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Il nazionalismo americano secondo La Civiltà cattolica.
Di Rassegna Stampa - 17/02/2008 - Storia contemporanea - 1541 visite - 0 commenti

Pubblichiamo di seguito l'articolo scritto da John Navone S.I., professore emerito all’Università Gregoriana, e apparso sulla rivista “La Civiltà Cattolica”. * * * È difficile comprendere gli Stati Uniti senza tener conto che il nazionalismo americano è diverso dagli altri, perché è di matrice ideologica. La sua è una storia separata, che non accetta paragoni con gli altri, e per questo è stata la più nazionalista tra le nazioni più importanti. Non solo i politici e gli uomini pubblici ma la stessa gente comune ribadisce costantemente la propria superiorità su tutti gli altri, come se la qualità della Costituzione statunitense fosse la dimostrazione di un successo nazionale permanente. A riprova del fatto che quest’ultimo si è indebolito, le rivendicazioni nazionaliste hanno assunto toni sempre più aspri. George Keenan parla di «sventolio di bandiere, retorica sentenziosa, interminabili reminiscenze della grandezza della nazione, religioso incantamento del giuramento di fedeltà, atmosfera pseudoreligiosa e sommessa della cerimonia nazionale […], intolleranza farisaica nei confronti di coloro che rifiutano di partecipare a questi vari eventi rituali» (1).

E tuttavia il nazionalismo degli Stati Uniti si è sviluppato relativamente tardi, negli ultimi 150 anni, in un Paese in cui originariamente le persone promettevano lealtà ai singoli Stati ed erano unite come nazione soprattutto in virtù del loro impegno nei confronti di un principio di governo. L’influenza che gli Stati Uniti hanno esercitato sullo sviluppo delle società politiche in altri luoghi del mondo, durante il XIX e il XX secolo, deriva dal fatto che questa nazione — come le Repubbliche latino-americane create successivamente — era nata da idee politiche. Gli Stati Uniti non erano una società che si trovava già «lì», bensì una società costituita deliberatamente. La sua era, ed è, una popolazione composta soprattutto da immigrati. Come la maggior parte degli aborigeni vittime dell’espansione europea, gli indiani d’America non si sono mai completamente integrati nella civiltà che è stata loro imposta, e tuttavia erano troppo deboli per costringere gli invasori a adattarsi culturalmente ad essi. Il motivo dell’esistenza degli Stati Uniti La ragione dell’esistenza degli Stati Uniti è il principio e la pratica dell’autogoverno, come sancito nella Dichiarazione d’Indipendenza e nella Costituzione. In questo essi differiscono in modo fondamentale dagli Stati che li hanno preceduti. Le altre nazioni coloniali di lingua inglese — Canada, Australia e Nuova Zelanda — non hanno fondamenta ideologiche. Esistono perché furono create per esistere; non furono esse a scegliere di esistere, per quanto possano affermare un’indipendenza ideologica: in Australia esiste un movimento repubblicano, mentre il Canada è ancora alla ricerca di una definizione della propria identità. La Rivoluzione americana ebbe una notevole influenza sulla successiva Rivoluzione francese, la quale, a sua volta, esercitò un forte influsso sulle rivoluzioni latinoamericane del XIX secolo e sulla nascita delle Repubbliche a cui esse diedero vita. L’impatto degli Stati Uniti sull’Europa e sull’America Latina all’inizio del XIX secolo (e più tardi sull’Asia) è dovuto soprattutto, come scrisse Tocqueville nel 1848, alla dimostrazione da parte del popolo americano che il principio dell’uguaglianza poteva essere attuato e la democrazia realizzata con successo (2).

