Legge naturale, contraccezione e fornicazione
L’esistenza e l’obbligatorietà di una legge morale immutabile iscritta nella natura umana (legge naturale) non è un dato di fede o di Rivelazione, ma un qualcosa di razionalmente dimostrabile. Alcuni contenuti o precetti specifici di tale legge possono apparire oggi ingiustificati o addirittura ridicoli: ciò accade specialmente, ma non solo, nelle intelligenze che misconoscono quell’altro dato certissimo di ragione che è l’esistenza di Dio. Tutto ciò non toglie, però, che i precetti di cui stiamo parlando esistano e che debbano essere rispettati da tutti, cattolici e non cattolici, affinché l’anelito di ciascuno ad una vita buona e felice sia perseguito e raggiunto. In questo sintetico contributo vorrei dimostrare, in particolare, la cogenza oggettiva di due precetti di legge naturale oggi largamente misconosciuti e disattesi: i precetti, cioè, che interdicono le pratiche della contraccezione e della fornicazione.
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Innanzitutto: cos’è la legge naturale? Le definizioni filosofiche rigorose, qui, non ci interessano; diciamo brevemente che la legge naturale è la norma eterna posta da Dio nella creazione materiale, in quanto partecipata e resa accessibile all’intelligenza dell’uomo. Per comprendere le singole prescrizioni della legge naturale vanno in primo luogo rintracciate razionalmente – la Rivelazione, ripeto, non è necessaria – le finalitá intrinseche della persona umana, dei suoi atti fondamentali (tra cui, nel nostro caso, la sessualità) e dei beni da lei liberamente perseguibili (beni e finalità materiali, psicologiche, emotive, spirituali, sociali eccetera). Schematizzando un po’: riconoscere l’esistenza di Dio Creatore significa riconoscere la struttura finalistica, teleologica da Lui impressa all’essere creato (1); riconoscendo il finalismo intrinseco dell’essere creato, e della creatura umana in particolare, si riconosce l’esistenza e la necessità di una legge naturale che custodisca e promuova questo finalismo (l’uomo è infatti libero, contrariamente agli animali e alle cose, di “svellersi” intenzionalmente da esso); riconoscendo la legge naturale si determinano oggettivamente le singole norme che la specificano e la promuovono nel concreto.
Per esemplificare banalmente con un paio di casi semplici: è chiaro che l’uomo “contiene” una finalità naturale intrinseca all’autoconservazione del proprio essere; in vista dell’autoconservazione del proprio essere è necessario che l’uomo si nutra; ergo, per legge naturale è moralmente obbligatorio assumere del cibo, ed è immorale, ad esempio, lasciarsi morire di fame per “endura” come i càtari del XII secolo. Ancora: l’uomo, essendo stato dotato da Dio di una natura intelligente e spirituale, “contiene” una finalizzazione intrinseca a quella Intelligenza e Spiritualità somma che è Dio stesso, Bene infinito e termine ultimo di ogni esistente; fine sommo della vita umana è dunque la contemplazione dei misteri divini; ergo, per legge naturale è moralmente obbligatorio compiere atti di culto religioso, ed è immorale professare l’ateismo, l’indifferentismo, l’idolatria eccetera. Professando queste concezioni erronee, o lasciandosi morire di fame per “endura”, l’uomo si distoglie, si “svelle” intenzionalmente, come dicevo, dai fini (ultimi o prossimi) per cui è stato creato: di qui l’essenza malvagia di tali atti.
