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Incontro con P. Mertens a Trento.
Di Libertą e Persona - 09/01/2009 - Libertą e Persona - 2118 visite - 0 commenti

CHI È L'UOMO PERCHÉ IO LO CURI?

 La società, la medicina, i malati "inguaribili"

Incontro con Pierre Mertens, presidente della International Federation For Spina Bifida & Hydrocephalus

Sabato 17 gennaio 2009 ore 17 Istituto Salesiani, entrata con parcheggio da via Brigata Acqui, Trento.

Pierre Mertens è nato ad Anversa nel 1953, lavora come artista visuale e psicoterapista. Nel ’78 è nata Liesje, la sua prima figlia affetta da spina bifida e idrocefalo; un anno dopo Pierre e sua moglie hanno dato inizio all’Associazione belga per Idrocefalo e Spina bifida. Nel 1995 è stato eletto presidente dell’International Federation for Spina Bifida and Hydrocephalus.

 Nel 2007 Mertens ha pubblicato «Liesje, mia figlia. Parole per la nascita e la morte di una bambina speciale» (Cantagalli). Il libro è la storia di una bambina sopravvissuta 11 anni contro il parere dei medici, per i quali non valeva la pena curarla visto il suo handicap grave. Dalla morte di Liesje Pierre Mertens si è dedicato con impegno crescente alla tutela dei bambini «diversi» perché «inguaribili».

 

Di seguito una intervista a Mertens, a cura di Lorenzo Fazzini

 

La prassi diagnosi prenatale tradisce uno scivolamento etico per cui “si accetta già l’idea che il concepito può essere soppresso”. Mentre se medici e genitori si uniscono in un patto di solidarietà con, anche un figlio disabile può essere accolto. Esempio è l’Australia dove l’associazione per i malati di spina bifida lavora insieme all’ordine dei medici: oltre il 50% dei genitori che attendono un figlio con una malattia genetica sceglie di accogliere il concepito e di non abortire.

Pierre Mertens, presidente della Federazione internazionale sulla Spina Bifida e le persone idrocefale, parla a tutto campo sui rischi di una nuova eugenetica sanitaria basata sul potere “immorale” di sopprimere i concepiti “con problemi genetici”. Lo abbiamo intervistato a margine di un recente intervento a Padova, dove ha parlato su invito dell’associazione universitaria A. Rosmini.

Oggi la diagnosi prenatale viene sempre più usata per capire se “scartare” i concepiti che hanno disfunzioni genetiche. Cosa pensa di questo fenomeno?

Attualmente l’80% delle diagnosi prenatali effettuate durante la gravidanza vengono fatte per individuare handicap; in tutta Europa l’80% dei concepiti cui è diagnostica la malattia della spina bifida vengono abortiti. Agendo in questo modo abbiamo confuso due piani: vogliamo la prevenzione dall’handicap ma lo facciamo eliminando i concepiti. E questo avviene anche dopo la 24° settimana quando nel grembo materno il feto è ben visibile. La procedura viene descritta anche da riviste scientifiche: con un’iniezione si arriva al cuore del concepito e lo si uccide.

Qual è il nodo “culturale” della diagnosi prenatale?

I medici dicono ai genitori: c’è un problema al vostro bambino, potete scegliere. Ma le informazioni mediche fornite sull’handicap sono sempre di segno negativo e spesso false: su un concepito affetto da spina bifida si afferma che la sua esistenza non sarà vivibile, che soffrirà sempre, non potrà vivere a lungo, non riconoscerà i genitori né potrà sposarsi, … Io conosco ottantenni affetti da spina bifida, sono andati all’università e si sono laureati; c’è stato anche un ministro con questa malattia. Il problema deriva dalla definizione di “qualità della vita”.

Perché?

Le rispondo con un esempio: nel 2000, 270 persone con la spina bifida si sono riunite a Tolosa, in Francia; al centro del convegno c’era la domanda: “Cosa pensate della vostra qualità di vita?”. Nella risoluzione finale hanno dichiarato che il loro handicap non è una ragione per praticare l’aborto nei confronti di un concepito cui viene diagnosticato lo stesso problema. È normale che tutti i genitori vogliano che i loro figli siano in condizione normali: nessuno desidera un figlio con problemi. Ma il nodo è che, con la diagnosi prenatale, si assegna ai genitori qualcosa di immorale: il potere di uccidere il proprio figlio. Il fatto stesso di dare la possibilità di scegliere non è etico.

Lei critica più il deficit di formazione dell’ambiente medico che i genitori …

Sì. Basti pensare che nei Paesi dove vengono date informazioni corrette ai genitori e si dà loro una buona spiegazione sulla malattia, il numero degli aborti cala. Noi, come Federazione internazionale, abbiamo un progetto in corso in Australia con i medici locali; quando ad un concepito viene diagnosticata la spina bifida, i genitori sono guidati dai medici a capire questa malattia; anche l’associazione dei malati si fa loro accanto con la disponibilità ad un supporto dicendo: Noi siamo con voi. La maggioranza dei genitori decide di accogliere il concepito.

