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Strade di campagna
Di Lorenzo Bertocchi - 01/04/2009 - Cultura e societą - 1618 visite - 0 commenti

Studiando la storia dell’agricoltura si resta colpiti di come normalmente facciamo memoria di personalità come Cesare, Napoleone o grandi re, inventori, soldati, artisti, ma non sempre prestiamo sufficiente attenzione ai gesti compiuti nella quotidianità dalle persone “comuni” e quanto, invece, questi incidano fortemente sull’evolversi degli eventi.

 Ad esempio, alcune semplici invenzioni non hanno un padre certo, ma sono state dirompenti per la storia dell’umanità: l’aratro, il giogo, la rotazione delle colture, sono frutto di intuizioni fondamentali su cui l’uomo ha potuto costruire la sua vicenda (“Dio ha scelto le cose deboli del mondo e quelle che non contano nulla per annullare quelle che presumono di sé”- 1 Corinzi 1,28). L’opinione pubblica ha, e ha sempre avuto, una concezione del “contadino” molto riduttiva, quando non denigratoria, ma l’agricoltore è una persona che vivendo a stretto contatto con i ritmi dettati dalla natura è dotato di un profondo senso pratico, non superficiale, ma conscio dei suoi limiti.

Abituato alla fatica l’agricoltore sa che deve aspettare, che anche mettendo in gioco tutte le sue possibilità tecniche dovrà sperare e confidare nel clima buono, in una buona fioritura, in animali sani, ancora deve inchinarsi di fronte al mistero, di fronte a leggi che può conoscere sempre di più, governare al meglio, ma non possedere fino in fondo, l’agricoltore conserva di fatto la capacità di stupirsi.

Il Prof. Lucio Rossi, figlio di agricoltori, importante fisico del Cern di Ginevra, tra i responsabili degli esperimenti con il Superconduttore, ha dichiarato ad un quotidiano: “Dall’agricoltura ho appreso che si semina, si suda, ma non si sa se si raccoglie. Il lavoro è indispensabile, ma non è quello che fa crescere i prodotti della terra. C’è di mezzo un disegno che non è del lavoratore.” Questo è il mistero che l’agricoltura manifesta nel meraviglioso rapporto tra uomo e creato, e proprio a partire dal mondo agricolo si possono trovare risposte originali (escludendo quelle materialistiche o naturalistiche) per comprendere il significato della relazione tra uomo, natura e Dio. L’agricoltore che semina non è un fatalista, ma è un uomo che pone fiducia nel suo gesto e sa che il raccolto arriverà, potrà essere più o meno abbondante, ma confida che arriverà. Mi piace pensare che l’agricoltore incarni la figura dell’”anawim” biblico cioè dell’umile, del povero in spirito, vale a dire colui che vive nella consapevolezza che è bisognoso, che è creatura e pertanto le sue azioni si fondano sulla fede e sulla speranza. Non si vuole vagheggiare un mondo antico e bucolico, conosco la durezza, a volte anche culturale, del mondo della campagna e l’agricoltore è uomo come lo siamo tutti, però resto convinto che questa professione abbia delle caratteristiche specifiche che la benedicono.

 Il 19 marzo 1993 a Vescovio in Sabina, Papa Giovanni Paolo II rivolgeva alcune parole agli agricoltori riuniti dinanzi al Santuario di Maria Santissima della Lode: “…certamente il campo rurale è quello più presente nella Parola di Cristo, nelle sue parabole, nel suo insegnamento evangelico. Allora deve portare in sé qualche cosa di divino, di soprannaturale, non solamente di economico-sociale. E serve a rivelare a noi la realtà più profonda della natura e la vicinanza del Creatore e Padre.” In queste parole è espressa una bellissima verità, il lavoro nei campi pur se faticoso e duro ha una stretta parentela con il divino, può permettere un particolare incontro con Dio, si potrebbe dire che costituisca l’ingresso ad una via privilegiata, quella che chiamiamo allora la “via degli anawim”. Gesù nel Vangelo utilizza spesso esempi di vita rurale per far comprendere il Regno e la sua missione, e tra questi possiamo trovare anche il senso profondo di questa via, una sorta di impronta che caratterizza l’anawim: “In verità, in verità vi dico se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se, invece, muore, produce molto frutto. (Gv 12,24)”.

 Il seme “contiene” la vita, la preserva, e perché possa germinare e liberala occorre che si rompa, cioè vi deve essere degradazione o rottura dei tegumenti in modo da realizzare delle fessurazioni; per alcuni semi si devono effettuare delle vere e proprie incisioni, denominate scarificazioni, mentre di solito sono abrasioni che normalmente avvengono con il contatto con la terra, o il forte dilavamento provocato dalle piogge, o l’alternanza gelo-disgelo. Colui che ha pronunciato queste parole ci ha dato l’esempio con il Suo Corpo, si è fatto flagellare e crocifiggere perché la Vita che era in Lui potesse essere donata a tutti noi, fratelli dello stesso Padre, la Sua Resurrezione è il frutto eterno del chicco che muore.

Se guardiamo a Lui ci accorgiamo allora che per seguirlo nei sentieri di campagna tracciati nel Vangelo dobbiamo imparare ad essere “nel mondo, ma non del mondo”, abbandonare l’egoismo che ci spinge continuamente al cercare strade asfaltate comode e veloci, per trasferirci nell’umiltà di vie sterrate dove non siamo più pieni di noi stessi. Lì si ribalta tutto, lì anche noi possiamo cominciare a morire a noi stessi per portare frutto: il mondo pensa che la personalità forte sia quella che impone, pretende, possiede, ma il seme morendo insegna che la vera personalità forte è quella che sceglie di donarsi. Questo è l’umile che si incammina sui sentieri di campagna lungo il Vangelo, colui che si svuota di sé per riempirsi di Dio.

La Pasqua ci ricorda che la vita e la morte non sono la stessa cosa, non sono indifferentemente sullo stesso piano, ma anzi la vita è talmente più importante che proprio dalla morte ha ricavato il massimo bene, una nuova vita, una vita eterna. La primavera è alle porte, buttate un occhio ai campi: la vita si risveglia ancora, ma noi sappiamo ancora stupirci?

 
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