La nazione americana è nata per caso, e per molti anni la sua peculiarità come singola nazione è stata messa in dubbio. Una popolazione coloniale di oltreoceano, che si considerava odiosamente soggetta a un monarca lontano e alla sua sovranità, si era opposta alla tassazione senza essere rappresentata nel governo che imponeva le tasse. Da questo derivò la ribellione, la cui giustificazione era fondata su princìpi che costituirono il fondamento delle grandi idee politiche dell’epoca, quelle dell’Illuminismo: gli uomini sono uguali, e lo scopo dei governi è assicurare gli «inalienabili» diritti dell’uomo ottenendo il consenso di coloro che da essi sono governati. Apparentemente si trattava di un atto di estrema temerarietà, in quanto la popolazione non era affatto unita nel sostegno ai ribelli, e in molti Stati prevaleva una diffusa indifferenza verso la Dichiarazione d’Indipendenza e una decisa simpatia nei confronti degli inglesi. New York, la Carolina del Sud e la Georgia si trovarono alla fine in una situazione di guerra civile. L’idea americana all’epoca era radicale e continua anche oggi ad avere implicazioni radicali, comprese alcune che non sono state del tutto recepite negli stessi Stati Uniti. Tuttavia questa esperienza, per quanto si dimostrasse fondamentale per l’Occidente di allora, impedì alla nazione americana la piena partecipazione alla più ampia storia internazionale dopo il 1783, poiché gli Stati Uniti si realizzarono completamente sin dall’inizio. Nulla di ciò che seguì fu ritenuto davvero in grado di accrescere o alterare l’ordine creato dalla ratifica della Costituzione. Essa doveva soltanto essere difesa e interpretata, e la nazione difesa contro le divisioni interne e le minacce esterne. Di conseguenza hanno coesistito fianco a fianco un conservatorismo politico immobilista profondo e crescente, e un enorme cambiamento nella società e nell’economia.

Le condizioni degli inizi del XVIII secolo sono mutate da tempo, eppure l’idea e gli ideali sopravvivono, preservati, grazie a un successivo riesame, dal loro essere necessari alla stessa esistenza degli Stati Uniti. Quella che inizialmente era una società cristiana protestante bianca, nordeuropea e illuminata, formalmente impegnata nei confronti di un insieme di valori intellettuali e politici storicamente identificabile è diventata qualcosa di molto differente, non solo come risultato del passaggio del tempo, ma sempre più come conseguenza delle scelte fatte: quelle relative al secolarismo e al materialismo, un test di mercato per i valori, un’educazione non direttiva, l’immigrazione non europea, e più recentemente (comunque a titolo di prova) lo sforzo di adottare un sistema sociale multiculturale e multirazziale. Tutte scelte di natura ideologica. L’impegno ideologico di fondo rimane, ma avulso dalla cultura delle origini, un fatto poco rassicurante in vista del futuro. All’inizio gli Stati Uniti, più che una nazione, erano una confederazione indeterminata di insediamenti distanti uno dall’altro, preoccupati degli interessi locali e afflitti dalla piaga morale e regionale della schiavitù. Nel 1800 nel Paese c’erano 5.308.483 persone censite, un quinto delle quali era costituito da schiavi di colore. A ciascuno di essi successivamente, per ragioni legate alla rappresentanza al Congresso degli Stati in cui vivevano, fu attribuita la grottesca condizione di tre quinti di uomo libero. Gli adulti maschi, bianchi e liberi, erano alcuni milioni e si occupavano degli affari della Repubblica. La maggior parte degli americani viveva sulla costa atlantica. Il grande esperimento repubblicano prese l’avvio con la ratifica della Costituzione, ma persino Thomas Jefferson, il terzo presidente, non credeva che la nuova nazione potesse sopravvivere come singola nazione, né era del tutto convinto che avrebbe dovuto. Egli riteneva che la base giuridica dell’associazione degli Stati consistesse nel loro potere di esercitare il diritto di recesso. Da parte di molti si riteneva che la libertà dipendesse dall’esistenza di un’élite, e i conservatori americani ritenevano che essa fosse messa a repentaglio dalla democrazia, rappresentata dagli ideali di T. Jefferson. La Rivoluzione francese era presa come esempio del teorema democrazia uguale tirannia. Di conseguenza, l’elezione di Jefferson nel 1800 fu considerata una vittoria della rivoluzione. Egli era convinto di essersi trovato di fronte a un tentativo di restaurazione della monarchia negli Stati Uniti. La guerra del 1812 fece compiere agli Stati Uniti un ulteriore passo avanti verso l’unità nazionale, ma non condusse alla nascita di una nazione vera e propria. In fondo si trattò di una faccenda determinata dalle ripercussioni oltremare della lotta condotta dalla Gran Bretagna contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica.

