Diventa socio
Sostieni la nostra attivitą
Contatti
Hamas è Gaza e Gaza è Hamas? La domanda non è di poco conto perché ogni considerazione su questa nuova tappa del dramma israelo-palestinese dipende dalla risposta.
Hamas è un’organizzazione certamente nemica di Israele, ma si può dire altrettanto del milione e mezzo di persone che popolano quell’infernale territorio (le definizioni si sprecano, come si è visto in questi giorni, e al di là delle polemiche nominalistiche ci sono pochi dubbi sul fatto che Gaza compaia assieme alla Somalia e ad Haiti in testa alla classifica dei luoghi peggiori del pianeta) da Hamas governato? Molte di quelle persone hanno di sicuro sentimenti ostili contro lo Stato e il popolo ebraici, molte sono senza dubbio legate al partito terrorista e fondamentalista, molte beneficiano della sua capillare rete di assistenza e la preferiscono al caotico e corrotto sistema dei clan di Al Fatah; ma molte altre subiscono la situazione e vorrebbero solo vivere altrove, non avendo in “patria” altra scelta che non la miseria e la sottomissione all’islamismo. Sappiamo bene chi sono i militanti di Hamas, ma non quanti sono. Dicono che si mimetizzano tra la gente e che risulta molto difficile distinguere tra la mamma e la miliziana, il disoccupato e il guerrigliero, l’adolescente e il kamikaze. Ma sforziamoci di immaginare, perché un nucleo identificabile, per quanto ampio e amplissimo, ci deve pur essere: diecimila, trentamila, cinquantamila, centomila, quale è un numero ragionevole? Una volta stimato, e lo avranno certamente fatto i servizi di informazione israeliani, cosa fare di tutti coloro che lo eccedono? Che proposta fare loro e chi la dovrebbe fare: Stato di Israele, Onu, Unione Europea, Lega Araba, Egitto, Giordania, Iran, Autorità palestinese -che peraltro a Gaza non possiede nulla del nome di cui si fregia? Nella “guerra” attuale appare invece una tema solo: Israele contro Hamas e questo “contro” coincide con Gaza. Non è chiaro quale sia l’obbiettivo israeliano, al di là di quanto dichiarato ufficialmente: garantire la sicurezza dei territori israeliani dal famigerato lancio dei razzi (che dal 2001 hanno provocato venti morti) e bloccare una volta per sempre il traffico d’armi tra Gaza e il resto del mondo. La ragione di questa non chiarezza è nella tanto sottolineata sproporzione tra i mezzi utilizzati e appunto il raggiungimento degli obbiettivi: bombardamenti aerei e offensiva di terra che hanno causato centinaia di vittime, tra cui moltissimi “civili”, cioè persone che vivono in una regione governata da Hamas ma non per questo sono ascrivibili alle forze di Hamas. Ci si domanda se per il traffico d’armi sarebbe bastato far saltare le gallerie che da Rafah si dipartono verso l’Egitto assieme a un più serrato controllo navale e per il lancio dei missili bombardamenti un po’ più mirati di quelli attuati. Forse l’obbiettivo indiretto è l’Iran, forse il recupero di fiducia nell’opzione militare messa a dura prova con il pratico fallimento visto in Libano due estati fa, forse “fare qualcosa” per uscire da uno stallo infinito, forse annientare Hamas militante per militante (e sono i commentatori americani a ricordare che la nascita dell’organizzazione, venti anni fa, fu “ben accolta” da Israele in funzione anti-Olp – non troppo diversamente da quanto gli Stati Uniti fecero nei confronti dei mujahiddin afgani in funzione antisovietica). Si capirà più avanti se l’operazione abbia questi o altri scopi o anche nessuno scopo, nel senso che “prima si fa la guerra e la politica si fa poi a seconda di quanto accaduto sul campo”. Ma il fervore con cui in questi giorni da tante parti si dice che la cosa più importante è il dopoguerra, è fuorviante e fuori luogo. La cosa più importante è la realtà di una guerra che vediamo dispiegarsi giorno dopo giorno, ora dopo ora. E che fa coincidere Hamas con Gaza e Gaza con Hamas.
Roberto Fontolan, dirigente Avsi, da sussidiario.net
Il decalogo di padre Samir, consulente del papa per il Medio Oriente, per la pace, all'indomani della guerra in Libano.
|
Creare uno stato palestinese basato sulle frontiere internazionali anteriori alla guerra del 1967; dovranno essere fatte piccole modifiche, purché di comune accordo fra Israele e Palestina.
Il “diritto di ritorno” dei palestinesi, riconosciuto dall’ONU nella risoluzione 194 dell’assemblea generale, dovrebbe essere riconosciuto per principio, anche a costo di discuterne l’applicazione, fra il ritorno di un numero limitato di palestinesi e un compenso per gli altri garantito dalla comunità internazionale.
