Come la scuola e la cultura hanno ripudiato il latino. Un latinista racconta
Una piccola presentazione dell’autore: Renato Oniga è professore di Lingua e letteratura latina all’Università di Udine. Ha scritto vari saggi e curato per Einaudi l’Opera omnia di Tacito. A febbraio uscirà, per Fede & Cultura, un suo bellissimo pamphlet dal titolo Contro la post-religione. Per un nuovo umanesimo cristiano nell’epoca del dogmatismo scientista, con prefazione dell’illustre Accademico di Francia Marc Fumaroli. Il volume affronterà con piglio combattivo le nuove tendenze anticristiane e antiumanistiche che allignano nella cultura diffusa e nei media, e di cui un Piergiorgio Odifreddi (oggetto nel libro di un’implacabile confutazione filologica) è in Italia un rappresentante emblematico. Dalle pagine di Oniga ho estratto, in qualità di anteprima, un interessante excursus sulla decadenza della lingua latina nel mondo della cultura e della scuola. Ringrazio il prof. Oniga per la cortese disponibilità alla pubblicazione del brano. Buona lettura.
«I classici dominarono incontrastati dal Cinquecento al Settecento nelle scuole di tutta Europa, dove generazioni di scolari studiavano gli stessi manuali e leggevano gli stessi autori […]. [A]ncor più forte fu la posizione del latino nel sistema universitario. A Parigi come a Oxford, si dava per scontato che docenti e studenti non solo fossero in grado di capire il latino, ma lo parlassero tra loro correntemente. Non a caso, a Parigi, il quartiere delle grandi scuole superiori e dell’università porta ancor oggi il nome di “quartiere latino”.
Proprio in Francia si riscontrano però, nella seconda metà del Settecento, i primi segnali di crisi. I più accesi oppositori dell’educazione basata sul latino furono alcuni illuministi francesi, che anche sotto questo profilo si rivelarono più dogmatici rispetto agli illuministi tedeschi o americani. L’Émile di Rousseau (1762) teorizzava la spontaneità del processo formativo, limitando lo studio scolastico alla sola lingua materna e alle scienze della natura, poiché il latino rischiava di limitare la mente dei giovani, impedendo loro di esprimersi liberamente. Negli stessi anni, Diderot, tracciando il progetto di una nuova università per la Russia di Caterina II, si chiedeva infine “a chi queste lingue antiche possano essere di un’utilità assoluta”, concludendo: “oserei quasi rispondere: a nessuno, a parte i poeti, gli oratori, gli eruditi e gli altri letterati di professione, cioè i ceti sociali meno necessari” (Plan d’une université pour la Russie, 1875) […].
Quella che possiamo chiamare la prima vera crisi europea del latino raggiunse dunque il suo culmine alla fine del Settecento, con la Rivoluzione francese. Benché i rivoluzionari, parlando di tirannicidi, consoli e tribuni, dimostrassero ancora di essere profondamente imbevuti degli ideali di libertà della cultura classica, essi eliminarono in modo traumatico le strutture scolastiche di tradizione umanistica, considerate ingiustamente il simbolo dell’Ancien Régime, e istituirono le nuove scuole centrali, dove per la prima volta si realizzò il prevalere delle lingue moderne sulle lingue antiche e delle scienze sulle lettere.
La parentesi fu però ben presto chiusa dal regime napoleonico, che istituendo i Licei restituì al latino il suo posto fondamentale nell’educazione. L’Ottocento è dunque, in tutta Europa, il secolo in cui assistiamo ad una nuova fioritura della scuola umanistica: dal Gymnasium prussiano, istituito nel 1810, alla public school inglese, ai citati licei francesi e a quelli italiani, costruiti sul modello francese.
Il nuovo classicismo ottocentesco non fu però un semplice ritorno al passato, ma comportò una diversa impostazione rispetto alle scuole dei secoli precedenti: si perse quasi del tutto la dimensione del latino parlato e prevalse un nuovo approccio di tipo storico, archeologico e letterario. I ginnasi e i licei avevano il compito di formare la futura classe dirigente dello Stato, la cui principale capacità doveva essere la disciplina e l’elasticità mentale. In tal senso, le lingue classiche erano ritenute un’ottima palestra.