Quando la guerra scoppiò, alcuni americani con mire espansionistiche ritennero che il Canada potesse essere conquistato senza alcuna difficoltà, mentre la Gran Bretagna era impegnata altrove. Ma le battaglie che seguirono si rivelarono una serie di insuccessi per gli Stati Uniti, tanto che sia il Campidoglio sia la Casa Bianca furono incendiati da una spedizione inglese. Le truppe americane che avevano invaso il Canada furono sconfitte da un contingente militare canadese numericamente inferiore nella battaglia di Detroit. Su una popolazione di sette milioni di abitanti, solo settemila americani partirono volontari per la guerra. La guerra civile (1861-65) pose fine al periodo in cui gli Stati Uniti non erano altro che una confederazione di Stati dai poteri autonomi e in competizione tra loro, dando vita a un’unione federale con un governo centrale: una nazione. Il Sud aveva come motivazione cruciale della secessione la conservazione della schiavitù, anche se questa non era l’unica ragione, ma esso era anche convinto di agire secondo i termini dell’accordo originario tra le colonie, che dai sudisti confederati era inteso come un’associazione volontaria di Stati dotati di poteri uguali e indipendenti. Anche se alla Confederazione fosse stato permesso di andare per la sua strada, è difficile immaginare che la schiavitù avrebbe potuto sopravvivere fino al XX secolo. Il Sud stesso avrebbe dovuto porle fine, in quanto le motivazioni etiche avrebbero trovato un sostegno nella inevitabile meccanizzazione dell’agricoltura meridionale. Se così fosse stato, forse le ripercussioni sarebbero state meno gravi di ciò che invece si è verificato: le aspre lotte della Ricostruzione, con i suoi sudisti e avventurieri, seguite da una nuova imposizione dell’oppressione nei confronti della popolazione di colore attraverso il meccanismo di Jim Crow (3). Tale situazione durò fino alla legislazione sui diritti civili degli anni Sessanta del secolo XX. Questo permise finalmente alla popolazione di colore di ottenere l’uguaglianza giuridica con i bianchi. L’imperialismo Prima del 1865, il nazionalismo negli Stati Uniti era qualcosa che riguardava i singoli Stati, soprattutto quelli nei quali l’economia agraria meridionale e la predominanza della religione calvinista (arminiano-metodista) inglese e anglo-scozzese avevano creato una cultura americana distinta, piuttosto indifferente nei confronti di un’immigrazione che non fosse angloceltica in altri luoghi.

La sconfitta e l’umiliazione subite dalla popolazione bianca durante il periodo della Ricostruzione rafforzarono questo nazionalismo meridionale, dando origine a una esacerbata produzione di miti che durò per buona parte del secolo seguente, senza però mai essere politicamente determinante. Il Sud fu prostrato dalla guerra del 1861-65, un’esperienza che gli lasciò una consapevolezza di fallimento e di tragedia che il resto del Paese non conobbe mai. Il nazionalismo dei nuovi Stati Uniti, dopo la guerra civile, fu alimentato dal grande flusso migratorio della metà del Novecento e del periodo successivo. Gli immigranti si recavano in America, nei suoi territori occidentali e nordoccidentali che garantivano occasioni a tutti, e non nei singoli Stati, dei quali non sapevano praticamente nulla prima del loro arrivo. Nel 1890 il capitano Alfred Thayer Mahan pubblicò L’influenza del potere marittimo sulla storia, un’opera di enorme influsso sulla trasformazione degli Stati Uniti da impero continentale a uno con mire espansionistiche nel Pacifico. Mahan sosteneva che la sicurezza nazionale non si fondava più sulla difesa del continente e sull’isolamento, ma sul possesso di colonie e sulla protezione delle rotte marittime, attraverso le quali passava il commercio internazionale. Mahan rappresentò la principale influenza intellettuale sullo sviluppo della nuova ideologia espansionistica statunitense. Essa si manifestò in pieno nei confronti dell’impero spagnolo nel 1898: questo fu distrutto in una sola notte, subendo quello che nei libri di storia spagnoli è noto come «il Disastro», con la conquista da parte degli americani dei principali possedimenti spagnoli nei Carabi e nell’Oceano Pacifico: Cuba, Portorico, Wake Island e le Filippine. Furono annesse anche le Hawai. Il nuovo imperialismo statunitense aveva anche un’altra, e più semplice, motivazione. Il Paese, dopo la guerra civile, era in pieno boom economico. La sua industria aveva rapidamente superato quella dell’Europa occidentale.