Quindi il nodo resta l’ambito medico …

Certo, perché ha preso una direzione in cui pensa di poter dominare la vita, mentre la medicina deve aiutare a vivere e accettare la morte. Vivere e morire sono le cose più naturali del mondo, così come i figli handicappati. Per un bambino di 3 anni che resta paralizzato in un incidente si fa tutto, per un concepito con la spina bifida si pensa subito all’aborto.

In Italia ha suscitato scalpore l’aborto per un concepito affetto dalla sindrome di Klinefelter, malattia genetica curabile.

Bisogna fare di tutto per andare verso una società che accetta tutte le diversità. E invece, con il protocollo di Groningen, si dice che i bambini che non potranno avere una qualità di vita “accettabile” possono essere soppressi. Ma un professore della Sophia University di Rotterdam, T. H. Rob de Jong, ha pubblicato nel 2007 sulla rivista scientifica “Childs Nervous System” un articolo che smentisce il Protocollo. De Jong sostiene che “la sofferenza senza speranza” non è una categoria “applicabile ai neonati con meningomielocele (patologia simile alla spina bifida, ndr) e che non c’è ragione che si adottino interventi che attivamente pongono fine alla vita di questi neonati”. È un problema sia morale che medico: oltre 200 neurologi di tutto il mondo si sono pronunciati a favore di de Jong affermando che il protocollo di Groningen è sbagliato.

Dalla sua esperienza di padre di una bimba affetta da spina bifida, cosa si sente di dire a quanti pensano che un bambino con una malattia genetica non avrà una vita “di sufficiente qualità”?

Quando mia figlia è nata, la diagnosi prenatale non esisteva ancora e non sapevamo che fosse malata. Dopo la sua nascita, il medico in servizio non voleva operarla, dicendo che non sarebbe sopravvissuta fino al giorno dopo; dopo 3 mesi l’abbiamo portata a casa pensando di farla morire da noi. Poi, un altro dottore ha deciso di operarla; Liesje è andata a scuola ed è stata una bambina molto attiva. Avendo conosciuto tantissime persone con la spina bifida, posso dire con consapevolezza che quando si accetta la diagnosi prenatale si ammette l’idea di eliminare il concepito. In Belgio, però, nonostante la grande pressione sociale che spinge per la diagnosi, sta iniziando a farsi strada – in forma minoritaria – l’idea che non è giusto fare i test per non accettare questa visione.

Lei non ha mai fatto riferimenti religiosi nelle sue argomentazioni. Tanti, almeno in Italia, accusano i sostenitori della difesa della vita di “integralismo religioso”. In base a quali convinzioni porta avanti le sue ragioni?

I diritti dell’uomo sono un riferimento accettabile per difendere la vita contro l’eutanasia e l’aborto: non c’è bisogno di alcun riferimento religioso per far valere questa posizione. Nel maggio 2006, a Roma, l’European Disability Forum ha prodotto una risoluzione in cui si afferma che l’handicap non può mai essere usata come motivazione dell’aborto o dell’eutanasia infantile. E il Forum è un organismo pluralista!


Lorenzo Fazzini


“C’è un problema con suo figlio. È una bambina, ma non vivrà. La situazione è critica. Uno dei polmoni non si è aperto. Ha solo una debole speranza di sopravvivenza. Lei farebbe meglio a pensare ad altri figli”.

Era un epitaffio quello che Pierre Mertens sentì su sua figlia Liesje dal ginecologo che la fece nascere, il 27 aprile 1977. “Spina bifida” fu la diagnosi secca e impietosa che il medico fornì a Pierre e a sua moglie Mol. Quasi un’anticipazione della prassi che oggi, dalla diagnosi prenatale, porta all’aborto terapeutico: “Queste parole sono male assortite. Cosa c’è di terapeutico? – si chiede Mertens -. In questo caso, chi può guarire e da che cosa? I genitori? Guariscono dal figlio che aspettano? Aspettare un figlio handicappato sarebbe quindi una malattia da cui si può guarire? O è il bambino che deve nascere che guarisce dal suo handicap, morendo?”.

Dal 1995 Mertens è presidente della International Federation For Spina Bifida & Hydrocephalus. La storia della sua famiglia e della figlia disabile, deceduta all’età di 11 anni, “ciò che di meglio ho avuto dalla vita”, è contenuto in Liesje, mia figlia. Parole per la nascita e la orte di una bambina speciale, edito nel 2007 da Cantagalli.


L. F.



 
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