Le colonie israeliane potrebbero rimanere per un periodo limitato (per esempio, una decina d’anni) sotto la sovranità israeliana. Successivamente, i coloni dovranno decidere: o ritornare in Israele, o restare sotto la sovranità palestinese, come hanno fatto un tempo i 160.000 palestinesi che hanno deciso di vivere sotto la sovranità israeliana.
Riconoscimento ufficiale e scambio di ambasciatori: ciascuno stato del Medio Oriente (compresi Turchia, Iran, Iraq, Siria, ecc.) deve riconoscere ufficialmente come definitive le frontiere degli altri stati, e impegnarsi ad accreditare ambasciatori in questi stati.
Istituire una forza internazionale “robusta” laddove la pace non sia stata ancora pienamente acquisita, per controllare anche il traffico delle armi; in particolare tra Israele e Palestina, Israele e Libano, Libano e Siria, Siria e Iraq, Iran e Iraq, Turchia e Iraq. Questa forza dovrebbe essere posta su entrambi i lati delle frontiere internazionali.
Aiutare gli stati militarmente deboli a costituire un esercito nazionale sufficientemente forte per assicurare da solo la sicurezza e quindi smilitarizzare tutti i gruppi: milizie o coloni. Allo stesso tempo, operare per la riduzione degli investimenti militari nel Medio Oriente e per controllare gli stati militarmente potenti.
Liberare tutti i prigionieri degli altri paesi detenuti in ciascuno stato, mediante accordi di scambio; in particolare tra Israele e Palestina, Israele e Libano, Libano e Siria.
Creare una commissione internazionale per risolvere in modo equo il problema dell’acqua nella regione, condizione essenziale per lo sviluppo e causa frequente di conflitti.
Creare una commissione internazionale, che comprenda Israele e Palestina, per la città di Gerusalemme, che i due stati desiderano legittimamente assumere come capitale. Si tratta qui di garantire la sicurezza, la libertà di movimento e il rispetto delle frontiere internazionali all’interno della città; ma anche la sacralità, la salvaguardia e l’accessibilità dei Luoghi Santi che sono un patrimonio universale e devono essere protetti da accordi internazionali.
Lanciare il progetto di una Unione Medio-Orientale (UMO) tra tutti gli stati della regione, compresi ovviamente Israele, Palestina, Giordania, Egitto, Arabia Saudita, Turchia, Iran, ecc, se sono decisi a vivere in pace tutti insieme. Porne le fondamenta giuridiche, economiche, politiche, militari e culturali; definire le condizioni per esserne membri; organizzare incontri tra gli stati della regione; proporre un calendario, ecc. Firmare accordi di pace bilaterali o multilaterali per lunghi periodi (da 10 a 20 anni). Per molti punti si potrà approfittare dell’esperienza dell’Unione Europea.
UN’UTOPIA DA REALIZZARE
Perché un tale progetto possa iniziare a realizzarsi occorre una rivoluzione mentale. Da più di mezzo secolo i responsabili politici d’Israele e dei paesi arabi non hanno proposto che la violenza ai loro popoli come unica soluzione ai problemi, convincendoli che il diritto e la ragione erano con loro. Occorrerà un lungo lavoro interiore e molto coraggio per cambiare discorso. La guerra non richiede coraggio, la pace sì!
La guerra che si è svolta sotto i nostri occhi, con il suo strascico disumano di bestialità e sofferenze, ha consentito a milioni di persone, di tutte le tendenze, di capire che la violenza è inutile, che il Medio Oriente non sarà pacificato dalla guerra. Questa scoperta è forse l’unico bene emerso da questa tragedia, il cui prezzo elevato è stato pagato soprattutto dal popolo libanese, che aveva appena iniziato la ricostruzione.
Se da questa tragedia potesse nascere un progetto serio di pace definitiva, allora questo martirio non sarà stato vano! “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Romani 8, 28), scriveva un ebreo orientale all’alba del cristianesimo, Paolo di Tarso. E un figlio di Annaba (oggi in Algeria), non meno celebre, chiamato Agostino, commentava questo pensiero aggiungendo due parole: “etiam peccata” (De Doctrina Christiana 3, 23, 33), anche i peccati. Noi diciamo: “anche la guerra”. Perché no?
Molto prima di Paolo e Agostino, un vecchio ebreo ispirato, Isaia, aveva proclamato la sua utopia:
“Il lupo abiterà con l'agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. La vacca pascolerà con l'orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente. Non si farà né male né danno su tutto il mio monte santo, poiché la conoscenza di Yahvé riempirà la terra, come le acque coprono il fondo del mare. In quel giorno, verso la radice di Iesse, issata come vessillo dei popoli, si volgeranno premurose le nazioni, e la sua residenza sarà gloriosa. In quel giorno il Signore stenderà di nuovo la mano per riscattare il residuo del suo popolo rimasto in Assiria e in Egitto, a Patros e in Etiopia, a Elam, a Scinear e a Camat, e nelle isole del mare. Egli alzerà un vessillo verso le nazioni, raccoglierà gli esuli d'Israele, e radunerà i dispersi di Giuda dai quattro canti della terra” (Isaia 11, 6-12).