La filosofia storica dominante era quella del darwinismo sociale, i cui presupposti apparivano evidenti nell’affermazione di Theodore Roosevelt (presidente negli anni 1901-09) che l’espansione nazionale in Europa era sempre avvenuta perché la razza era una grande razza. Era un segno e una manifestazione di grandezza in una nazione in espansione. Il successo di Roosevelt non fu dovuto tanto alle sue capacità di riformatore quanto a quelle di predicatore di virtù virili e militari, che egli avvertiva minacciate dal materialismo di una società mercantile in espansione. Roosevelt riteneva che le classi mercantili fossero troppo propense a considerare ogni cosa dal punto di vista del denaro. Egli era l’uomo giusto per l’era dell’imperialismo americano, con le sue qualità di nazionalismo romantico, il disprezzo per i fini materialistici, il culto della forza e della leadership personale, il richiamo ai componenti intermedi della società, l’idea di essere al di sopra delle classi e degli interessi di classe, un senso grandioso del destino e anche un pizzico di razzismo. Il nuovo imperialismo americano non ammise mai di essere ciò che era, in quanto sia Cuba sia le Filippine furono occupate con il pretesto di liberare i loro abitanti, benché essi manifestassero ben presto il desiderio di essere liberi dal dominio americano come da quello spagnolo. Il moralismo che caratterizzava il modo di vedere statunitense rese più agevole la sostituzione dell’internazionalismo riformista con l’espansionismo nazionale del periodo imperialista. Il darwinismo sociale era una dottrina dura, in virtù della quale come molti persero — e furono umiliati —, altri vinsero. L’internazionalismo liberale di Woodrow Wilson (1913-21) fornì un’espressione di quella forma di nazionalismo americano più correttamente descritto come «eccezionalismo». Esso ritiene che le virtù americane non abbiano paragone in nessun altro luogo e rappresentino una forma del più alto grado di perfezione della società umana, che il resto del mondo si sforza di raggiungere. Tale convincimento si fonda sul semplice assunto che tutto ciò che è accaduto nel passato era finalizzato alla realizzazione di questa società, che oggi è più avanzata, se non migliore, di qualsiasi cosa esistita prima (4).

 La politica estera americana sotto la presidenza di Wilson, e ancora dopo la seconda guerra mondiale, costituì un tentativo di estendere alla società internazionale i valori e le istituzioni degli Stati Uniti. Di qui la reazione preoccupata degli americani nei confronti di ogni difesa di principio del nazionalismo in altri Stati (come nella Francia di de Gaulle). Nel 1991-92, la politica dell’Amministrazione statunitense nei confronti della disintegrazione dell’Unione Sovietica e della Iugoslavia fu segnata negativamente da tale convinzione, secondo la quale era non solo un errore da parte di qualsiasi Paese frantumarsi nelle sue varie componenti, ma un tentativo votato al fallimento, in quanto la tendenza «naturale» e progressiva delle entità politiche è federarsi, evolvendo verso aggregazioni più vaste, come era accaduto per gli Stati Uniti. L’«eccezionalismo» statunitense La prima fonte dell’eccezionalismo statunitense è stata un’altra tendenza intellettuale che si sviluppò nel XIX secolo, una corrente di pensiero protestante denominata Vangelo Sociale. Essa sosteneva che l’essere umano sconfigge progressivamente il male man mano che la natura umana progredisce, e implicava che negli Stati Uniti, grazie ai meriti delle istituzioni politiche, la natura umana stava raggiungendo un livello di perfezione più rapidamente che altrove. Di conseguenza, l’America aveva il dovere di estendere i benefici di tale sistema. L’influenza di tale teologia millenarista, o premillenarista («stiamo vivendo gli ultimi giorni») sulla politica americana è stata più incisiva negli anni della guerra fredda («dobbiamo affrontare il male assoluto; se non vinciamo in Vietnam, Nicaragua ecc. le nostre difese contro il disordine e il male si sgretoleranno in ogni luogo»). Lo gnosticismo politico del Vangelo Sociale esercitò un’influenza dominante nel periodo che va dal 1916 alla guerra fredda e condiziona ancora oggi il pensiero americano. Wilson si recò alla Conferenza di Pace di Parigi con la visione gnostica che gli Stati Uniti potessero portare pace, libertà e giustizia al mondo grazie a un atto di volontà. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, fu questa visione che informò la retorica di molte grandi figure pubbliche, da Roosevelt a Wendell Wilkie, a Henry Luce. Si tratta di una convinzione annunciata sin dall’inizio nei discorsi della politica americana.