Il primo precetto generalissimo della legge naturale, “il male è da evitare e il bene è da perseguire”, è noto a tutti e quasi tautologico; successive specificazioni – anche apparentemente intuitive, come “non si deve stuprare” o “non si devono commettere stragi terroristiche” – trovano già, incredibile ma vero, i loro negatori. Questo accade perché la ragione umana è, a causa non di un difetto di natura ma dell’esistenza del peccato, debole, soggetta all’influenza irrazionale delle passioni, deformabile ad opera del contesto sociale (se uno si mette a frequentare una setta che pratica il sacrificio umano, giunge poco a poco a giustificare “razionalmente” il sacrificio umano) e soprattutto condizionata dal peccato personale e abituale: gli abiti viziosi dell’individuo, inizialmente riconosciuti come tali, conducono, se assecondati, alla negazione della norma morale anche precedentemente professata. Una dinamica simile che oggi tipicamente avviene è, per fare un esempio noto, quella che riguarda i pedofili: inizialmente le persone con tendenze pederastiche sono del tutto consapevoli dell’illiceità morale del mettere in atto i loro propositi con i bambini; ma, indulgendo volta dopo volta alla tentazione, giungono gradualmente a convincersi della bontà, per i bambini stessi, del sesso precoce compiuto con gli adulti. Manzoni esprime, a questo proposito, un concetto a mio modo di vedere acutissimo nelle Osservazioni sulla morale cattolica: l’avversione dell’uomo vizioso, dice, ai precetti che non vuole osservare lo porta a desiderare che essi siano mere finzioni umane; “e la rabbia d’averli violati cambia qualche volta il desiderio in persuasione”.
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Fatte queste premesse, vengo ai peccati in esame: fornicazione e contraccezione. Essi sono oggi talmente diffusi, propagandati, socialmente accettati che è quasi miracoloso che un individuo riesca ad astrarsi dal proprio ambiente sociale giungendo a considerarne razionalmente e obiettivamente l’illiceità. Ad ogni modo è necessario farlo, impiegando con onestà e rigore intellettuale la famosa ragion pratica, ed applicando i principi “finalistici” di cui sopra.
Ordunque. Il corpo umano maschile e il corpo umano femminile sono evidentemente progettati per “combaciare” nell’atto sessuale; similmente avviene per la psicologia maschile e la psicologia femminile, diversamente costituite ma strutturate in vista di un’integrazione e armonizzazione nel rapporto di coppia. Detto per inciso, è tale intrinseca finalizzazione (fisica e psicologica) dell’uomo alla donna e della donna all’uomo ad escludere in radice la liceità degli atti omosessuali: il corpo e la psiche di un uomo non sono progettati per “combaciare” con il corpo e la psiche di un altro uomo, e lo stesso dicasi per due donne. Compiere atti omosessuali, assecondando tendenze che in sé possono essere totalmente incolpevoli, significa dunque ribellarsi all’ordine naturale e al progetto stabilito dal Creatore per noi: di qui la grave immoralità di tali pratiche.
Ora, è evidente che dal punto di vista anche solo strettamente fisiologico la finalità naturale primaria dell’atto sessuale tra un uomo e una donna è la generazione. L’atto sessuale, nella sua dinamica propria, pone in essere le condizioni materiali, biologiche per l’innesco almeno potenziale di una nuova vita e l’inizio di una gravidanza. Ogni atto, dunque, che miri ad escludere intenzionalmente e in modo diretto la possibilità della generazione è, per legge naturale, illecito: con la contraccezione, infatti, l’uomo e la donna si “svellono” – per tornare ad usare questo vocabolo, che a mio parere rende perfettamente l’idea – dalle loro finalità naturali e cioè, ancora una volta, dal progetto di Dio su di loro, negando radicalmente alla Sua Provvidenza la possibilità di trarre dal loro amore un nuovo essere intelligente e spirituale da destinare alla vita eterna.
Proseguiamo nell’analisi dei fini della sessualità. Accanto al fine detto “generativo” dell’atto sessuale è anche riscontrabile, ancora una volta per ragionata osservazione, un fine “unitivo”: nel fare l’amore l’uomo e la donna realizzano la massima espressione naturale della loro comunione di intenti, di vita e di sentimento. Tale espressione coincide anche, per volontà stessa del Creatore, con uno dei massimi piaceri sperimentabili naturalmente dall’essere umano. Il piacere che accompagna l’atto sessuale è – lo sottolineo – cosa buona e desiderabile, ma per legge naturale non può costituire il fine primario e tantomeno unico dell’atto stesso. Chi nell’atto sessuale perseguisse esclusivamente il piacere disconoscerebbe colpevolmente la struttura più intima del gesto che compie, mutilando e distorcendo il fine unitivo e rinnegando totalmente il fine procreativo.
