinanzi alla realtà. Anche chi parla di caso, di non senso dell’universo e dell’uomo, infatti, lo fa senza avere argomenti razionali concludenti, senza proporre nessuna alternativa logica al perché dell’esistenza dell’universo, quanto utilizzando elementi negativi della realtà per trarne licenza per negare Dio, soprattutto se inteso come Provvidenza, come creatore che ama il destino delle sue creature. Non è un caso che Dio sia confinato nell’iperuranio da Epicuro, e dalla sua meditazione sul male; che Voltaire, molto colpito, ad esempio, dal terremoto che aveva devastato Lisbona, definisca logica l’esistenza di una Intelligenza creatrice, ma preferisca optare per il deismo, e cioè per un Dio disinteressato alla sorte degli uomini. Anche la tentazione ateista di Darwin, nasce, come ben sappiamo, non dalla sua indagine naturalista, quanto dal suo dolore personale per la morte di una figlia. E’ il male, il dolore, insomma, il grande scandalo, che porta talora le menti e i cuori a ripudiare Dio.
Anche il recente terremoto in Abruzzo, può avere scosso la fede di molti. E’ ben comprensibile, anche se andrebbe notato un paradosso: chi nega Dio dinanzi ad un terremoto, o a qualche dolore apparentemente inspiegabile e assurdo, lo fa proprio perché non può rassegnarsi all’idea che l’assurdità sia, in definitiva, la “spiegazione” dell’esistenza. Cioè si nega Dio come Senso, proprio perché la nostra ragione e il nostro cuore esigono il Senso, cioè Dio. Anche Bertrand Russell (nella foto), celeberrimo tra gli ateologi, nel suo “La visione scientifica del mondo”, parlando della creazione dal nulla dice di ritenerla possibile, ma lungi dallo spiegare razionalmente una tale assurdità, scrive: “Se qualcuno cercasse di vendervi una bottiglia di pessimo vino, non vi piacerebbe egualmente, anche se vi dicessero che fu fatto in laboratorio e non dal succo di uva. Similmente non vedo che consolazione si possa trovare dalla supposizione che questo spiacevolissimo universo fu fatto di proposito”. Si noti bene: Russell non può né vuole affermare che un Dio creatore non è logico, ma che l’universo è, appunto, “spiacevolissimo”.
Eppure sempre Russell stesso sa bene che la scienza, frutto eminente della ragione, è nata da un atteggiamento contrario, cioè dalla capacità di scorgere nella natura e nelle cose non il loro limite, ma la loro bellezza. “La scienza al suo inizio, scrive, si deve a uomini che amavano il mondo. S’accorsero della bellezza delle stelle e del mare, dei venti e delle montagne. Siccome li amavano i loro pensieri si fermarono su di essi, e cercarono di capirli più intimamente”. La stessa matematica, di cui Russel fu innamorato, nasce proprio da un atteggiamento di ammirazione per l’ordine razionale, logico, che ci circonda.
E’ stato Alfred Whitehead, coautore proprio con Russell, della pietra miliare “Principia matematica”, a rivendicare l’origine cristiana, oltre che greca, della scienza moderna, con queste parole: “Il grande contributo dato dal medioevo alla formazione del movimento scientifico fu la fede inespugnabile che v’è un segreto e che questo segreto può essere svelato. Come si è insediata così saldamente nello spirito questa convinzione? Non può che provenire dalla concezione medievale che insisteva sulla razionalità di Dio”.
Non è dunque la ragione, come dicevo, a negare Dio, quanto un atteggiamento della volontà, che, colto il limite, lo rifiuta e con esso, rifiuta Dio come sua causa. Semplificando la metterei così: l’attitudine del credente è quella ottimistica, perché fa sì che egli creda sempre ad un significato, anche quando esso non si vede e comprende; quella dell’ateo in senso stretto, o del ribelle, è, al contrario impastata di pessimismo, perché la mancanza di senso è attribuita non solo a ciò che a prima vista sfugge alla nostra comprensione, ma alla realtà tutta! Quale dei due atteggiamenti è quello che realizza di più l’uomo?
Mi sembra che sia sufficiente un esempio storico. Il grande sociologo americano Rodney Stark, nel suo “La scoperta di Dio” (Lindau), ci aiuta a capire cosa abbia significato l’evangelo della croce - neppure il dolore è assurdo, Dio stesso lo provato- riportandoci all’originaria espansione del cristianesimo. Analizzando le pestilenze del 165 e del 251 dopo Cristo, nota: “La risposta pagana fu il panico e la fuga. Quelli che poterono fuggirono rifugiandosi nelle campagne- anche Galeno, il medico più famoso dell’epoca classica, lasciò Roma e rimase nella sua tenuta di campagna finché il pericolo non cessò, e come lui la maggioranza dei ricchi, dei leader politici e anche dei sacerdoti pagani. I greci e i romani che non potevano fuggire cercarono di evitare qualsiasi contatto con le vittime. Al manifestarsi dei primi sintomi, quindi, le vittime venivano gettate nelle strade dalle loro stesse famiglie perché si aggiungessero ai mucchi di morti e moribondi. Ma i cristiani reagirono diversamente. Né i ricchi né il clero fuggirono, anzi presero parte allo sforzo di accudire i malati, non solo cristiani, ma anche pagani. Alcuni di coloro che cercarono di curare e accudire i malati persero la vita per questo, ma forse addirittura due terzi di coloro che vennero curati e che altrimenti sarebbero morti, sopravvissero”.
I primi cristiani non credevano che il dolore, benché umanamente inspiegabile, fosse assurdo. Né che fosse vano, il loro amore. Il Foglio, 16/4/09