Arriviamo infine alla seconda crisi del latino, molto più grave della precedente, e nella quale siamo ancora immersi. Essa si verificò all’inizio del Novecento, anche questa volta in concomitanza con un’altra grande rivoluzione, iniziata con grandi speranze di libertà, ma finita nel dispotismo. Il latino, nonostante gli auspici di Diderot, aveva conosciuto larga fortuna negli ultimi secoli dell’età zarista. Fu invece ben presto spazzato via dalla Russia sovietica. Parallelamente, anche nei paesi dell’occidente, pur non toccati dalla rivoluzione, il latino si avviò a un lento ma inesorabile declino, che ebbe il proprio apice in concomitanza con i fatti del Sessantotto francese. Non bisogna tuttavia dimenticare che, in molti paesi, il colpo mortale alla scuola latina fu inferto da governi conservatori. Ad esempio, in Francia, fu il ministro dell’educazione nazionale Edgar Faure, che con un decreto del 9 ottobre 1968 soppresse il latino nella prima classe delle scuole medie superiori, riformate in base al famoso slogan delle “tre lingue”: la lingua materna, la matematica e una lingua viva. Finiva così in parodia l’ideale umanistico del Collegio Trilingue (greco, latino, ebraico), fondato da Erasmo a Lovanio nel 1517, che fu il modello del glorioso Collège de France. Paradossalmente, fu la demagogia del ministro di un governo conservatore a sentenziare che gli studi classici erano ormai “un freno per la democratizzazione” (F. Waquet).
In Inghilterra, con più pragmatismo e senza bisogno di contestazioni, il latino aveva già perso il proprio peso nella scuola, semplicemente per il venir meno dell’obbligo della sua conoscenza in vista dell’accesso alle più prestigiose università. L’abolizione avvenne a Cambridge già nel 1960, a Oxford nello stesso anno per gli studenti di scienze e nel 1978 per le altre facoltà. Privata della sua larga base scolastica, la stessa grande tradizione universitaria della filologia classica inglese ha finito poi per soccombere sotto i colpi di un’implacabile politica di risparmio, portata avanti in particolare dal governo Thatcher, che ha causato la progressiva riduzione del numero di cattedre di materie classiche nelle università britanniche. Gli eccessi di liberismo sono stati altrettanto nocivi per l’educazione classica quanto gli eccessi di comunismo, perché in fondo entrambe le ideologie condividono una medesima impostazione antiumanistica.
Anche in Italia, la crisi del latino è stata segnata da un lato dalla sua abolizione nella scuola media, e dall’altro dalla liberalizzazione dell’accesso all’Università. Nel complesso, si può affermare che il peso del latino nell’intero sistema educativo europeo, dalla scuola all’università, negli ultimi decenni si è ridotto in una misura mai verificatasi in passato. Se poi sia o no casuale il fatto che, negli stessi anni, si è aperta per l’Europa una delle peggiori crisi culturali ed economiche degli ultimi secoli, non sta a me giudicare. Certo, la coincidenza fa riflettere: personalmente, ho l’impressione che l’autodistruzione della cultura stia ormai innescando anche l’autodistruzione dell’economia, con il passaggio dai fondamentali del sano investimento alla speculazione più amorale, che produce ovviamente una serie di bolle devastanti e autodistruttive.
Passiamo infine ad esaminare, ancor più brevemente, un secondo settore, in cui il latino ha avuto per secoli un’importanza fondamentale: l’editoria scientifica. Ancora Françoise Waquet ci snocciola alcuni dati statistici piuttosto eloquenti. A Parigi, nel 1501, su un totale di 88 libri stampati, solo 8 erano in francese. Nel 1528, la proporzione di libri in latino era ancora di 269 contro 38, e bisogna attendere il 1575 perché il francese superi il 50 per cento. In Germania il processo fu meno lineare: ad un precoce arretramento del latino già nel Cinquecento, per effetto della Riforma, fece seguito un recupero nel secolo successivo: nel 1680, i libri tedeschi venduti alle fiere di Francoforte erano ancora in maggioranza latini, mentre nel 1770 la quota scese al 14 per cento. In Italia, per tutto il Cinquecento, la produzione di libri in latino si mantenne maggioritaria, e anche nel secolo successivo non scese al di sotto del 30 per cento; nel campo giuridico, poi, la percentuale di opere in latino si mantenne intorno all’80 per cento fino a tutto il XVIII secolo.
L’enorme mole di documenti conservati negli archivi di Stato europei dimostra inoltre, in maniera inconfutabile, che il latino rimase fino al Settecento la lingua ufficiale del diritto, dell’amministrazione e della diplomazia. Avvocati, addetti alle cancellerie, ambasciatori e diplomatici, dovevano possedere una buona conoscenza del latino, che era la lingua dei rapporti internazionali. Ad esempio, il poeta John Milton, allievo di St. Paul e di Cambridge, dovette soprattutto al suo talento di latinista la nomina, nel 1649, a “secretary for foreign tongues” del governo Cromwell: il suo compito consisteva infatti essenzialmente nella traduzione dall’inglese al latino e viceversa. Solo a partire dal Settecento, il francese si impose come lingua della diplomazia, ma ancora nel 1798 un ministro del re di Prussia sottolineava che “il latino è indispensabile non soltanto per via del diritto romano, ma anche a causa dei nuovi territori polacchi, in cui quasi tutta la nobiltà parla latino” […]. In molti territori europei oggetto di conquista da parte delle grandi potenze, parlare latino significava rifiutare la lingua degli invasori, e richiamarsi idealmente a un ideale politico sovranazionale.
