Famiglia e diritto naturale
Di Andrea Zambelli (del 14/03/2007 @ 19:26:35, in Attualità, linkato 1208 volte)
L’approvazione del ddl da parte del governo Prodi relativo alle unioni civili ha giustamente suscitato discussioni molto animate, ma non certo prive di pregiudizi e contrapposizioni puramente ideologiche. Tuttavia l’elemento più rilevante, e per certi aspetti sorprendente, non sta tanto nello scontro tra cattolici e laici da un lato e laicisti dall’altro, quanto tra i credenti stessi. Non è un segreto che all’interno della Chiesa italiana esistano fondamentalmente due sensibilità molto spesso in polemica fra di loro, quelle che per comodità potremmo definire progressista e conservatrice, tuttavia sulla questione delle coppie di fatto tale conflitto è esploso in maniera evidente. Per fugare subito ogni dubbio dichiaro di riconoscermi nella posizione della Cei, del suo quotidiano “Avvenire” e, in ultimo, di Benedetto XVI che incessantemente dichiara la “non negoziabilità” di valori quali la vita, la famiglia e l’educazione desunti non tanto da un dogma (come a molti risulta comodo far credere), bensì dal diritto naturale razionale. Questione eminentemente laica dunque, sebbene nei settori laicisti della società la si voglia far passare come dogmatica (beninteso, al puro scopo di agevolare la polemica nei confronti della Chiesa italiana non certo per amore del dialogo sincero). Molte sarebbero le cose da commentare, tuttavia io tento di dialogare con questi amici su almeno un paio di punti che trovo essenziali. 1) Il diritto naturale. Uno dei punti più significativi delle posizioni dei cosiddetti “cattolici adulti” sta nel negare, almeno sul piano politico-sociale, la validità oggettiva e vincolante del diritto naturale rimandandolo, o subordinandolo che è lo stesso, alla contrattazione democratica; essi dichiarano in altre parole la validità oggettiva del diritto naturale per se stessi, ma ne negano la valenza pubblica (come fosse un dogma di fede) lasciando quest’ultima nella piena disponibilità del potere civile. Un noto intellettuale cattolico di scuola dossettiana come Alberto Melloni ha dichiarato in una recente intervista a Panorama che le posizioni della Cei riguardo ai Dico sono inaccettabili perché ledono la “sovranità dello Stato”. Ciò è davvero sorprendente se non altro perché un valente storico come lui, per di più cattolico, dovrebbe sapere e insegnare che uno Stato a cui si riconosca la facoltà indisturbata ed assoluta di deliberare su questioni eticamente sensibili (modo edulcorato per dire che si decide della vita e della morte delle persone come nel caso dell’aborto, dell’eutanasia, della fecondazione assistita, dell’uso degli embrioni a presunti fini terapeutici) è uno Stato che porta in sé i germi del totalitarismo (appunto perché decide della vita e della morte e il fatto che lo possa decidere democraticamente poco importa). Il doppio registro sul quale si muovono questi intellettuali è dunque quello di ammettere da un lato che sì, la famiglia rappresenta un valore inestimabile (per se stessi) e dall’altro rifiutare che essa possa essere affermata in maniera veritativa sulla base di una legge naturale e razionale (per gli altri). A parer mio tale discorso è radicalmente contraddittorio. Come posso affermare che una cosa è davvero inestimabile, e quindi rappresenta un valore proponibile agli altri, se il metro di giudizio è racchiuso interamente nel perimetro della mia soggettività? Questa è la vera domanda con la quale ci si deve confrontare. Se nego la verità oggettiva (e con ciò non dogmatica) del diritto naturale, che sul piano politico secondo Melloni non deve trovare udienza a favore dell’assoluta sovranità del potere civile, e mi limito a dare validità solo all’esperienza soggettiva che cosa comprendo? Di sicuro non comprendo la verità; tutt’al più la comprensione assumerà le vesti dell’autocomprensione psicologia senza avere però alcun significato sociale, solidaristico, interpersonale, per non dire ontologico o metafisico. E’ vero: un conto è l’esperienza vissuta da ognuno, un altro conto è la questione relativa alla verità: occorre stare attenti a non mescolare i due piani, ma nel contempo è altrettanto necessario stare attenti a non credere che l’uno possa fare a meno dell’altro. Se non esiste una verità naturale e razionale che cosa comprendo tramite l’esperienza considerato che si dà comprensione solo del reale e della sua verità? Sembra quasi che l’esperienza debba escludere la verità del diritto naturale che, detto altrimenti è come voler far soccombere l’intelletto (che conosce il vero) a favore della volontà (che lo pratica). Sarebbe sciocco pensare che basterebbe l’affermazione di una verità ideale e astratta per pretendere che tutti vi si adeguino: questo errore si chiama intellettualismo etico poiché annulla la volontà e mette su un piedistallo l’intelletto; ma sarebbe altrettanto fuorviante pensare che l’intelletto non possa cogliere alcuna verità: quest’altro errore si chiama soggettivismo etico poiché depotenzia l’intelletto a vantaggio della volontà. In realtà, intelletto e volontà rappresentano due facoltà umane che, pur nella distinzione, sono