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Lo facesti di poco inferiore agli angeli.
Di Francesco Agnoli - 16/01/2008 - Scienza - 1535 visite - 0 commenti

Si dice che Teresa d’Avila, meditando il padre nostro, si fermasse alle prime due parole, padre nostro, appunto, come un piccolo bimbo che dice solo “babbo, o mamma”, e non ha bisogno di dire altro, perché ha già espresso tutto; perché in quel dolci suoni vi è tutto il suo universo, tutta la sua fiducia, il suo totale abbandono.

Ciò di cui il bambino ha bisogno, il padre lo sa, e il bimbo, che invece non lo comprende appieno, si affida. Era sufficiente, per Teresa, pensare alla sua dignità di figlia di Dio, all’idea di avere un Padre che la amava, per lei, solo per lei, e per tutti, per sentirsi felice, serena, gioiosa, anche di fronte al dolore. Secoli più tardi Teresa del Bambin Gesù avrebbe fondato la sua spiritualità sull’abbandono, sulla fiducia in Dio, convinta che “tutto è grazia”, che anche nelle vicende più tristi della vita vi è un significato, che alla fine risplende, o che magari agli occhi degli uomini rimane occulto, ma si svelerà poi, alla fine di tutto, quando saranno resi noti i pensieri dei cuori e tutto si chiarirà, alla luce di Dio. Con queste convinzioni vivevano anche i contadini del medioevo, anche gli uomini di un tempo, quelli che videro carestie, pestilenze, quelli che assistettero a invasioni, e congiure, quelli per i quali la morte prematura, di un figlio, di una moglie, di un marito in guerra, non erano cose così rare…

Eppure costoro ritenevano per vere le parole del salmista: “ Che è l’uomo perché te ne ricordi?...Lo facesti di poco inferiore agli Angeli”. Che ci credessero ce lo dicono le poesie, le lapidi, le chiese grandiose, i canti della cristianità del passato: Rorate caeli desuper et nubae pluant Iustum… Dio era piovuto dal cielo e aveva preso dimora tra gli uomini, cioè gli uomini erano divenuti degni di Dio, a causa di una colpa, ma di una felix culpa. La colpa, insomma, rimaneva, il senso della propria miseria pure, ma accanto ad essa l’idea di una dignità, dell’uomo, veramente grandiosa. Non si chiamava, questa concezione, umanesimo, ma era sicuramente qualcosa di più, una visione dell’uomo ben più alta di quella degli stessi umanisti. Oggi, dopo i secoli della miscredenza e del dubbio, quest’idea sembra sempre più impossibile: siamo tutti orfani, vuoi perché siamo nati dopo i gulag e i lager, vuoi perché ci consideriamo, come J. Monod, “zingari al margine dell’universo”, cancri del pianeta, nient’altro che animali, “evoluti per caso”.

Per questo la speranza è una virtù che non ci appartiene più: crediamo di sapere, di aver indagato i misteri, le vie del Signore, di aver visto che non portano da nessuna parte, e, chiusi nel nostro bozzolo, come se la storia fosse finita, chiudiamo tutte le porte alla speranza, ridotta, come in Baudelaire, ad un pipistrello che non riesce ad alzarsi in volo, bloccato da un soffitto basso e marcito. Nella vita di tutti i giorni, l’assenza di speranza significa chiusura alla famiglia, ai figli, alla provvidenza; significa ansia per la carriera, necessità di avere tutto sotto controllo, calcolo e misura in ogni cosa, anche nell’amore. Siamo tanti personaggi ingessati, che non si fidano di nessuno che non hanno un padre celeste, e che avanzano “contando” sulle proprie misere forze. Per questo il papa nella sua enciclica ha voluto ribadire che “il cielo non è vuoto . La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c’è una volontà personale, c’è uno spirito che in Gesù si è rivelato come Amore”. In questo sta la nostra speranza, cioè la nostra certezza.

Questa posizione non è solo dei semplici e degli ignoranti. E’, ad esempio, anche quella di un famoso scienziato, Owen Gingerich, professore di astronomia e di storia della scienza all’Università di Havard, autore di un libro affascinante: “Cercando Dio nell’universo” (Lindau). Gingerich parte nelle sue riflessioni da Keplero, quando alla fine del suo “Harmonices mundi”, riecheggiando un salmo di lode, scriveva: “grande è il Signore nostro, grande è la sua sapienza, non ha confini; lodatelo voi, o cieli, lodatelo voi, o Sole, o Luna, o Pianeti, qualunque senso per percepire e qualunque lingua adoperiate per manifestare il vostro Creatore; lodatelo voi, o armonie dei cieli, lodatelo voi che osservate le armonie manifeste; loda anche tu, anima mia, il Signore creatore tuo finché vivrò…”.

Con la stesso entusiasmo di Keplero, secoli dopo, l’astronomo Gingerich fa le sue professioni di fede: afferma di credere “nel disegno intelligente” (ma non nell’ Intelligent Design), negli attributi di “origine divina”, “creatività, coscienza e consapevolezza, che è poi autoconsapevolezza: tutti caratteri essenzialmente umani”, e scrive: “sono persuaso della presenza, al di sopra e all’interno del cosmo, di un Creatore dotato di una intelligenza superiore. Credo inoltre che il contesto offertoci dal nostro universo, così ricco di elementi confacenti al genere umano e tale da permettere e da incoraggiare l’esistenza di forme di vita consapevoli, faccia parte del disegno e dello scopo di un Creatore”. E ancora: “può darsi che l’universo sia come una grande pianta il cui fine ultimo è dare vita a un piccolo bellissimo fiore. E può darsi che quel piccolo, bellissimo fiore sia proprio l’uomo”, mentre “gli evoluzionisti che rifiutano qualsiasi teleologia e che, nel dichiarare il loro credo in una sorte di roulette cosmica, parlano di un universo assolutamente privo di scopo, non stanno presentando un fatto scientifico dimostrato; essi, piuttosto, stanno difendendo le loro personali prese di posizione in ambito metafisico”.

 
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