Una sessualità resa volutamente infeconda (contraccezione), una sessualità infeconda per sua essenza (atti omosessuali) o una sessualità solitaria (masturbazione, consumo di pornografia) ignorano, riducono o distorcono – in modi parzialmente diversi – la duplice finalità dell’atto sessuale: sono dunque illecite. In natura, infatti, il fine generativo (primario) e il fine unitivo (che un filosofo novecentesco definiva “co-primario”) dell’atto sessuale si danno unitamente. Chi volesse assolutizzare il fine unitivo a spese del fine generativo (contraccezione eccetera) o viceversa il fine generativo a spese del fine unitivo (fecondazione artificiale, clonazione) si rivolterebbe contro la propria stessa natura umana.
Prima di proseguire nella spiegazione mi lancio in una serie di esempi un po’ paradossali e comici, ma potenzialmente chiarificativi. Se un sasso lanciato da una torre decidesse di non dirigersi verso il basso – come Newton comanda – ma di svolazzare in cielo qualche ora per poi, chessò, andare a sfondare il finestrino di un aereo, compirebbe una serie di atti gravemente immorali. Se un pioppo decidesse di crescere all’incontrario, sviluppando le radici verso l’alto e le fronde sottoterra, si troverebbe in una situazione di disordine morale oggettivo. Lo stesso accadrebbe se un gabbiano volesse avere rapporti sessuali con una balena, o se un leone della savana sposasse l’ideologia alimentare “vegan”; o, per concludere, se l’acqua cominciasse di sua spontanea volontà a bollire a 200 gradi anziché a 100. Se queste cose avvenissero, tutti questi enti si starebbero ribellando alla loro stessa natura: rispettivamente alla natura di “sasso”, di “pioppo”, di “gabbiano”, di “leone” e di “acqua”. Naturalmente non è possibile che queste cose avvengano, perché né il sasso, né il pioppo, né il gabbiano eccetera sono dotati di intelligenza e libero arbitrio: la legge eterna non può che essere da loro infallibilmente rispettata, secondo il “programma” istintuale o meramente fisico e chimico iscritto nella loro natura (natura a sua volta ricevuta dal Creatore). Ora: unico tra tutti gli animali e le cose, l’uomo è invece dotato di intelligenza e libertà; può dunque liberamente tradire la propria natura di uomo, violando la legge eterna. Quando l’uomo decide di disconoscere l’ordine delle finalità insite nella sua natura (ad esempio suicidandosi, o masturbandosi, o professando l’ateismo) si comporta esattamente come i protagonisti dei miei impossibili esempi: con il medesimo arbitrio e la medesima assurdità.
Resta da comprendere perché la fornicazione, cioè il sesso consumato al di fuori o prima del matrimonio, sia per legge di natura una pratica gravemente illecita. Richiamo i due fini dell’atto sessuale: generativo ed unitivo. Li tratterò separatamente. Il perseguimento del fine generativo, innanzitutto, non si esaurisce nella generazione materiale e biologica dei figli: coinvolge, oltre allo svezzamento e ad un lungo accudimento, l’opera lenta e delicata dell’educazione. I genitori sono, per legge naturale, moralmente obbligati a prestare tale opera, in quanto direttamente responsabili della venuta all’esistenza dei loro figli. L’obbligazione morale coinvolge entrambi i genitori congiuntamente: l’educazione e la piena maturazione fisica e psicologica di un bambino e ragazzo esige la presenza di una figura genitoriale maschile (funzione paterna) e di una figura genitoriale femminile (funzione materna). Essendo le funzioni materna e paterna perfettamente complementari dal punto di vista dei compiti materiali e soprattutto del ruolo psicologico, l’assenza di una delle due figure crea svariati e gravi scompensi nella crescita normale ed equilibrata della prole. È dunque moralmente obbligatorio, per legge naturale ovvero perché siano rispettate le finalità intrinseche dell’educazione, che la procreazione avvenga in un contesto contrassegnato dalla presenza e convivenza dei due coniugi e dalla garanzia della stabilità nel tempo del loro rapporto: l’istituzione matrimoniale.
