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Prove certe ed inoppugnabili della risurrezione di Gesù non ne abbiamo. La conferma delle conferme, quella definitiva, può giungerci solo da quello slancio profondo che è la fede. Dopotutto, se la risurrezione di Gesù fosse inconfutabile sul piano storico, il cristianesimo stesso non avrebbe ragion d’essere, e la fede di chi crede senza aver visto, così incoraggiata dai vangeli, non avrebbe alcun senso. Tuttavia, v’è una consistente mole di indizi che propende a farci ipotizzare che sì, forse l’evento più straordinario della storia dell’umanità possa davvero aver avuto luogo. Ma andiamo con ordine e analizziamo, punto per punto, tutte la varie domande e le diverse ipotesi che uno scettico, ma anche un semplice curioso, non può non vagliare.
Anzitutto, quando avrebbe avuto luogo la risurrezione? Un’attenta analisi di tutti i riferimenti storici in nostro possesso, evangelici e non, ci porta a datare la scoperta del sepolcro vuoto la mattina del 9 aprile dell’anno 30 d.C. Possibile che la risurrezione di Gesù sia solo un mito, un racconto tramandato ma senza il minimo fondamento storico? Improbabile. Soprattutto, la tesi mitologica pare non reggere all’oggettiva rapidità con la quale si è formato il Nuovo Testamento: il “credo” stilato da uno dei primi apostoli, che include la risurrezione (1 Corinzi 15:3-9), secondo molti studiosi sarebbe stato scritto al massimo 7 anni dopo la morte di Gesù. Inoltre non esistono, in tutta la storia, altri esempi di miti sviluppatisi in presenza di testimoni oculari. Addirittura, Gesù, una volta vinta la morte, sarebbe apparso a 500 persone in una sola volta (1 Corinzi 15:6).
D’accordo – può direi uno scettico – ma queste sono le verità dei vangeli canonici e del Nuovo Testamento. Esistono vangeli apocrifi che offrono versioni alternative di Gesù, della sua personalità e, più in generale, della sua vita. Con buona pace di Dan Brown e compagni, i vangeli canonici hanno un radicato fondamento storico. Ora, sappiamo che la credibilità di un documento storico si basa in particolare sull’antichità e sulla numerosità delle sue copie. Per capirci, l’autore latino di cui abbiamo più documenti è Orazio con 250 codici (copie dei suoi scritti). Ebbene, dei vangeli canonici, quattro testi che totalizzano 64327 parole greche, disponiamo di 5300 codici, alcuni dei quali cronologicamente vicinissimi ai fatti narrati, per non parlare dei frammenti. Si pensi, su tutti, al Papiro P. 7 Q 5, risalente al 50 d.C. e attribuito a Marco. Quell’antichissimo frammento papiraceo conferma la veridicità delle testimonianze di Papia di Gerapoli e Clemente d’Alessandria, i quali affermavano che Marco aveva scritto il suo vangelo su richiesta dei romani, dopo che questi avevano ascoltato la predicazione di Pietro, all’inizio del regno di Claudio, nell’anno 42 d.C.
Per quanto concerne il già citato Papiro P. 7 Q 5 merita di essere aperta una parentesi sulla sua scoperta. Tutto ebbe inizio nel 1972 quando padre Josè O’ Callaghan SJ, studioso spagnolo dell’Istituto biblico di Roma, pubblicò i risultati delle sue ricerche su alcuni dei 19 frammenti di papiro in lingua greca ritrovati nella gratta n.7 di Qumran (Cfr. “Biblica”, LIII, 1972, pp. 91-100), risultati che, in consonanza con quanto concluso poi anche dall’autorevole papirologo britannico Colin H. Roberts, facevano risalire il P. 7 Q 5 a non oltre il 50 d.C. Si trattava di un vero e proprio terremoto per gli studi sulla datazione dei vangeli, che volevano questi testi distanti di svariati decenni rispetto alle vicende narrate. Prova ne fu che la scoperta di padre Josè O’ Callaghan, per acquisire l’attenzione che meritava e per uscire dalla stretta cerchia degli addetti ai lavori, dovette attendere quasi vent’anni, vale a dire fino all’ottobre del 1991 quando, in un Simposio sull’argomento organizzato in Germania presso l’Università Cattolica di Eichstätt, che vide la partecipazione di esperti di fama mondiale quali Herbert Hunger e Harald Riesenfeld, le tesi del papirologo ispanico furono finalmente giudicate serie e attendibili.