L’utopia, questo paese che non esiste da “nessuna parte”, potrebbe domani realizzarsi se palestinesi e israeliani, libanesi e siriani, ebrei e musulmani, insomma noi tutti volessimo credere all’impossibile. I libanesi ci credono ancora? Il mondo ci crede ancora? Il realismo consiste nell’avere una visione utopistica precisamente per poterla realizzare.
Questo paese che non esiste è il paese del futuro. La “terra promessa” non cade dal cielo, si costruisce con la fatica e il cuore di coloro che cercano e costruiscono la pace. La “Gerusalemme celeste” dell’Apocalisse o esiste sulla terra o non esiste affatto. Quella Gerusalemme di cui il salmista canta: “In essa ogni uomo è nato”, aggiungendo: “l’Altissimo la tiene salda. Sono in te tutte le mie sorgenti!” (Salmo 87).
Allora tutti i popoli potranno cantare con Davide:
“Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: ‘Su di te sia pace!’. Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene” (Salmo 122, 6-9).
Allora si realizzeranno le parole dell’Apocalisse (21, 2-4):
“Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: ‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate’”.
Barabra Spinelli su La Stampa del 11/1/2009
Non molto tempo prima dell’offensiva contro Gaza, il premier israeliano Ehud Olmert pose a se stesso e al proprio popolo una domanda gelida, senza precedenti. Una domanda non concernente i valori e la morale, ma la pura utilità. Era il 29 settembre, e in un’intervista a Yedioth Ahronoth denunciò quarant’anni di cecità: quella d’Israele e la propria. Disse che era arrivato il momento, non rinviabile, in cui lo Stato doveva mutare natura e scegliere come vivere e sopravvivere: se guerreggiando in permanenza, o cercando la pace coi vicini. Non negò le colpe di Hamas e di molti Stati arabi, ma invitò i connazionali a concentrarsi sul «proprio fardello di colpa». Il fardello consisteva negli automatismi del pensiero militarizzato: «Gli sforzi di un primo ministro devono puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?». Aggiunse che personalmente non ne poteva più di leggere i rapporti dei propri generali: «Possibile che non abbiano imparato assolutamente nulla? Per loro esistono solo i carri armati e la terra, il controllo dei territori e i territori controllati, la conquista di questa e quella collina. Tutte cose senza valore». L’unico valore da ritrovare era la pace, perseguibile a un’unica condizione: liquidando le colonie, restituendo «quasi tutti se non tutti i territori», dando ai palestinesi «l’equivalente di quel che Israele terrà per sé». Alla Siria andava reso il Golan, ai palestinesi parte di Gerusalemme. Così parlò il primo ministro d’Israele, non un preconcetto nemico dello Stato ebraico e del suo popolo. Da queste parole sembra passato un tempo enorme e oggi non sono che fumo e fame di vento, come nel Qohèlet. Allora l’opportunità era imperativa, vicina. Nemmeno tre mesi dopo, la guerra è decretata «senza alternative». Allora Olmert pareva ascoltare gli intellettuali contrari alle soluzioni belliche: da Tom Segev a Gideon Levy a Abraham Yehoshua che tra i primi, su La Stampa, ha invocato negli ultimi giorni la tregua. Tre mesi dopo il pensiero militarizzato si riaccende e il dissenso si dirada. Non restano che Segev, Gideon Levy, Yossi Sarid. Perfino Yehoshua considera vana una reazione proporzionata ai missili di Hamas «perché la capacità di sopportazione e resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani». La domanda gelida di Olmert, a settembre, era la seguente e resta valida: «Che faremo, dopo aver vinto una guerra? Pagheremo prezzi pesanti e dopo averli pagati dovremo dire all’avversario: cominciamo un negoziato». Secondo Olmert, Israele era a un bivio: «Per quarant’anni abbiamo rifiutato di guardare la realtà con occhi aperti (...). Abbiamo perso il senso delle proporzioni». Non poche cose s’intuiscono, anche se ai giornalisti è vietato il teatro di guerra. Quel paesaggio che da giorni vediamo sugli schermi, alle spalle dei reporter, è praticamente tutta Gaza: non più di 40 chilometri di lunghezza, 9,7 chilometri di profondità. Con 360 chilometri quadrati, Gaza è più piccola di Roma e abitata da 1,5 milioni di palestinesi. Inevitabile che in un lembo sì minuscolo i civili abbattuti siano tanti (metà degli uccisi, secondo alcuni). Inevitabile chiedersi se i governanti israeliani non persistano nella cecità, quando negano che la loro guerra sia contro i civili e