naturalmente destinate a collaborare in una unità più ampia qual è quella della persona. Vale dunque la logica inclusiva dell’et et (intelletto e volontà) e non quella esclusiva dell’aut aut (intelletto o volontà). Su questo terreno ci viene in aiuto Kierkegaard per il quale una verità astratta è, per definizione, irrilevante per la vita, e come tale è qualcosa di non compreso nel suo stesso essere vera, proprio da chi la professa come vera. Sottoscrivo. Ma l’irrilevanza di una verità astratta non autenticamente compresa (cioè vissuta) non comporta che essa non sia più oggettivamente vera, ma richiede che per realizzarsi compiutamente essa si faccia strada nella vita di ognuno tramite la compartecipazione dell’uomo, ossia attraverso la volontà. Voler affermare il valore della famiglia tradizionale solo sulla base dell’esperienza personale e soggettiva senza ammettere la possibilità di comunicarlo anche con strumenti razionali rappresenta un errore esiziale. Solo in presenza di un’idea razionale (cioè comunicabile e comprensibile sulla quale è possibile costruire socialità e solidarietà) di famiglia siamo in grado di giudicare certe situazioni come errori o cadute, ma se questa idea di famiglia manca, o è variabile, viene a mancare la base stabile in grado di orientare il giudizio e di dare senso all’azione (e un fine è necessario all’agire: agire per il nulla è come non agire per nulla). 2) La Chiesa, la perfezione, le ideologie. L’altro pregiudizio filosofico spesso presente nelle posizioni dei credenti adulti è quello secondo cui la Chiesa avrebbe in mente un’ideale perfetto di famiglia il cui completo perseguimento sarebbe da imporre a tutti, disinteressandosi della realtà concreta e complessa, pena la loro esclusione dalla “natura” o dalla comunità dei degni. Quasichè la Chiesa non avesse presente che il Male costituisce una presenza ineliminabile dalla vita dell’uomo e dalla storia. E’ vero, invece, l’esatto contrario. Il messaggio cristiano è l’unico che abbia come destinatario ogni persona umana facendosi carico di ogni singolarità irripetibile (sia nel bene che nel male) e aiutando a far sì che la verità astratta diventi una verità personale e vissuta per ognuno, ossia diventi un incontro con la Verità. Pertanto, la cultura cristiana, sia in sede teologica (la creaturalità e il peccato originale) che filosofica (l’uomo è imperfetto perché partecipa dell’Essere), risulta essere una profonda conoscitrice della fallibilità e della finitudine umane; essa è consapevole che l’uomo è perfettibile ma mai pienamente perfetto. Allo stesso tempo però è consapevole che questa condizione di imperfezione non esime la persona dall’avere come modello del proprio agire ciò che è perfetto: "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli" (Mt. 5,48); non è casuale, a tal riguardo, che le parole di Gesù abbiano un tono spiccatamente esortativo (“Siate”)e non categorico appunto perché il perfetto è sì irraggiungibile, ma esso rimane sempre l’inderogabile paradigma a cui ognuno è chiamato a tendere. Ricordare questo non significa essere refrattari al reale per pretendere una perfezione impossibile, quanto mettere in pratica una doverosa azione di carità intellettuale nei confronti di un’umanità che non ha mai finito di migliorarsi. Al contrario, se c’è qualcosa che per natura non si interessa alla concretezza quotidiana e reale di ogni essere umano questa non è la Chiesa, ma l’Ideologia (e tutte le ideologie condividono uno stesso punto di partenza: che la “sovranità” del potere civile sia assoluta e che nessuno pretenda di “ingerirsi” nelle sue faccende). Tutte le ideologie, grandi e piccole, hanno sempre cercato di ingannare l’uomo persuadendolo che il male presente nella storia può essere definitivamente eliminato per dare vita a società perfette; hanno sempre cercato di sbarazzarsi del reale presente a favore di un futuro idealizzato, privo di concretezza e con ciò stesso insensibile alla carne di ogni singolarità irripetibile. Tutte le ideologie hanno, infatti, come obiettivo non quello di prendersi cura del destino di ogni singolo, ma quello di rivoluzionare il mondo parlando dell’avvento di una nuova società e di un nuovo uomo nel quale tutti si devono identificare, pena la loro esclusione o soppressione. Hegel è il campione di questa tendenza. Per il filosofo tedesco ciò che conta per la realtà della verità non è l’importanza che io do a quanto ritengo vero: la verità, infatti, si realizza indipendentemente dall’importanza che io le do. Diventa allora irrilevante che la verità astratta sia compresa e vissuta dai singoli individui poiché ciò che conta è il Sistema e gli individui non sono altro che ingranaggi che hanno valore solo in funzione del Sistema stesso. Dico questo perché registro nella società odierna l’inspiegabile tendenza a considerare il 1989 come l’anno di decesso delle ideologie e a ritenere la nostra epoca definitivamente post-ideologica. Stiamo attenti: le ideologie non sono un evento storico irripetibile e conservano sempre intatto il loro potenziale; maggiore è la superficialità e la leggerezza con cui vengono considerate, maggior è il rischio che si ripresentino sulla scena pubblica.