 La costruzione di una copia della Statua della Libertà nella piazza Tiananmen di Pechino nel 1989 fu considerata dagli Stati Uniti un’ulteriore conferma che la causa americana è quella di tutta l’umanità. Durante le amministrazioni di Reagan e George Bush senior era opinione comune che il desiderio del resto del mondo di emulare gli Stati Uniti fosse dimostrato dalla grande richiesta di emigrare in America. In questo modo non si riconosceva che le cause principali dell’emigrazione sono la povertà e l’oppressione politica nel Paese di provenienza e che la scelta di dove andare dipende in genere dal luogo dove le persone possono arrivare e da chi permette loro di entrare. Il trionfalismo americano del periodo gnostico contrastava in modo considerevole con la modestia del tempo delle origini, quando Lincoln pregava umilmente che la nazione potesse trovare se stessa compiendo la volontà di Dio. Nei primi due anni della prima guerra mondiale, come potenza neutrale, gli Stati Uniti si considerarono unici e al di sopra delle parti, moralmente diversi, custodi dei sani e giusti valori del tempo di pace ed esponenti della pace senza vittoria. Tuttavia, tale convinzione della distanza e della superiorità morale americana, a partire dal 1917, fu trasformata in una campagna volta ad annientare i signori della guerra tedeschi grazie alla «guerra che avrebbe messo fine alla guerra». Si riteneva infatti che gli Stati Uniti non solo avessero motivazioni superiori a quelle dei loro alleati, ma anche la missione morale di riformare l’Europa. L’idea di Wilson che gli altri leader nazionali presenti alla Conferenza non rappresentassero i loro popoli esprimeva la sua convinzione di essere lui, il leader dell’America, a rappresentarli veramente, poiché i valori fondamentali e gli interessi generali dell’umanità erano quelli già raggiunti o realizzati negli Stati Uniti, alla cui condizione gli altri non potevano che aspirare.

Questo fu il nazionalismo più alto del periodo Wilson, che è prevalso a partire dalla seconda guerra mondiale. Sia la Società delle Nazioni sia le Nazioni Unite sono state create per riorganizzare la società internazionale secondo i valori degli Stati Uniti, per mobilitare la coscienza e l’energia dell’umanità contro l’aggressione, abolire i Governi autoritari e rendere le persone capaci di scegliere la sovranità sotto la quale risiedere. A questa forma più alta di nazionalismo si accompagnò una recrudescenza di quello più basso. Il trauma provocato dalla guerra mondiale e certamente quello determinato dal senso di tradimento vissuto dall’America quando la Rivoluzione russa si trasformò nella Rivoluzione bolscevica produssero un’ondata di politica favorevole agli abitanti locali contro gli immigrati (nativismo), chauvinismo e razzismo. A questo non era estranea la convinzione che il comunismo straniero e l’anarchia minacciassero il Paese. Il rapporto degli americani con la rivoluzione è sempre stato difficile e ambiguo, e il colpo di Stato bolscevico a Mosca rappresentò uno shock per i pregiudizi americani. Nel XVIII secolo c’era stato un acceso dibattito per stabilire se il Paese dovesse oppure no entrare in guerra per sostenere la Rivoluzione francese, che inizialmente era stata considerata un’imitazione della Rivoluzione americana.