un disastro umanitario. Israele ha serie ragioni da accampare: i missili di Hamas sulle città del Sud, da anni e malgrado il ritiro unilaterale voluto da Sharon nel 2005, generano angoscia e collera indicibile, anche se i morti non sono molti. Ma ci sono cose non dette, in chi giustamente s’indigna: cose che questi ultimi nascondono a se stessi, dure da ammettere, non vere. Non è vero, innanzitutto, che lo Stato israeliano reagisca senza voler penalizzare i civili. Bersagliando i luoghi da cui partono i missili di Hamas, esso sa che subito Hamas e i missili si sposteranno altrove, e che in quei luoghi non resteranno che i civili: vecchi, donne, bambini. Lo dicono essi stessi, ai giornalisti: «Quando parte un missile vicino alle nostre case, scuole, moschee, sappiamo che non Hamas sarà colpito, ma noi». La domanda è tremenda: come spiegare agli abitanti di Gaza la differenza con rappresaglie che, come a Marzabotto, sacrificarono centinaia di civili al posto di introvabili partigiani? Secondo: non è vero che non esistessero alternative all’attacco aereo e terrestre. Se la tregua con Hamas non ha funzionato, è perché mai iniziò veramente. Perché i coloni avevano evacuato la Striscia ma Israele manteneva il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Il cessate il fuoco negoziato a giugno prevedeva la fine del lancio di missili palestinesi ma anche la rimozione del blocco di Gaza, imputabile a Israele. I missili son diminuiti, anche se non scomparsi: ne cadevano a centinaia tra maggio e giugno, ne son caduti meno di 20 nei quattro mesi successivi. Nulla invece è accaduto per il blocco. Questo è il «fardello di colpe» israeliane, non piccolo, e ancora una volta la geografia aiuta a capire. Dice il governo d’Israele che dal 2005 Gaza appartiene ai palestinesi, ma che non è servito a nulla. È falso anche questo, perché Gaza essendo priva di autonomia non è messa alla prova. Non le manca solo il controllo dell’aria, del mare. Ci sono sei punti di passaggio che dovrebbero consentire il transito di cibo, acqua, elettricità, uomini (lungo la frontiera con Israele il valico Erez a Nord, i valichi Nahal Oz, Karni, Kissufim, Sufa a Est; ai confini con l’Egitto il valico Rafah) e tutti sono chiusi. Per una briciola come Gaza è impossibile vivere senza rapporti coll’esterno, ed essi sono bloccati da quando Hamas ha vinto le elezioni e rotto con Fatah. Anche in tal caso un’intera popolazione paga per i politici, e quando il cardinale Martino parla di campo di concentramento (altri parlano di prigione a cielo aperto) non s’allontana dai fatti. I tunnel servono a contrabbandare armi, è vero. Ma anche a trasportare cibo, medicine, pezzi industriali di ricambio. Il disastro umanitario a Gaza non comincia oggi. E quel milione e mezzo è lì perché cacciatovi dall’esercito israeliano nel ’48. La punizione è parola chiave, in numerose guerre israeliane. Ma la punizione en masse dei civili non punisce in realtà nessuno, e accresce ire omicide nei contemporanei e nei discendenti. È una sorta di vendetta esibita. È guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi, scrive Yossi Sarid (Haaretz, 9 gennaio). È non solo feroce, ma vana. I missili di Hamas continuano a colpire e hanno addirittura allungato la gittata: ormai colpiscono Beer Sheva (36 chilometri dalla centrale atomica di Dimona) e la base di Tel Nof (27 chilometri da Tel Aviv). Gaza e Cisgiordania sono più che mai interdipendenti. Quel che accade in Cisgiordania ha pesato amaramente su Gaza, e pesa ancora. In questo caso sì: non c’è alternativa alla decolonizzazione e al ritiro. Anche Israele, come tanti imperi, deve passare di qui. Deve smettere di separare i teatri d’azione: di edificare nuove colonie ogni volta che negozia o ogni volta che guerreggia su altri fronti, in Libano o a Gaza. È quello che teme anche oggi Dror Etkes, coordinatore dell’associazione israeliana Yesh Din (volontari per i diritti umani): «Posso certificare che proprio in queste ore stanno spianando terre in Cisgiordania per una nuova colonia presso Etz Efraim, e per un avamposto presso Kedumim». In un libro di Idith Zertal e Akiva Eldar (Lords of the Land, New York 2007) è scritto che la pace è irraggiungibile se non si riconosce che ogni singola colonia, e non solo i cosiddetti avamposti illegali, viola la legge internazionale; se non ci si spoglia dell’ossessione delle armi e delle terre idolatrate, che Olmert stesso ha denunciato poche settimane fa. |
|