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“Con Eluana io avevo fatto un patto e l’ho rispettato. Ho rispettato e onorato la parola che avevo dato a mia figlia”. Così ha ribadito ancora una volta in questi giorni il signor Englaro, il padre di Eluana.. Un incredibile patto di morte, senza testimoni, senza firme, un patto di sangue e onore, come nelle più cupe tragedie pagane. Un patto faustiano tra un’adolescente che – forse- si lascia sfuggire qualche battuta sull’inopportunità di vivere da invalidi, e uno strano padre pronto a cogliere in quelle frasi di diciassettenne una volontà testamentaria. Sembra tutto assurdo, eppure è proprio a causa di questo patto segreto che Eluana sta per essere terminata, sta per andare incontro- se non interverranno fatti nuovi o addirittura miracolosi, alla morte per fame e sete. Una situazione in cui si fa passare per morte “naturale” la morte per sete e per mancanza di nutrimento, che tutto è fuorchè “naturale”.
Una situazione in cui si dà a un tutore, autorizzato dalla legge a intervenire su quelli che sono i beni disponibili di un incapace, la possibilità di decidere della sopravvivenza del tutelato, come se la vita non fosse (per la nostra Costituzione, non per motivi confessionali) il bene indisponibile per eccellenza. Non possono esistere simili patti, o comunque non possono essere ritenuti validi da quello “Stato di diritto” che secondo Englaro è riuscito a imporre le sue ragioni. Quale diritto? Quello di smettere di alimentare una donna, quello di lasciare che la sua vita se ne vada piano, che si spenga come un lume acceso che ostinatamente ripete che la vita c’è. Togliere la vita ad una persona, solo perché malata o disabile o incosciente, é una pratica inaccettabile in ogni paese che voglia continuare a rientrare nel novero di quelli civili. I giudici di uno Stato di diritto normale, autentico, avrebbero ascoltato il signor Englaro, avrebbero preso atto della sua tragedia, avrebbero prestato attenzione e comprensione al suo dramma, al dolore quasi rabbioso di chi aveva posto tante aspettative in quella figlia unica e aveva visto sfumare quei sogni. Chi scrive è da anni presidente del Centro Aiuto alla Vita di Lecco, e in questa veste anni fa pubblicamente rivolsi un appello al signor Englaro perché accettasse una figlia diversa da quella si era immaginata. Gli chiesi un atto nobile, eroico, un sacrificio- quello di accettare Eluana così com’era diventata, affinché il suo caso personale non venisse utilizzato per introdurre in Italia l’eutanasia, mettendo così a rischio la vita di tante persone, delle tante eluane, ma anche di anziani, disabili, persone deboli che potrebbero essere eliminate. In questi giorni si è avvertito un clima strano, quasi di rassegnazione, di fronte a questa vicenda. Addirittura da parte di qualche ecclesiastico è giunto un invito al silenzio. Invece occorre una vivacissima mobilitazione: la partita non è affatto finita, e ciò anzitutto perché,: nonostante tutto quello che è stato detto e scritto, la sentenza della Cassazione in realtà non è propriamente una condanna a morte. E’ una “licenza di uccidere” che delega ad un privato cittadino la possibilità di eseguirla. Nessuno è obbligato a farlo, né medico, né infermiere, né lo stesso Englaro padre. La sentenza non obbliga a togliere o a far togliere il sondino: dà facoltà di farlo impunemente, cioè senza risponderne penalmente. Occorre allora invitare ad una massiccia disobbedienza civile di fronte a questa sentenza, rigettando sul piano morale e civile questa espressione del potere giudiziario che ha voluto acconsentire ad una richiesta di soppressione di un essere umano, ultima espressione dell’ ideologia del potere dell’uomo sull’ uomo, del forte sul debole. Il Diritto di morire non è contemplato nella Costituzione.
Chiediamo quindi la moratoria a tempo indeterminato della sentenza: nessuno la applichi, nessun operatore sanitario, nessuna persona. . La solidarietà intorno ad Eluana deve aumentare in un crescendo di attenzioni. “'Chi la considera morta, lasci che Eluana rimanga con noi che la sentiamo viva”: hanno detto le suore della clinica di Lecco, dove loro continuano a servire la vita di Eluana Englaro, come di tutti i pazienti, e hanno affermato la disponibilita' a continuare a farlo. E’ anche per questo che abbiamo fatto appello, nei confronti di Eluana, di una sorta di Habeas corpus, principio del sistema giuridico anglosassone che nel corso della storia è stato un importante strumento per la salvaguardia della libertà individuale contro l'azione arbitraria dello stato. Abbiamo chiesto che sia possibile diffondere immagini di Eluana com’è oggi. Perché in questi anni di Eluana sono state mostrate in pubblico, sui Media, solo le foto della sua adolescenza, quasi a voler dare l’idea che quella, e solo quella, era Eluana. Mostrare questa donna oggi, per come è, nelle condizioni di inferma amorevolmente assistita, potrebbe servire a comprendere meglio questo caso, a far vedere che si tratta di una persona viva, e non di una sorta di vegetale la cui esistenza considerata inutile deve avere termine. Naturalmente i legali di parte parlerebbero di inaccettabile violazione della privacy. Siamo di fronte ad una situazione eccezionale, inaudita, per cui è stata data l’autorizzazione a far morire una persona, e si parla di privacy? Si pretende che Eluana scompaia alla vista, sia rimossa, e- fatto ancor più grave- si vorrebbe che la questione della morte procurata (dicono che non bisogna usare il termine omicidio!)di una persona fosse un fatto strettamente privato. In realtà è impressionante l’uso strategico delle immagini nei casi eticamente sensibili: basti pensare al caso-Welby: non passava giorno che fossero mostrate le sue immagini a letto, con inquadrature che insistevano sulle macchine, sui cavi, per indurre negli spettatori la convinzione di un’artificiosità di tale tipo di vita. Per Eluana invece il contrario: nessuna immagine, anche perché la donna non è attaccata a nessuna macchina, non ha alcun supporto: è un’invalida in carrozzina, come migliaia di persone ammalate, diversamente abili, o anziani. Vedere Eluana toccherebbe il cuore a molte persone e potrebbe suscitare un movimento di solidarietà ancora più vasto di quello esistente.
Paolo Gulisano, medico di Lecco.