Fa una certa impressione constatare come le maggiori obiezioni a questa rivoluzione, vennero proprio da esponenti del mondo cattolico, basti pensare allo scetticismo espresso, a quel tempo, da luminari come Gianfranco Ravasi e padre Pierre Grelot; in particolare va ricordato come quest’ultimo pubblicò per i tipi della Libreria Editrice Vaticana (1989) un libro molto critico contro Jean Carmignac, colpevole anch’esso di sottoscrivere la nuova datazione dei vangeli. Paradossalmente, a sposare le tesi di padre Josè O’ Callaghan e di Carmignac furono invece, ironia della sorte, studiosi protestanti: John A.T. Robinson e Carsten Peter Theide, giusto per fare due nomi.
Tornando ai vangeli e alle numerosissime copie di cui siamo in possesso, va ricordato che i 5300 manoscritti del Nuovo Testamento, pur essendo sparsi e conservati in varie località, hanno migliaia di versetti assolutamente identici. Questo lascia ragionevolmente supporre che risalgano tutti da poche fonti originali. Al contrario, i vangeli apocrifi, così in voga oggi, oltre ad essere numerosi (sono circa un centinaio) e diversissimi, sono per lo più scritti ma soprattutto pensati in greco (in quelli canonici è evidente un substrato aramaizzante, attestato con evidenza da almeno 26 parole) e talvolta sono tra loro confusi quando non contraddittori. In alcuni di loro, ad esempio, oltre a raccontare miracoli di Gesù ben più stupefacenti di quelli narrati nei vangeli canonici, si fa delle figure della Vergine Maria e di Maria Maddalena lo stesso personaggio, in altri, addirittura, si omette la crocifissione!
Non a caso, come dimostra il Canone Muratoriano, già nel 190 d.C. i vangeli canonici erano stati riconosciuti come più veritieri ed attendibili degli altri. Che quelli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni siano testi più importanti di quelli apocrifi è dimostrato anche dal fatto che, mentre tutti i vangeli apocrifi si rifanno più o meno direttamente a quelli canonici, nessun vangelo canonico attinge o suppone un apocrifo. Dei 114 detti di Gesù nel vangelo di Tommaso, ad esempio, ben 79 hanno un esplicito riferimento nei sinottici, e 11 non sono che mere varianti delle parabole sinottiche.
A queste considerazioni si può ancora obbiettare affermando che sì, i vangeli canonici saranno pure testi storici e antichissimi, ma possono benissimo raccontare fantasie sulla risurrezione di Gesù, che poi è l’epicentro della nostra breve indagine. Difficile che dietro la narrazione evangelica della risurrezione vi siano intenti menzogneri. Lo dimostra, su tutto, un dato di fatto: le prime a vedere il sepolcro vuoto sarebbero state delle donne. A quel tempo la credibilità delle donne, secondo la prassi socio giuridica ebraica, era assai irrilevante. Chi avesse voluto architettare un racconto fasullo per poi spacciarlo come autentico, mai e poi mai si sarebbe servito di testimonianze femminili. Ce lo rammenta anche lo storico ebreo Giuseppe Flavio, nato sette anni dopo la crocifissione, che nelle sue Antichità Giudaiche ebbe a dire:”le testimonianze di donne non valgono e non sono ascoltate tra noi, a motivo della leggerezza e della sfacciataggine di quel sesso”.
Ricordiamoci anche che i vangeli dedicano davvero ampio spazio alla narrazione delle ultime ore di Gesù. Nel vangelo di Marco – il più antico – ben 107 dei 658 versetti totali, sono dedicati esclusivamente dalla descrizione delle ultime 24 ore dalla vita di Gesù. Ciò non toglie che burloni laicisti come Piergiorgio Odifreddi, mossi da istinti provocatori, si ostinino a dire che la risurrezione “nei Vangeli non c’è” (La Stampa, 1/3/07). Ora, ignoriamo di quali arcani vangeli sia in possesso il nostro Odifreddi, ma – escludendo Giovanni – nei vangeli, della risurrezione, si parla almeno 11 volte (Matteo: 16,21 17,22 20,19 26,32 e 27,63. Marco: 8,31 9,30 10,34 12,96 e Luca: 18,33) e in tutto il Nuovo Testamento i termini indicanti la risurrezione (eghiero e anastasis) ricorrono almeno 100 volte!
Chiusa questa parentesi, un dato che deve far pensare è, infine, la testimonianza storica della fede degli apostoli: possibile che costoro – che erano persone pragmatiche e refrattarie alle suggestioni come sono i pescatori – si siano dati alla predicazione, incuranti persino del martirio, per divulgare una menzogna che loro per primi sapevano tale? E se il corpo di Gesù fosse stato invece rubato? Di questa ipotesi, ripresa in età moderna dal filosofo amburghese Hermann Samuel Reimarus (1694-19789), si chiacchiera da sempre. Già Petronio, nel 64 d.C., nel suo Satyricon allude con toni ironici a dei creduloni che presero sul serio la resurrezione di un cadavere in realtà trafugato e sostituito, combinazione proprio il terzo giorno, con una persona viva. Gli stessi vangeli, a ben vedere, raccontano l’iniziale scetticismo dei fedeli di Gesù dinnanzi all’ipotesi della risurrezione, tanto è vero che la prima ipotesi avanzata da Maria di Màgdala è proprio quella del furto:”Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno messo!” (Giovanni, 20:2). In Matteo si narra inoltre di come, all’udire la notizia del sepolcro vuoto, i sommi sacerdoti si mobilitarono subito per diffamare i seguaci di Gesù quali ladri delle sue spoglie.