Nel 1917, la Rivoluzione di Ottobre in Russia fu salutata nello stesso modo. Sette giorni dopo l’abdicazione dello zar, gli Stati Uniti furono il primo Paese a riconoscere il nuovo governo russo di Aleksandr Kerensky. Il presidente Wilson dichiarò che la Russia era una nazione idonea per la Società delle Nazioni. Ma quando i bolscevichi presero il potere, dichiararono che la loro rivoluzione non aveva nulla in comune con tutto ciò che era venuto prima e rappresentava una strada completamente nuova nella storia mondiale. Questa volta gli Stati Uniti furono l’ultima potenza a riconoscere il nuovo Governo. L’ostilità americana nei confronti dei bolscevichi dipendeva molto dal fatto che l’Unione Sovietica minacciava di prendere il posto degli Stati Uniti all’avanguardia della storia. Ora erano i russi — e non gli americani — che rivendicavano il ruolo di guida nella strada verso il futuro. La risposta data al problema fu di affermare che la Rivoluzione bolscevica era una falsa rivoluzione, che usurpava la vera rivoluzione democratica, l’opera di una minoranza di cospiratori guidata dall’interesse personale, impostasi grazie alla propaganda e alla sovversione. Analoghe argomentazioni furono utilizzate nei confronti delle rivoluzioni cinese, cubana e vietnamita e della maggior parte degli altri movimenti del Terzo Mondo che nacquero contro i poteri costituiti in nome della rivoluzione proletaria. Ma gli Stati Uniti si ritrovarono sempre più isolati nel sostenere la tesi che essi soli erano gli autentici custodi dei valori rivoluzionari. Il nazionalismo localista, che prevalse per un certo periodo dopo la grande guerra, esprimeva qualcosa di più che la disillusione nei confronti del fallimento della riforma internazionalista americana. Negli Stati Uniti era sempre stata presente una schietta vena di nativismo ed esclusivismo verso «gli ultimi arrivati» da parte di coloro che erano già americani. La trasformazione, intorno al 1920, dell’«americanismo» da un’ideologia del divenire — quella dell’assimilazione degli immigrati — in un’ideologia dell’essere significò che quello che in un’altra epoca era patriottismo divenne intolleranza e aggressività retorica. L’abitudine di suonare l’inno nazionale agli eventi sportivi e scolastici e la recita del Giuramento di fedeltà a scuola furono tutte innovazioni che risalgono al periodo successivo al 1919.

 L’Atto di Immigrazione del 1924 stabilì un tetto massimo di 150.000 persone alle quali era permesso ogni anno l’ingresso nel Paese, imponendo quote nazionali legate alla composizione nazionale esistente negli Stati Uniti. Il redivivo Ku Klux Klan nel 1920 contava poche centinaia di aderenti, mentre nel 1924 i suoi membri erano quattro milioni e mezzo. Il suo scopo era quello di unire i maschi bianchi, cittadini «gentili» nati negli Stati Uniti, che non dovevano alcuna fedeltà a nessun Governo, nazione, istituzione, sètta, sovrano, persona o popolo straniero, al fine di preservare la supremazia dei bianchi e conservare, proteggere e mantenere le istituzioni, i diritti, i privilegi, i princìpi, le tradizioni e gli ideali distintivi dell’americanismo puro. La xenofobia di matrice nativista e populista del periodo successivo alla grande guerra assomigliava al maccartismo degli anni Cinquanta, quando il Paese fu di nuovo messo sottosopra dalla ricerca di presunti sovversivi. Tuttavia esisteva una differenza. Il nazionalismo nativista del primo periodo aveva trovato un terreno di coltura nella classe operaia protestante di origine anglosassone e celtica, il ceppo originario del Paese, che si credeva minacciata dall’immigrazione cattolica ed ebraica proveniente dal Sud e dall’Est europeo. Il maccartismo, invece, era un fenomeno che riguardava gli immigrati da poco integrati, spesso quindi non cattolici, che intendevano dimostrare che la purezza del loro «americanismo» era superiore a quella dei protestanti anglofili, da maggior tempo insediati ma liberali e cosmopoliti. Perciò il Dipartimento di Stato divenne il principale bersaglio dei maccartisti, insieme alle istituzioni scolastiche private orientali, alla stampa orientale e al servizio pubblico. La natura ideologica della cittadinanza americana apparve ancora una volta evidente nell’affermazione che tali persone e gruppi praticavano attività «antiamericane». Attività antifrancesi o antisvedesi sarebbero inconcepibili, in quanto l’essere francese o svedese è una condizione, non un impegno politico. Conclusione Il periodo del nazionalismo difensivo degli Stati Uniti terminò con la seconda guerra mondiale. Quello che seguì fu un fenomeno diverso, né isolazionista né xenofobo, ma liberale e internazionalista e anche, sempre più, ideologico.

