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Caso Eluana, parla l'ateo Jannacci: allucinante fermare le cure-La storia di Raffaella
Di Rassegna Stampa - 06/02/2009 - Bioetica - 1373 visite - 0 commenti

«La vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio... Ci vorrebbe una carezza del Nazareno» dice a un certo punto, e non è per niente una frase buttata lì, nella sua voce non c'è nemmeno un filo dell'ironia che da cinquant'anni rende inconfondibili le sue canzoni. Di fronte a Eluana e a chi è nelle sue condizioni — «persone vive solo in apparenza, ma vive » — Enzo Jannacci, «ateo laico molto imprudente», invoca il Cristo perché lui, come medico, si sente soltanto di alzare le braccia: «Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l'alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale». È un discorso che vale anche nei confronti di chi ha trascorso diciassette anni in stato vegetativo? «Sono tanti, lo so, ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi». Ma una volta che il cervello non reagisce più, l'attesa non rischia di essere inutile? «Piano, piano... inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l'idea di non potergli più stare accanto». Sono considerazioni di un genitore o di un medico? «Io da medico ragiono esattamente così: la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L'esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque. Decidere di interromperla in un ospedale non è come fare una tracheotomia...». Cosa si sentirebbe di dire a Beppino Englaro? «Bisogna stare molto vicini a questo padre». Non pensa che ci possano essere delle situazioni in cui una persona abbia il diritto di anticipare la propria morte? «Sì, quando il paziente soffre terribilmente e la medicina non riesce più ad alleviare il dolore. Ma anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover "staccare una spina": sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me». Come affronterebbe un paziente infermo che non ritiene più dignitosa la sua esistenza? «Cercherei di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza: conosco decide di ragazzi meravigliosi che riescono a vivere, ad amare e a farsi amare anche se devono invecchiare su un letto o una carrozzina». Quarant'anni fa la pensava allo stesso modo? «Alla fine degli anni Sessanta andai a specializzarmi in cardiochirurgia negli Stati Uniti. In reparto mi rimproveravano: "Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c'entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti". Decisero di mandarmi a lavorare in rianimazione, "così può attaccarsi a loro finché vuole"... ecco, stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore. C'è anche dell'altro, però». Che cosa? «In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l'idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza». Fabio Cutri - Corriere della Sera 06 febbraio 2009

 

6 febbraio 2009 Il Foglio

A 200 metri dalla Quiete di Eluana c’è Raffaella

Storia di una ragazza che vive nell’accanimento dell’amore dei cari

Alle pareti della stanza di Raffaella Di Marzo c’è il suo diploma di segretaria d’azienda. “Ma il destino ha voluto che non potesse mai prenderlo in mano, si è sentita male prima”, dice il fratello Paolo. Ad appena 200 metri dalla casa di cura “La Quiete”, dove è ricoverata da tre giorni Eluana Englaro, Raffaella è distesa nel suo letto ortopedico. E’ vent’anni che si trova nella stessa condizione di Eluana, ma la sua storia non è mai stata al centro di una guerra politica, giudiziaria e medica.

Questa splendida ragazza aveva 25 anni quando fu operata per una calcolosi. Seguirono l’arresto cardiaco, il coma e l’anossia cerebrale. Per quattro anni rimase in ospedale, la portarono in un centro d’eccellenza a Innsbruck. Poi a casa, nell’appartamentino lungo un bel viale di Udine dove ci ricevono Paolo e Giustina Di Marzo, fratello e cognata di Raffaella. Raffaella ha 44 anni e il suo viso ha tratti dolci e tondi, si è ingrandito, ha preso vigore, è diventato parte della sua postura. Nel 2002 sono scomparsi i suoi genitori, erano sempre stati loro a prendersi cura della figlia. Poi sono subentrati Paolo e la moglie Giustina. Hanno una figlia e tirano avanti con una piccola edicola in città, hanno dovuto lasciare i lavori precedenti per dedicarsi a Raffaella. Paolo fa una vita di sacrifici, si alza ogni mattina alle tre, perché “devo essere a casa nel pomeriggio per dare una mano”. “I miei genitori si sono sacrificati per lei fino alla loro morte, i medici ci proposero anche di sistemarla a ‘La Quiete’, ma noi rifiutammo, volevamo che stesse a casa, che fosse parte di noi. Raffaella è come Eluana, solo che a mia sorella il sondino entra direttamente nello stomaco per nutrirla. Mia sorella è viva, è come immersa in una esistenza parallela, reagisce quando le mettiamo su la musica o la accarezziamo. Non esiste più la Raffaella di prima, ora vive nel suo mondo, ma nessuno può dire che è morta. Non lo ammetto. Vengano a vederla”.