Tutto questo, però, non è sufficiente. Ulteriori elementi di riflessione morale si ottengono prendendo in considerazione il fine unitivo dell’unione tra un uomo e una donna. Il fine unitivo non sarebbe infatti pienamente perseguito se non si rinvenissero, nel rapporto di coppia, i caratteri dell’esclusività, dell’indissolubilità e della pubblica riconoscibilità. Il motivo è che l’unione sentimentale, emotiva, materiale, esistenziale, progettuale tra un uomo e una donna, per essere davvero tale e cioè per distinguersi ad esempio da un’infatuazione o da un compromesso, deve essere totale. Ora: non è possibile il darsi di un’unione totale in presenza della possibilità – anche vaga, lontana, improbabile o implicita – di una successiva o contemporanea unione con altri uomini o donne. La stipulazione di un vero e proprio contratto matrimoniale, accettato liberamente da entrambi i nubendi come perpetuamente impegnativo, è dunque condizione necessaria e previa alla costituzione di una comunione coniugale lecita.
Oltre a ciò, il punto fondamentale consiste nel fatto che, per il darsi di un’autentica finalità unitiva, l’unione carnale presuppone sempre l’unione spirituale. La donazione fisica presuppone, per diritto naturale, una donazione delle persone completa e totale; solo dopo che uomo e donna si sono donati completamente ha senso ed è possibile un’unione fisica a sua volta totale: in caso contrario il fine unitivo non sarebbe raggiunto. Ma la donazione spirituale-personale completa si realizza solo al momento di un consenso vicendevole perpetuamente impegnativo. Le proprietà del matrimonio – già ne ho accennato – sono l’unicità e l’indissolubilità. Il consenso “fa scattare” questa unicità (“io prendo te…”) e questa indissolubilità (“e ti prometto di amarti e onorarti per tutti i giorni della mia vita”). L’unione di queste due proprietà crea l’istituto matrimoniale. Ecco allora che Tizio può donarsi anche fisicamente a Caia, e viceversa: e può farlo proprio perché prima è avvenuta la donazione spirituale-personale, cioè perché c’è stato un matrimonio legittimo.
L’intersezione di questi fondamentali motivi e riflessioni, e di altri motivi e riflessioni possibili, conduce alla designazione del matrimonio eterosessuale, monogamico e indissolubile quale unico contesto deputato, per legge naturale, alla procreazione e – stante anche la già illustrata illiceità della contraccezione – all’esercizio della sessualità. Ergo: la fornicazione è, per legge naturale, gravemente illecita.
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Vorrei offrire a questo punto, per chiarezza e perché quanto detto finora si possa valutare nella sua intrinseca razionalità, una nuova sintesi dello schema di ragionamento generale che ha sorretto tutte le mie argomentazioni: la natura è fine: dunque contrastare il fine intrinseco di un atto significa compiere un atto contro natura; il fine dell’atto sessuale è procreativo ed unitivo: dunque contrastare questi fini, cioè eliminarli o comprimerli, significa compiere un atto contro natura, e quindi immorale.
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Una breve e piuttosto sbrigativa parentesi, ora, sull’imputabilità morale, cioè sul grado di colpevolezza che le pratiche elencate (soprattutto contraccezione e fornicazione) implicano nel concreto individuo che volta per volta le compie. Esiste infatti, in morale, un aspetto oggettivo e un aspetto soggettivo. L’aspetto oggettivo è dato dall’essenza obiettivamente malvagia di un dato comportamento: nel caso di contraccezione e fornicazione (ma anche di masturbazione, adulterio, fecondazione artificiale, aborto, clonazione eccetera), si tratta dal punto di vista oggettivo di atti gravemente illeciti in se stessi (materia grave, contrapposta alla materia lieve), poiché con essi si negano finalità e beni fondamentali ed intrinseci della stessa natura umana. L’aspetto soggettivo è invece dato dalla presenza o meno (e dal grado di questa presenza) di una piena avvertenza e di un deliberato consenso soggettivi nel compimento concreto degli atti in esame.
Ora abbandono l’approccio puramente filosofico, per passare ad un dato proprio della fede come quello di “peccato”: indebolimento o rottura dell’amicizia con Dio. Perché si dia un peccato mortale, cioè un peccato degno della dannazione eterna, occorre la compresenza, in una deliberazione umana, delle tre caratteristiche elencate: materia grave, piena avvertenza, deliberato consenso. In mancanza anche di uno solo di questi requisiti un peccato non è mai mortale. I peccati che stiamo considerando sono in se stessi potenzialmente mortali, in quanto la prima condizione, la gravità dell’atto, sussiste; ma sarà Dio Giudice a valutare, caso singolo per caso singolo, la presenza o meno del “deliberato consenso” e, soprattutto, della “piena avvertenza”.