Alcuni statunitensi degli anni Quaranta considerarono la sfida totalitaria dell’Unione Sovietica in termini metafisici: la Libertà contro il Male. Il linguaggio metafisico continuò a essere usato anche durante i mandati di Ronald Reagan e George Bush senior. Nel periodo che va dagli anni Cinquanta sino alla fine della guerra fredda si assistette a un rapido declino dell’influenza della principale religione e ad una crescente immigrazione di asiatici, ai quali le convenzioni e i simboli — la religione civile — della tradizione nazionale americana erano estranei. La seconda guerra mondiale aveva prodotto un forte sradicamento a livello popolare, e la trasformazione economica postbellica del Paese comportava l’effettiva perdita delle identità regionali della nazione, che erano state determinanti per il suo sviluppo storico, ancorando gli americani a determinati luoghi e a una solida autosufficienza rispetto a ciò che avveniva altrove. Nell’ultima metà degli anni Quaranta, il Sud ancora esisteva come regione e cultura a sé stante, con una letteratura vigorosa e originale, in un certo modo ancora esso stesso una nazione. A questo misero fine il cambiamento fisico e sociale, la mobilitazione e la mobilità, imposti dalla guerra e dall’economia postbellica. Anche la civiltà locale del rivale New England era scomparsa. La tradizionale cultura alta della Nuova Inghilterra era passata da un rigido calvinismo all’unitarismo e al trascendentalismo sino a una pallida scienza cristiana. La letteratura del New England cessò di esistere con l’espatrio di Henry James. La classe dirigente del New England e di New York, che aveva gestito le istituzioni finanziarie e industriali degli Stati Uniti dai tempi della guerra civile fino all’amministrazione Nixon, fu annientata come classe politica dalla catastrofe del Vietnam, della quale era stata uno dei principali responsabili. I suoi membri, che occupavano posti chiave nelle amministrazioni Kennedy e Johnson (come in quelle dei loro predecessori), avevano maturato la convinzione che esistesse una stretta relazione tra il comunismo sovietico, quello vietnamita, cinese e cubano e il radicalismo del Terzo Mondo, ed erano ben decisi a non scendere a patti con il totalitarismo e tanto meno a sacrificare un alleato. La loro incapacità di riconoscere la specificità storica del Vietnam negli anni Sessanta, e la loro disinvolta adesione alla visione di un mondo ideologizzato, hanno condotto gli Stati Uniti a una crisi dalla quale non sono ancora del tutto emersi.

La vecchia America era quella degli Stati originari e dell’apertura dell’Ovest. L’America degli immigrati aveva il problema (non sempre risolto con successo) di mettere nuove radici nei ghetti urbani, nei quartieri e nelle città degli Stati centrali e del Middle West. Era l’America del «sogno americano», che oggi notoriamente non esiste più se non nei film degli anni Trenta e Quaranta. Gli Stati Uniti contemporanei sono figli della guerra del Vietnam, prodotto dell’ottimismo liberale e della fede nel valore universale dei princìpi democratici americani. Per giustificarla si argomentava che il movimento comunista nel Vietnam del Sud era l’agente di una politica deliberata e provocatoria di aggressione internazionale da parte della Cina, mirata a ribaltare l’equilibrio del potere mondiale tramite la mobilitazione del radicalismo del Terzo Mondo, ovvero il «mondo rurale» contro il «mondo urbano» dei poteri democratici occidentali. Il Governo statunitense aveva piena fiducia nella propria presunta missione di insediare la democrazia in Asia in contrapposizione al comunismo, e pochi a Washington potevano immaginare che gli Stati Uniti non avrebbero prevalso. L’intervento nella rivoluzione nazionale del Vietnam ricordava in modo evidente gli interventi imperialisti degli Stati Uniti nelle rivolte coloniali di Cuba e delle Filippine del 1898. L’ambizione era la stessa che aveva ispirato la crociata di Wilson nel 1917-19. Essa rifletteva la stessa fiducia nell’applicabilità della democrazia americana in un’Asia in rivolta che aveva spinto Roosevelt a farsi garante per la Cina del Kuomintang, affinché fosse uno dei «Cinque Grandi» della seconda guerra mondiale, con un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il potere di veto conferitole nel 1945. L’intervento in Vietnam fu l’espressione di un’assoluta fiducia nazionale dell’America, il culmine di un periodo in cui gli Stati Uniti erano non solo l’economia e la potenza militare più forti del mondo, ma il leader riconosciuto del mondo libero. Il presidente, senza smettere di essere il presidente degli Stati Uniti, nell’immaginario collettivo degli americani era diventato il presidente della democrazia internazionale, e di altro ancora. I Paesi dell’Europa Occidentale e il Giappone non solo accettarono passivamente questo stato di cose, ma risolsero alcuni importanti problemi interni diventando satelliti americani. La politica americana divenne la loro politica; la resistenza al consolidarsi di tale situazione fu incredibilmente debole: soltanto Charles de Gaulle vi si oppose creando qualche problema.