Due piccoli armadi, un lettino, una poltrona con le ruote per portarla in giro per casa, qualche peluche, un quadro, tante fotografie e poi eccola lì Raffaella, con la sacca che la alimenta, davanti a una finestra che dà su un bel cortile. Appena entriamo nella stanza, la moglie di Paolo esclama: “Raffi, guarda che bella visita hai oggi?”. Raffaella segue la voce della cognata, si volta, accenna un sorriso, una smorfia, difficile dire cosa sia. Ma è viva. Spalanca gli occhi. “A pochi passi da qui, alla casa di riposo ‘La Quiete’, una donna come mia sorella vogliono privarla dell’acqua e del cibo. Mi chiedo che ne sarà di tutti i sacrifici che io, mia moglie, mia figlia e i miei genitori abbiamo fatto in questi vent’anni?”. I coniugi Di Marzo mi mostrano un dvd con i momenti più felici di Raffaella, si vede lei che ascolta la musica e che ride, sembra compiacersi della presenza dei suoi cari. “Adora la musica di Albano e Romina, Raffi reagisce molto di più quando le mettiamo la musica dei suoi tempi”, spiega Giustina, una donna minuta e concreta. “Se le metto sul collo le mie mani fredde, Raffi si innervosisce e si arrabbia”.

Paolo non capisce come si sia arrivati a questo, a portare una giovane donna accudita dalle suore in un istituto per anziani a farla morire. “E’ una crudeltà inaudita, è come un rifiuto della vita, questa gente ha un concetto estetizzante dell’esistenza umana, sono molto ideologici”. Anni fa Raffaella era più passiva, poi è diventata più partecipe. “Se le facciamo ascoltare Tiziano Ferro si emoziona, una musica che lei non aveva mai sentito da ragazza. Rispetta il ciclo della notte e del giorno, ha le mestruazioni, reagisce al caldo e al freddo, il suo ipotalamo funziona. Non assume farmaci, solo il Tavor per dormire a volte, ma lo prendono anche le persone ‘normali’, no? Una volta ogni cinque mesi un infermiere viene a cambiarle il sondino. Per noi sarebbe anormale se Raffaella non ci fosse, siamo noi ormai che abbiamo bisogno di lei”. Vogliono mostrarmi come la alimentano. “Venga venga a vedere il famoso accanimento terapeutico”, scherza il fratello. E’ una sacca color sabbia, dentro c’è quel che le occorre. “Con una siringa poi le diamo da bere. Anche mia figlia di undici anni le dà da mangiare in questo modo, che crudeltà non è vero?”. “Non ti accanire”, scherza Paolo con la moglie quando lei, con la siringa, le aggiunge un po’ d’acqua. La Asl passa il letto, i pannolini e l’alimentazione. Punto. Tutto il resto, compresa una badante che li aiuta nei lavori domestici, è a carico della famiglia.

Giustina e Paolo si sono conosciuti in ospedale, lui era già impegnato a seguire la sorella. “Noi non facciamo mai le ferie, non possiamo permetterci di andare via come fanno altre famiglie, al massimo Giustina porta nostra figlia dai nonni in Polonia”. E’ da lì che viene sua moglie. “Raffaella non esce mai di casa, a meno che non ci siano degli esami da fare. Pensi che il condominio ci ha persino negato di montare l’ascensore. Al massimo la portiamo in salotto, a lei piace molto la tv e la luce del giorno”. In camera di Raffaella c’è un quadro con tante sue foto da ragazza. Una in montagna sotto la neve, un’altra in riva al lago di Cavazzo, vicino a Udine, una sul ponte dei sospiri a Venezia. Ha una camicetta gialla, sorride, è nel fiore dei suoi anni. “Voglio rendere noto tutto il mio sdegno e orrore per una sentenza che introduce per la prima volta in Italia la pena di morte, e non per criminali incalliti, ma per un’ammalata che non è in grado di difendersi, che ha bisogno solo di amore e di cure da parte di persone che le vogliono bene. Mia sorella conduce una vita degna di essere vissuta, all’inizio è stata dura e lo è ancora, ma per noi è diventata una cosa naturale. Nostra figlia è nata conoscendo la zia sempre in questa condizione”. Paolo tocca spesso Raffaella. “E’ un rapporto fatto di carezze, sensazioni, baci. A Beppino Englaro vorrei dire: ‘La porti a casa, provi che significa’”.

“E’ possibile che siamo diventati così spietati e freddi?”, domanda Giustina. “Quando noi ci ammaliamo le trasmettiamo i virus, Raffi ha il raffreddore come noi, la gente queste cose non le sa, si immagina dei tronchi umani senza reazioni. Ma va bene così a noi, a nostra figlia diciamo sempre quanto sia importante aver cura della propria vita e forse è diventata la bambina responsabile che è per il fatto di aver visto che si può vivere anche come sua zia. Lei pensi che se Paolo entra a casa e non va a salutarla, Raffaella emette dei mugolii, come se si lamentasse, smette quando lui la accarezza”. Interviene Paolo: “Io capisco che la gente abbia timore di queste realtà, infatti ogni estraneo che si trova di fronte a mia sorella reagisce con disagio”. Giustina dice che “con me Raffaella ride di più perché io le faccio gli scherzi, mentre con suo fratello, beh con lui è più affettuosa. Forse è il legame di sangue”. I coniugi Di Marzo si sentono fortunati: “Ci sono persone in condizioni peggiori. Conosciamo una donna il cui figlio a un anno si sentì male. Oggi ne ha 40, loro stanno diventando vecchi e non sanno a chi lasciarlo. Per noi è un sollievo che Raffaella sia così, fa parte di noi, è lei a sentirsi e a comportarsi come una della famiglia. E’ un sacrificio enorme per noi, ma non possiamo farcela se nella società ci sentiamo soli. Troppo facile chiedere il silenzio mentre si fa questo a una donna disabile come Eluana”.

di Giulio Meotti


 

 
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