In parole povere: se un tale è cresciuto in una famiglia e in una società che non solo non gli hanno fornito insegnamenti morali adeguati, ma che gli hanno sistematicamente dato scandalo in determinate materie con atti, discorsi e concezioni sbagliate, quel tale potrebbe senza sua colpa essere del tutto o in parte inconsapevole dell’autentica portata negativa di determinati atti che compie. Questo annullerebbe o quantomeno ridurrebbe la “piena avvertenza”, e di conseguenza la mortalità di quei dati peccati. Sicuramente, dato l’estesissimo analfabetismo morale vigente oggi nelle società occidentali, in materia sessuale alcune volte questa situazione può verificarsi. Fatta questa doverosa precisazione, non sarebbe tuttavia saggio che qualcuno si sentisse troppo sollevato dalle proprie responsabilità: Dio ha posto la legge naturale nel cuore di ogni uomo; al di là dei condizionamenti culturali e sociali, la voce della coscienza non è mai soffocata a tal punto da non poter essere riconosciuta e assecondata. Per fare un esempio, il fatto che in determinate civiltà viga la poligamia non esime i membri di quelle civiltà da una seria riflessione e dal conseguente rigetto di tale istituto, gravemente lesivo della dignità femminile. Stesso discorso per molte abitudini, non solo sessuali, vigenti nella civiltà contemporanea.
Nel caso, infine, che una condotta sessuale “disinvolta” fosse radicata in convinzioni più o meno ateistiche e amoralistiche individualmente professate, tanto meno quel dato individuo avrebbe “di che stare tranquillo” circa il suo destino eterno: l’ateismo tematico è a sua volta e in se stesso un grave peccato, passibile – in caso naturalmente di impenitenza – della dannazione eterna.
Prima di concludere, specifico che ho condotto una trattazione semplificata, ridotta e soprattutto parziale: ho infatti evitato intenzionalmente, salvo i riferimenti finali alle nozioni di peccato e di dannazione, gli argomenti di fede e di Rivelazione – e dunque tutte le considerazioni relative all’ordine soprannaturale e cristiano, che illuminerebbero di luce ben maggiore quanto sostenuto – per limitarmi a contenuti di per sé accessibili alla retta ragione di ogni uomo. Gli antichi stoici, per fare solo un esempio emblematico, sottoscriverebbero il mio piccolo contributo quasi parola per parola, eccettuati appunto i riferimenti finali.
(1) Sottolineo, su istanza di Tommaso Scandroglio al cui giudizio qualificato ho sottoposto questo scritto, che la struttura finalistica delle realtà naturali, e con ciò la piena validità e cogenza morale della legge naturale, è riconoscibile dal punto di vista filosofico-razionale anche prescindendo totalmente dall’esistenza di Dio. “La legge naturale – scrive infatti Scandroglio – ha due fonti: la natura umana e Dio. Fonte prossima è la natura umana, fonte remota è Dio. È come se la natura umana fosse un laghetto di montagna che riceve l’acqua dai ghiacciai, cioè Dio. Io posso dissetarmi (= posso seguire validamente i precetti della legge naturale) anche se non so da dove viene quell’acqua, anche se non riconosco l’esistenza di Dio. Si parla in questo caso di non autonomia ontologica della legge naturale, dato che la legge naturale è inscritta nella natura dell’uomo che è stata però creata così da Dio; e di autonomia psicologica della legge naturale, dato che posso comportarmi secondo morale naturale anche se sono ateo”. Tirando le fila: anche un ateo, sulla base dell’osservazione ragionata della propria natura umana, può e deve riconoscere razionalmente l’esistenza della legge morale naturale e l’oggettiva obbligatorietà di ogni suo precetto. Quanto Scandroglio puntualizza, peraltro, non toglie il fatto che l’esistenza di Dio sia a sua volta un dato di ragione (non di fede) che l’ateo “filosofo”, se intellettualmente onesto, ancora può e deve attingere.
Ringrazio Tommaso per molti altri suggerimenti che mi hanno permesso di irrobustire le argomentazioni esposte.
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