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“Non il cosmo per te, ma tu per il cosmo”: così scrive Platone, quattrocento anni prima di Cristo, nelle sue Leggi. Nella visione panteista, greca, orientale, o qualsiasi essa sia, l’uomo è una parte: una parte dell’universo, e una parte dell’Umanità. Nulla più. Una porzione impersonale di qualcosa d’altro. Stessa ottica per il materialismo, da Democrito al monismo evoluzionistico. Nell’Ottocento, un poeta come Giacomo Leopardi, continuamente tentato dal materialismo, farà dire dalla Natura ad un immaginario islandese errante: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?” E la Natura continua: “E finalmente, se anche mi avvenisse di estirpare tutta la vostra specie, io non me ne avvederei”. Alla celebre domanda del salmo, “Cosa è l’uomo perché tu te ne curi?”, panteisti e materialisti risponderebbero, all’unisono: nulla, un atomo nello spazio, un attimo nel tempo, un punto sospeso tra il prima e il poi; una creatura incarcerata nell’Universo, sottomessa al Caso o alla Necessità. Nient’altro. L’annuncio cristiano ribalta completamente la prospettiva: l’uomo, il singolo uomo, è più importante dell’universo, sia perché è creato a immagine e somiglianza di Dio, sia perché Dio stesso ha deciso di prendere un corpo, e guardare con i nostri occhi, sentire con le nostre orecchie, parlare con la nostra bocca. Non io per il cosmo, ma il cosmo per me, per te, per noi! L’Eternità si è calata nel tempo e ha dato ad esso e all’unica creatura che nel tempo vive, aspirando all’infinito, la centralità che gli appartiene. Questo è l’umanesimo. In un bel libro intitolato “A sua immagine e somiglianza” (Lindau), il cardinal Schoenborn riporta un pensiero di Giovanni Crisostomo: “è per lui (l’uomo, ndr) che esistono il cielo e la terra, il mare e le creazione nella sua interezza”. Chiosa il cardinale: “un mondo interamente rivolto all’uomo, un uomo interamente rivolto a Dio: questi due aspetti sono inseparabili, e tutta l’esaltazione della dignità dell’uomo, vertice della creazione, ha senso solo in vista della sottomissione dell’uomo a Dio”. Ancora: “solo la coscienza della propria condizione di creatura può salvaguardare l’uomo sia da una esaltazione inappropriata sia da uno svilimento pessimista della propria dignità”. A Sua immagine e somiglianza: di qui la nostra dignità, di qui tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo che abbiano un senso, e che cioè riconoscano l’alterità dell’uomo rispetto alle piante, alle bestie e alle pietre; alle formiche, alle api, e alle rane; e a Dio. Dio stesso, proclamavano i primi cristiani, “è venuto ad abitare in mezzo a noi”, per essere l’ “Emmanuele, il Dio con noi”. Questa è la buona novella, dinanzi a cui alcuni pagani si stracciano le vesti.
Mi sembra molto significativo ricordare quello che scriveva il polemista romano Celso, nel II secolo, nel suo “Discorso vero contro i cristiani”, per comprenderne meglio la novità. Che Dio si sia incarnato, scrive Celso, è una assurdità: perché l’umanità dovrebbe essere tanto superiore alle api, alle formiche, agli elefanti, così da essere amata, in ogni singolo uomo, di un amore tanto grande? Celso paragona i cristiani ad un concilio di rane, ad un assemblea di vermi che borbottano fastidiosamente: “Per il nostro bene il mondo è stato creato”. E che senso ha l’idea di una Provvidenza, continua Celso, che ci ama e che veglia su di noi? E chi sono coloro che si convertono al cristianesimo in questi primi secoli, in cui onorare Cristo può significare la morte? “Schiavi”, risponde Celso, “qualche sciocca donnetta”, “lavoranti di lana, ciabattini e lavandai”: è lo stesso Dio dei cristiani a innalzare i semplici, gli ignoranti, e a scegliersi come madre una donna neppure di “condizione ricca o regale”, ripete Celso con indignazione! Ma che Dio mai sarà un Dio che si sceglie, tra gli uomini, i peggiori? “Ma i cristiani sono volgari e rozzi, volgare è la loro dottrina e per la sua volgarità e per la sua assoluta incapacità ai ragionamenti ha conquistato le sole persone volgari…vogliono e possono convertire solo gli sciocchi, gli ignobili, gli insensati, gli schiavi, le donnette, i ragazzini...”! “Chi è peccatore, chi è ottuso, chi è puerile, e, per farla breve, chi è un disgraziato, il regno di Dio lo accoglierà!”. Cos’erano, infatti, per gli antichi, gli schiavi, le donnette, i bambini? Quello che sono oggi in India i neonati, le donne, i sotto casta che si convertono al Vangelo e vengono uccisi e perseguitati, perché distruggono la società induista, fondata sulla schiavitù delle caste, della reincarnazione e del Fato! Al cristianesimo si convertirono in tanti, ricorda Gustave Bardy, perché Cristo fu visto come il liberatore. Ci ha infatti liberato dalla schiavitù, istituzione propria di tutte le civiltà antiche. Aristotele, Catone, e tanti altri predicavano l’inferiorità degli schiavi, “nelle assemblee cristiane, al contrario, gli schiavi si installavano accanto ai loro padroni, partecipavano accanto ad essi e come essi alla stessa Eucaristia e ricevevano gli stessi favori spirituali”, sentendosi ugualmente figli di Dio Ma soprattutto ci ha liberati dalla schiavitù del Fato, degli astri, degli dei onnipresenti, facendoci passare dal regno della Necessità a quello della Provvidenza e della libertà: per “la nascita del Salvatore”, scriveva Clemente Alessandrino, “noi non siamo più condotti dalla Necessità e congediamo gli astri che fanno la legge”. Ci ha liberato, soprattutto, dalla schiavitù del peccato, della morte, del non senso della vita di ognuno di noi. Chi? Un bambino.