Diventa socio
Sostieni la nostra attivitą
Contatti
Al congresso del Pdl Gianfranco Fini (la faccia di bronzo qui sopra) ha lanciato l’ennesimo affondo. Riferendosi alla legge Calabrò sul testamento biologico, che è liberissimo di contestare, ha però affermato che essa “è più da stato etico che da stato laico”. La frase deve aver fatto il suo effetto, se è vero che qualcuno ha applaudito.
Eppure è del tutto sbagliata. Lo stato etico, infatti, coincide perfettamente con lo stato laico, almeno nell’accezione errata che Fini dà alla parola “laico”, quando con essa implicitamente o esplicitamente cerca di togliere cittadinanza alla morale naturale e cristiana. Chi ha fatto il liceo, senza infamia e senza lode, dovrebbe ricordarlo: lo stato etico è un concetto del laico Hegel, che porta a compimento l’idea di stato nata all’inizio dell’epoca moderna, con il pensiero laico e anticristiano di Machiavelli ed Hobbes e sfociata prima negli assolutismi laici dei cosiddetti despoti illuminati, poi nelle dittature laiche di Robespierre e Napoleone, ed infine nelle statolatrie, anch’esse laiche, novecentesche.
Stati etici sono stati la Germania nazista, la Russia comunista e l’Italia fascista. Cioè tre realtà statuali laicissime, fondate sulla separazione e sulla contrapposizione tra Stato e Chiesa, e tra diritto positivo e diritto naturale. Nel 1918 il governo bolscevico, già attivo nella persecuzione dei credenti, dichiara che “la Chiesa è separata dallo stato” e che “la scuola è separata dalla chiesa”. Analogamente il partito nazista, nel 1920, sottolinea la sua laicità chiedendo la “libertà di tutte le confessioni religiose nello stato”, e fonda il concetto di appartenenza alla nazione sulla comunità di sangue, e non sulla “confessione religiosa”, in aperto contrasto con lo stato multietnico e confessionale degli Asburgo.
Lo Stato etico hegeliano, scrive Nicola Abbagnano, è lo stato che “non può trovare nelle leggi della morale un limite o un impedimento alla sua azione”, giustificando così “il principio del machiavellismo”: è cioè lo stato che decide cosa è bene e cosa è male, senza riconoscere principi superiori che lo precedono e lo trascendono. Lo Stato, insomma, che condanna a morte Antigone, o che pianifica con i gulag e i lager lo sterminio di interi popoli o classi sociali, in nome della sua facoltà di essere giudice supremo del Vero. Lo Stato che oggi decide essere legale, e quindi giusto, l’aborto e che un domani legalizzasse l’eutanasia. Non c’è nulla di più laico, nell’accezione finiana e ormai comune, del positivismo giuridico, base dello stato etico, che ha avuto il suo apice, non a caso, nella Germania degli anni Trenta.
Esso infatti nega l’esistenza di valori assoluti, indisponibili, di diritti fondamentali e non negoziabili, quali il diritto alla vita, rifiutando l’origine divina del diritto e la possibilità stessa che esso tragga la sua validità da norme oggettive ed universali, e cioè iscritte nella natura delle cose. E’ un caso che lo stato etico nazista abbia per primo promosso l’eutanasia, come negazione dell’universale e intangibile diritto alla vita e dell’uguaglianza tra gli uomini, sani e malati?
Lo Stato fascista, “come volontà etica”, hanno scritto Mussolini e Gentile, “è creatore del diritto”; esso “non ha una teologia ma ha una morale”: proprio quello che i sostenitori del disegno di legge Calabrò non vogliono si ripeta! Fini, che ha definito Mussolini, in più occasioni, “il più grande statista del secolo”, dovrebbe saperlo. Tanto più che è veramente paradossale che a fare la morale al parlamento italiano sulla negatività dello stato etico sia colui che si è dichiarato per tanti anni erede proprio dell’unico Stato etico che il nostro paese abbia mai avuto.
Ma Fini, si sa, è coraggioso: pochi mesi orsono, l’ex ammiratore di colui che le leggi razziali le fece, l’ex pupillo di Giorgio Almirante, che fu nella redazione de La difesa della razza, attaccò la Chiesa spiegando che non aveva fatto abbastanza contro il razzismo fascista! Andando indietro nel tempo, colui che aveva sostenuto la legge 40, votò poi per abrogarla e rendere lecita la sperimentazione occisiva degli embrioni, arrivando per giunta a scagliarsi contro il legittimo parere contrario della Chiesa.
Un noto giornalista del Corriere, Gian Antonio Stella, alcuni anni fa, nel suo “Tribù” (Mondadori), ricostruì le trasformazioni e le numerose svolte di Fini, per poi raccogliere alcuni pareri sull’illustre politico transitato dal fascismo mussoliniano all’antifascismo di maniera, a colpi di dichiarazioni sul Corano, il voto agli immigrati e il “male assoluto”, con una abilità, come ha scritto Stefano Bartezzaghi, anagrammando il suo nome, da “faina in forcing”. Ebbene Stella ricordava la definizione di Fini data da Francesco Cossiga: “Porta avanti il suo gioco politico con una buona lucidità. Ma è privo dei supporti dottrinari. Non so se legga qualche libro..”; quella di Vittorio Sgarbi: Gianfranco “nelle retromarce esprime se stesso”; quella di Pietrangelo Buttafuoco, secondo cui l’attuale presidente della camera ha profondamente innovato lo slogan del duce: “Se il motto spavaldo dei vecchi fascisti era “me ne frego”, quello del neghittoso Fini è peggiore: “Me ne fotto””; ed infine quella di Mario Segni: “Con la sua fredda astuzia sembra il duca Valentino Borgia, che aspetta il logoramento del Cavaliere per proporsi come il vero leader della destra”. Ma il cavaliere è furbo, e con un applauso caloroso, quello che ci vuole per un uomo che ama stare al centro del palco, lo ha definitivamente archiviato. Il Foglio, 2 aprile 2009