Per quanto riguarda più propriamente il settore delle scienze, si possono cogliere dati altrettanto significativi. Una delle scienze più legate al latino fu senza dubbio la medicina: la tradizione dei medici umanisti si protrasse almeno fino a tutto il Seicento. Il latino nella medicina aveva inoltre il vantaggio di proteggere sia il medico sia il malato dalla brutalità di realtà sgradevoli, come ad esempio le malattie sessuali. Anche se, naturalmente, tale pratica poteva prestarsi anche all’abuso dei ciarlatani, come ci ricorda l’indimenticabile scena finale in latino maccheronico del Malato immaginario di Molière.
Nell’ambito della matematica e della fisica, il latino fu invece apprezzato soprattutto come lingua di comunicazione internazionale. Sappiamo ad esempio che la diffusione fuori dall’Italia del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo fu in larga misura dovuta alla traduzione latina del 1635. Newton tenne i suoi corsi a Cambridge e scrisse la maggior parte delle sue opere in latino, a cominciare dai celeberrimi Philosophiae naturalis principia matematica (Londra 1687). La sua biblioteca possedeva più libri in latino che in inglese e lo scienziato annotava in latino i propri libri, secondo una pratica comune tra gli eruditi del tempo […]. Ma anche nel Settecento, possiamo citare alcune pietre miliari nella storia della matematica come l’Ars coniectandi (Basilea 1713) di Jacob Bernoulli, l’Introductio in analysin infinito rum (Losanna 1748) e le Institutiones calculi differrentialis (Berlino 1755) di Leonhard Euler. Ancora all’inizio dell’Ottocento, Karl Friedrich Gauss continuava a pubblicare in latino le proprie opere, a cominciare dalle importanti Disquisitiones arithmeticae (Lipsia 1801).
Tra le scienze naturali, è noto che la botanica e la zoologia si basano, a partire dal Systema naturae di Linneo (Leida 1735), su una terminologia di classificazione interamente latina. Non a caso, nel 1789, il famoso naturalista britannico John Berkenhout poteva affermare: “quanti vogliono restare nell’ignoranza della lingua latina sono tagliati fuori dallo studio della botanica” […]. Inoltre, i simboli tuttora in uso per gli elementi della chimica, introdotti nell’Ottocento da Berzelius, sono basati anch’essi su nomi latini (e ancor oggi, i nuovi elementi continuano a ricevere nomi con la desinenza latina –ium: ad es. ruthefordium, bohrium, hassium, ecc.).
Più in generale, l’arricchimento delle lingue moderne per mezzo di termini tecnici di derivazione latina, sia come prestiti puri, sia a vari livelli di adattamento e integrazione fonetica, sia infine come neologismi formati per composizione a partire da basi lessicali greco-latine, è un fenomeno continuo, e le storie delle singole lingue moderne ne hanno messo in luce i diversi strati cronologici e i vari canali di trasmissione.
Riassumendo le vicende del latino dal Rinascimento ad oggi, potremmo dire che questa lingua è stata come un termometro in grado di misurare lo stato di salute dell’intera cultura europea. Il latino ha assunto grande rilievo nelle epoche in cui le società erano fortemente organizzate, possedevano valori condivisi e creavano autentico progresso, morale e materiale. Viceversa, il latino è entrato ciclicamente in crisi nelle epoche in cui le società stesse entravano in crisi, quando si verificavano rotture traumatiche e rivolgimenti dell’assetto politico, quando improvvisamente sembrava che tutto il passato fosse da condannare in blocco.
Mi pare perciò che oggi certe parole d’ordine delle vecchie e nuove ideologie siano ormai davvero consunte. Ad esempio, ancora qualche decennio fa, Antony Grafton e Lisa Jardine, in uno studio peraltro meritorio sull’umanesimo europeo, continuavano a ripetere, a proposito della persistenza fino ai giorni nostri di un ideale di educazione classica, il sospetto che si sia trattato in realtà di una “mistificazione dell’educazione liberale” […]. Al contrario, Françoise Waquet ha più recentemente contestato questa tesi, ed è giunta ad una conclusione opposta, senza dubbio più obiettiva: “Possiamo dire […] che il termine ‘mistificazione’, nel contesto, non risulta appropriato. Non si ebbe mai, nel mondo pedagogico, una volontà deliberata di mistificare nessuno, di ingannare, di deformare la realtà; si ebbe piuttosto una fiducia sincera, e largamente condivisa fuori dell’universo scolastico, nei poteri del latino e, con essi, in un certo numero di valori che gli vennero un po’ dappertutto riconosciuti” […]. Dei valori umanistici che oggi tornano ad essere riscoperti, e paradossalmente più negli Stati Uniti che in Europa, dove si procede invece, in ritardo, a ridurre gli spazi residui della grande tradizione classica, inseguendo il modello di una cultura basata sul pragmatismo e sulla tecnica, che sta dimostrando oggi tutti i suoi limiti».
R. Oniga, Contro la post-religione, Fede & Cultura, Verona 2009
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