La tesi del sepolcro trafugato, appare comunque persino più problematica di quella della risurrezione: chi avrebbe rubato il corpo di Gesù? Quando? Per quale ragione? Risulterebbe francamente fantasioso annoverare i discepoli tra i possibili colpevoli visto e considerato che, come abbiamo detto, per annunciare Cristo e la sua risurrezione costoro arrivano a subire atroci persecuzioni. Altrettanto difficile risulta sospettare di Giuseppe di Arimatea, il notabile proprietario della tomba che pare fosse un sincero ammiratore di Gesù, dal momento che si offrì di custodirne il corpo. Se si considera poi che a sorvegliare il sepolcro pare proprio ci fossero delle guardie (Matteo, 27:62-66) messa lì apposta, si comprende come l’ipotesi che il corpo di Gesù sia stato rubato risponde più ad una rilettura giallesca della storia piuttosto che ad una probabilità concreta.
Un capitolo a parte, parlando della risurrezione, meriterebbe il discorso sulla Sindone, già definita dall’archeologo Valerio Massimo Manfredi come la più misteriosa reliquia consegnataci dalla storia. Ci limitiamo qui a ricordare che nel 2002 anche il Cicap, infaticabile comitato di scettici e smascheratori di cerchi di grano e cartomanti, ebbe a riconoscere come sia tutt’ora sconosciuta la causa che ha prodotto l’immagine della Sindone. Con tutta la tecnologia di cui disponiamo oggi, infatti, non solo non sappiamo riprodurre la Sindone, ma ancora non siamo in grado di dire come si sia formata quell’immagine, che ha già mostrato resistenza a ben 25 solventi da laboratorio. Com’è noto, alcune analisi, poi smentite da altre successive, datarono la Sindone come medievale.
Se quella fosse davvero una reliquia medievale, comunque, il mistero sarebbe tutt’altro che risolto, ma si accrescerebbe. L’ipotetico falsario medievale della Sindone, infatti, avrebbe dovuto immaginare l’invenzione del microscopio per aggiungere sul telo elementi invisibili a occhio nudo: pollini, terriccio, siero, aromi per la sepoltura, aragonite; avrebbe dovuto conoscere la fotografia, inventata la XIX secolo, perché la Sindone è un’immagine in negativo; avrebbe dovuto saper distinguere tra circolazione venosa e arteriosa, studiata per la prima volta nel 1593, nonché essere in grado di macchiare il lenzuolo in alcuni punti con sangue uscito durante la vita e in altri con sangue post-mortale, rispettando inoltre, nella realizzazione delle colature ematiche, la legge di gravità, scoperta nel 1666. Insomma, il falsario della Sindone avrebbe dovuto essere un gigante della scienza, un genio assoluto; un genio del quale, stranamente, non si ha la benché minima traccia storica. Alla luce di questi elementi Giulio Fanti, docente di Misure Meccaniche e Termiche presso il dipartimento di Ingegneria Meccanica dell’Università di Padova, ha concluso che “secondo i calcoli matematici è più probabile che al gioco della roulette esca lo stesso numero per 52 volte consecutive piuttosto che la Sindone non sia autentica”. Gli fa eco, con parole suggestive, la studiosa Emanuela Marinelli:”la Sindone è un documento sconvolgente: se è autentica, è frutto di un amore sovrumano; se non è autentica, è frutto di un genio sovrumano”.
Le ipotesi e gli interrogativi qui presi in esame non hanno certo la pretesa di metter fine ad un mistero, quello di Gesù, che da millenni calamita le attenzioni di studiosi, filosofi, ma anche di persone qualunque. Se il nazareno che quasi venti secoli dopo la propria scomparsa può contare due miliardi di fedeli, abbia effettivamente vinto la morte, non lo si può dire. Di fatto, non lo si può escludere. La storia, cui solitamente ci si appella per far luce sugli eventi ritenuti inspiegabili, in questo caso sembra lei stessa interpellarci con un quesito immenso, che non ci è concesso dribblare: chi era davvero Gesù? Jean Cau, scrittore nonché ex segretario di Sartre, facendo i conti con questa domanda, ha scritto: “Fra lo zero del dubbio e l'infinito della fede, io so che Gesù Cristo è per me, ma a quale distanza? Ogni giorno, caro Padre, io la misuro. E la ringrazio di avermi posto questa domanda”.