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Quarant'ore: una devozione che resiste
Di don Massimo Vacchetti - 08/04/2009 - Religione - 2341 visite - 0 commenti

Avviene qualcosa di singolare in questi giorni nella mia piccola Parrocchia della Bassa. Accade che ad ogni ora del giorno dalle 08,00 alle 22,00 (salvo qualche interruzione) la gente si metta in moto cantando a squarciagola un canto antichissimo (chi capitasse a sentirlo non capirebbe una parola tanto è inusuale il modo in cui viene cantato) e giunge, in processione, da una Chiesa all’altra del paese dove su di un trono alto otto metri è posto il Santissimo Sacramento.

Ogni ora la stessa scena. Ogni ora lo stesso percorso. Ogni ora la stessa processione. Ogni ora lo stesso inno, ogni ora lo stesso affetto a Gesù Sacramentato. Ogni ora, per quarant’ore, dalle Palme al martedì sera della Settimana santa. Ogni ora, da 270 anni, si ripete questo gesto cui il paese partecipa coralmente dagli adulti ai bambini. “Vado a prendere l’ora”. La gente si saluta così in questi giorni interrompendo una conversazione sorta sotto i portici o un’incontro lungo le strade sempre più trafficate. “Vado a prendere l’ora” per dire: “parte la processione, parte l’inno, non posso perderlo”. Qualcuno prende pure le ferie per essere presente a tutte le ore comprese quelle del mezzogiorno, dell’una, delle due. In mezzo magari ci scappa uno spuntino e all’ora successiva, a conclusione di un pranzo affrettato, un caffé. In questo paese, un tempo a ritmo di campagna, le quarant’ore sono un avvenimento. Uno di quelli che caratterizzano la provincia italiana. Ogni borgo, ogni campanile, ogni paesino ha le proprie tradizioni. Per lo più è la devozione cattolica ad aver reso ricco il patrimonio culturale del nostro popolo. In questa settimana, quante Via Crucis si celebreranno? Quante rappresentazioni sacre? Quante suggestive forme di fede semplice, affettuosa, innamorata, appassionata coloreranno la nostra penisola? Per non parlare del Natale e della devozione ai Santi. Me ne accorgo quando ogni anno durante le benedizioni la signora calabrese mi mostra alcune foto della fiorita al suo paesello in occasione della Santa Patrona o quella famiglia molisana che mi dice che per Pasqua tornano giù perché “ci sta una Via Crucis, Padre, che dovrebbe vedere”.

 La Chiesa ha dato ad ogni più piccola località l’orgoglio di amare la propria terra, le proprie tradizioni, i propri campanili. In questo paese dove è sorto recentemente uno dei più grandi Outlet della Regione, le Quarant’ore sono ciò a cui la gente si sente più legata. E’ uno spettacolo di colori, drappi, ceri, addobbi, canti. Al centro Gesù nella Sua presenza Eucaristica: “Gesù sacramentato v’amo e v’adoro”. Così canta il popolo. Dove nascono le Quarant’ore? L’origine di questa devozione popolare è da ricercarsi nella controriforma, ossia in quel tentativo del popolo cattolico di fuggire dall’intellettualismo protestante e di riaffermare il mistero dell’Incarnazione per cui Dio si è reso presente. Dio si rivela non solo esclusivamente nella pagina scritta, ma nel volto umano di Gesù. Si mostra nel sacramento. Concilio di Trento a parte, le Quarant’ore sono l’espressione della volontà di un popolo di rimanere con il suo Signore come si fa quando si sta con la persona che si ama e si vorrebbe estendere il tempo di questa comunione. Con chi si ama si sta volentieri. “Rimanete in me e io in voi» (Gv 15, 9). Se la Via Crucis vuole accompagnare il cammino doloroso del Signore Gesù, le Quarant’ore diffuse in quasi tutte le parrocchie d’Italia dal XVIII secolo ad opera dei Barnabiti e dei Cappuccini poi, valorizza quell’aspetto adorante e innamorato di chi vuol stare con il proprio amato. “Senza di Te sono solo” sembra dire chiunque si fermi per qualche minuto. “Io ti faccio compagnia per qualche minuto e Tu non abbandonarmi mai”. In questo paese, però c’è qualcosa di più.

Non è una semplice ostensione. Qui, avviene qualcosa di diverso. Sempre uguale. Sempre nuovo. Una tradizione che resiste e si rinnova. Il Santissimo viene posto in cima ad un trono coronato da centinaia di candele. Ho scoperto di avere le vertigini. La scala su cui salgo non è recente. Ha qualche secolo per lo meno. Quando scendo finalmente a terra, faccio adorazione. Prima però, lo ringrazio. E penso: “ Che tutti vedano, il Signore della Gloria che non ha risparmiato se stesso per noi”. Nel Santissimo Sacramento, quando viene mostrato durante la Messa e un chierichetto suona il campanello per attirarne gli sguardi e più ancora in questa ostensione si realizza la profezia di Cristo: “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”. Mentre confeziono questi modesti pensieri, una campanella mi avverte che sta per partire una nuova ora. Una nuova processione che dura appunto da 270 anni. Mentre mi reco al piccolo Oratorio, stazione di partenza di ogni ora, un ultimo pensiero prende corpo. Cerco di trattenerlo pensando alle cose più sante, ma ahimè come spumante sale dal collo della bottiglia di tanti studi di teologia: “Alla faccia di Bultmann e di quei liturgisti, pastoralisti per i quali la vera fede è un tomo di pagine incomprensibili e aride. Viva la mia povera gente che ama Gesù senza tanti concetti. Anzi, con uno soltanto: “Gesù sacramentato v’amo e v’adoro”. C’è fila. La gente attende di “prendere l’ora”. “Sempre in ritardo, don Massimo. Metti le lancette avanti. Così alla prossima ora arrivi puntuale!”.

 
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