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“Il relativismo, in politica, è l’opposto dell’assolutismo”. Leggevo questa frase, domenica, sul Corriere della sera, in riferimento ai valori cristiani in politica, e confesso che non riuscivo a capire. Eppure è un’idea diffusa: chi crede nella Verità, sarebbe, ipso facto, integralista e intollerante nella vita quotidiana, e assolutista in politica. I teorici del dubbio assoluto, i giuspositivisti, i relativisti, sarebbero invece, automaticamente, persone tolleranti, aperte, comprensive. A me sembra che ragione e storia contraddicano tale pregiudizio. Chi crede nella Verità trascendente, riconosce, almeno in teoria, la sua sudditanza rispetto ad essa; comprende che il suo potere viene “dall’alto”: non è suo, e deve essere esercitato con dei precisi limiti. L’esistenza della Verità assoluta rende l’uomo che vi si riferisce, conscio della sua relatività: relativo, appunto ad essa! Al contrario colui che non riconosce alcuna Verità, prima, sopra e dopo di lui, non può che elevare se stesso a criterio di giudizio di tutta la realtà, affermando il proprio io, in nome della sua libertà, al di sopra di ogni principio, nella vita morale, e come autocrate, in politica. Il relativista sarà dunque, se coerente, il vero absolutus (solutus ab), perché sciolto da qualsiasi vincolo superiore, da ogni regola esterna, da ogni oggettività.
Storicamente, da Machiavelli in poi la negazione della Verità libera lo Stato da ogni dipendenza ed espande, di conseguenza, indefinitamente, i suoi poteri e il suo arbitrio. L’assolutismo e il totalitarismo non nascono infatti nel Medioevo cristiano, ma con il progressivo affermarsi dell’autonomia e dell’amoralità della politica. Il trionfo dell’assolutismo, coincide, nel Novecento, col trionfo del relativismo. Basti pensare, per quanto riguarda l’esistenza quotidiana, all’estremo disordine morale che caratterizzò la vita di Mussolini, alle aberranti perversioni sessuali di Hitler, o alle numerose donne e ragazzine di cui Stalin, come racconta lo storico Sebag Montefiore, approfittò nella sua vita dissipata. Ci vorrebbe un libro intero per descrivere la dissolutezza di questi personaggi, che proprio a partire dal rapporto col prossimo affermarono se stessi ed il proprio capriccio al di sopra di ogni verità morale.
Per quanto riguarda l’assolutismo politico torna utile un anniversario. Esattamente cento anni fa, nel 1908, Benito Mussolini passa alcuni mesi, importantissimi per la sua formazione umana e politica a Trento, sotto l’Impero Asburgico. In questi pochi mesi, scrivendo articoli su “Il popolo”, il giornale socialista diretto da Cesare Battisti, fa sfoggio di tutto l’armamentario ideologico del relativista anarchico di allora, così simile a quello odierno. Anzitutto sceglie il suo bersaglio preferito: la Chiesa cattolica, definita un “grande cadavere” ormai alla fine della sua esistenza. L’accusa nei suoi confronti, verso i sacerdoti definiti “vampiri e pipistrelli”, “animali appartenenti alla specie zoologica degli antropoidi neri”, “sudici cani rognosi”, ecc., ruota intorno ad alcuni tuttora persistenti luoghi comuni: l’esaltazione di Darwin, considerato colui che ha dato al materialismo, insieme a Marx, la sua fondazione scientifica; le vicende di Galileo Galilei e Giordano Bruno, interpretate con superficialità e retorica da demagogo come il simbolo dell’oscurantismo cattolico contro la scienza trionfante; l’esaltazione del “libero amore” , inteso soprattutto come “un mezzo per conservare la specie”, e l’elogio delle eresie del passato, viste tutte come manifestazioni di libertà, nella soppressione delle quali “la vecchia vaticana lupa cruenta”, che è ormai “un grande cadavere”, avrebbe esercitato le peggiori nequizie della storia. “Nel secolo dei lumi, scrive Mussolini, voi continuate a portarci il linguaggio delle tenebre”: per questo “il socialismo deve essere avversario del clericalismo che la chiesa vorrebbe far rivivere per asservire le masse”. Oltre alla Chiesa, per l’uomo che le masse vuole liberarle, l’altro bersaglio preferito è l’Impero asburgico, cattolico e multinazionale, reo appunto di essere oppressivo e assolutista. Quando nel 1915 Mussolini diviene interventista il ritornello è sempre quello di Trento del 1908: “I preti non vogliono la guerra contro l’Austria perché è nazione cattolica, ove l’imperatore segue a capo scoperto il baldacchino nelle processioni del Corpus Domini”, dimostrandosi così un nemico della laicità dello stato. Chiunque sia avverso alla guerra, alla sua forza purificatrice e innovatrice, altri non è, di conseguenza, che “un puntello del trono traballante di Francesco Giuseppe, un socio dei forcaioli e dei preti”. Nel 1916, dal fronte, l’uomo che si era già schierato più volte contro il sistema parlamentare, in nome della dittatura socialista, e che creerà la dittatura fascista, chiarisce ancora meglio il suo pensiero: “L’Asburgo regna ancora e sempre per diritto di Dio. La volontà dei popoli è uno zero”. Nel 1918 Mussolini potrà finalmente festeggiare la morte di ciò che rimaneva del Sacro Romano Impero: le “sbarre della vecchia prigione asburgica” sono crollate e la guerra “ha liberato i popoli”. In verità, caduto l’Impero, i suoi territori passeranno da un imperatore che non fu mai assolutista, ai nazisti prima ed ai comunisti poi! Mussolini, nel frattempo, avrebbe dimostrato che non è chi crede nella Verità trascendente, e nel diritto naturale, ad essere assolutista, ma al contrario chi, negando relativisticamente ogni Verità, finisce per imporre la propria. Partito anarchico, l’uomo di Predappio finì dittatore. Non riconosceva nulla sopra di sé, prima: perché avrebbe dovuto farlo, poi? (Il Foglio, 3 dicembre, 2008)
Fonti: Discorsi di Benito Mussolini, Dall’intervento al fascismo, Edizioni librarie siciliane, Bologna 1992. Luigi Sardi, Battisti, Degasperi, Mussolini, Curcu & Genovese, Trento, 2004.