Il mondo libero non era esterno agli Stati Uniti, bensì un’estensione o un’irradiazione della nazione americana. Il nazionalismo statunitense era dunque una forma intermediaria di patriottismo, o almeno così era considerato dagli americani. Ma la guerra si rivelò un fallimento. Il Vietnam fu una sconfitta. Gli americani, in una situazione di confusione generale, si trovarono non solo frustrati nel proseguire la campagna militare, ma anche costretti ad affrontare il fatto che non erano inequivocabilmente dalla parte del bene. La guerra che gli Stati Uniti avevano intrapreso era sempre più macchiata di atrocità e terrore, tanto che tra i militari di leva serpeggiava una certa scontentezza e nel Paese si diffuse un’improvvisa reazione politica nei confronti di ciò che stava accadendo, abbastanza forte da provocare la caduta di un presidente. L’incertezza che ha segnato gli Stati Uniti a livello nazionale a partire dalla crisi del Vietnam consisteva nel timore di perdere contenuto e di tradire un’eredità morale, accompagnato da ciò che sembrava la perdita di quella capacità o volontà di lavorare e sacrificarsi insieme che in passato aveva rappresentato la migliore qualità del popolo americano. La presidenza Reagan rappresentò un intermezzo di finta ripresa, durante il quale il nazionalismo del Paese raggiunse toni quasi deliranti, mentre la vera minaccia nei confronti degli Stati Uniti declinava rapidamente.

L’Unione Sovietica non rappresentava più un reale pericolo. Malgrado questo, gli Stati Uniti la consideravano con eccessiva preoccupazione e conseguivano surrogati di «vittorie» su Granada, Libia e Panama, accompagnati da celebrazioni della potenza americana caratterizzati da un trionfalismo così ipertrofico da mostrare in maniera eclatante il dubbio interiore che attanagliava la nazione. La realtà era invece che la leadership militare americana non accettava più alcuna sfida senza un risultato garantito, mentre gli americani sapevano che la vita di ogni giorno stava peggiorando, invece di migliorare. L’epoca si è chiusa con il Paese gravemente indebitato, l’industria in crisi, lo standard di vita individuale impoverito, la prospettiva di un futuro in cui i figli avrebbero vissuto peggio dei propri genitori, e quindi una contraddizione del caratteristico ottimismo nazionale. George Bush pagò il prezzo politico di tale situazione nelle elezioni presidenziali del 1992, quando Bill Clinton si assunse la responsabilità di cercare di invertire la tendenza al declino. Il primo ed espansivo nazionalismo degli Stati Uniti — dal 1848 al suo acme durante la guerra fredda — si fondava sulla fede nell’assunto «uno da molti» (ex pluribus unum) e sulla sua realizzazione: la nazione che non era un popolo, ma un’ideale incarnato. La nazione del 1900 era un luogo diverso e più diviso rispetto a prima, con il suo narcisismo, la sua ossessione con le gratificazioni di ordine materiale e i suoi standard educativi in declino, la sua nuova immigrazione e l’eredità irrisolta della schiavitù, evidente nei ghetti neri e nella retorica e nella realtà dell’odio razziale. La questione di fondo rimane aperta.

Esiste un nazionalismo americano che si è dimostrato capace di grande altruismo ma anche di spietata violenza nei confronti dei nemici inermi. La forma che assumerà in futuro dipenderà dall’assetto interno: se il tentativo di far rinascere l’idea nazionale fallirà o avrà successo e quindi se il Paese riconquisterà la fiducia in se stesso. In mancanza di questo, l’indubbia potenza degli Stati Uniti potrebbe essere utilizzata in una ricerca al di fuori di essi di quelle rassicurazioni che non sono riusciti a trovare al loro interno.

 ******** 1 G. F. Keenan, American Diplomacy: 1900-1950, Chicago, University Press, 1951. 2 Cfr A. de Tocqueville, Democracy in America, New York, Vintage, 1954. 3 Personaggio protagonista di una canzone nata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, emblema del modello di nero da combattere per emanciparsi. 4 Lo storico di Cambridge H. Butterfield chiamava questa «l’interpretazione liberale della storia», benché sia facilmente identificabile nella sua forma naturalizzata americana, secondo la quale tutta la storia aveva come punto di arrivo la nascita degli Stati Uniti e della società americana. © La Civiltà Cattolica 2008 I 349-362 quaderno 3784

 
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