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Insegnare: non è un lavoro per giovani
Di Giulia Tanel - 31/07/2011 - Scuola educazione - 1348 visite - 0 commenti
I numeri parlano chiaro, purtroppo: per i prossimi dieci anni i giovani laureati o laureandi che vorranno andare ad insegnare dovranno rinunciare al loro obiettivo. Il governo ha fatto la sua scelta: le circa 230 mila cattedre vacanti in tutta Italia verranno infatti assegnate, pressoché in totalità, ai precari. In sostanza – portando, a titolo d’esempio, la fattispecie degli insegnanti di lettere – per il biennio 2012-2013, per gli istituti superiori, è stato stimato (anche se pare che le Gelmini abbia rivisto i numeri, che però nella sostanza varieranno di poco) che ci sarà bisogno di soli 26 nuovi professori abilitati: in media poco più di uno per regione, fatto salvo che in quattro di queste il numero previsto è pari a zero (leggasi: “nessuno neolaureato verrà assunto”).
La notizia, seppure abbia un’incidenza determinante per il futuro di molti giovani, per ora non ha avuto il giusto rilievo sui giornali; e questo a discapito, soprattutto, di tutti gli studenti che – una volta finita la quinta superiore, o conseguita una laurea triennale in materie umanistiche – devono scegliere dove investire per il loro futuro. Perché nessuno dice loro che l’insegnamento non è più lo sbocco principale (vi arriverà meno di un laureato su mille, o meno) delle Facoltà Umanistiche e di Matematica o Fisica in modo da consentire loro una scelta ponderata e presa con cognizione di causa?

Ma andiamo con ordine e cerchiamo, nel limite del possibile, di spiegare come si è giunti a questa spiacevole situazione.
Fino al 2008 chi aveva intenzione di diventare insegnante in una scuola secondaria doveva, una volta conseguita la laurea quinquennale, frequentare per due anni le Scuole di Specializzazione per l’insegnamento secondario (Ssis). Terminato questo percorso, il futuro docente otteneva l’abilitazione all’insegnamento e veniva automaticamente, di diritto, immesso nelle graduatorie per l’assegnazione delle cattedre.
Tale sistema, però, per come era pensato, ha finito con lo sfornare un sovrannumero di docenti abilitati, i quali sono andati via-via incrementando le schiere dei precari. Inoltre, in tal modo le graduatorie hanno finito con l’ingolfarsi in maniera inverosimile.

Infine, nel 2008 le Ssis sono state chiuse. Era sotto gli occhi di tutti che il sistema non funzionava, ed anzi, era controproducente. Era senza senso sia per lo Stato, che abilitava moltissimi insegnanti sapendo di renderli precari; sia per i futuri docenti, visto che il percorso biennale delle Ssis non aveva una reale valenza formativa e comportava un esborso di soldi per un ulteriore biennio una volta conclusa l’università, senza contemporaneamente dare la possibilità di lavorare e guadagnare; sia per l’insieme degli enti pubblici, i quali si vedevano costretti ad investire tempo e risorse in un ambito che portava riscontri quanto meno dubbi in termini di utilità (a dirlo sono i dati sulla preparazione degli studenti italiani, oltre che il comune buonsenso).

Ad ogni modo, posta la chiusura di questo percorso di abilitazione, in tale settore c’è stato un vuoto normativo che si è protratto per ben tre anni; fino a quando, cioè, l’attuale ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha promosso – con l’articolo 10 del DM 249 del 10 settembre 2010 – l’istituzione di un Tirocinio Formativo Attivo (TFA), che ha il fine di abilitare la futura classe docente italiana.
Il programma attuativo è stato pensato in comunione con la pressoché contemporanea riforma delle università e prevede, nella sostanza, le seguenti innovazioni. Per prima cosa, nel prossimo futuro (sul quando, per ora, non vi sono certezze) verranno istituiti dei corsi di laurea magistrale a numero chiuso ed abilitanti, ai quali potranno accedere tutti coloro che saranno in possesso di una laurea triennale compatibile con il percorso che intendono seguire e supereranno un test d’ingresso.
Il numero degli accessi alle magistrali abilitanti varierà di anno in anno e di regione in regione, e sarà stabilito sulla base del fabbisogno di insegnanti previsto per gli anni di riferimento. Tutto questo per evitare – o, almeno, per tentare di tenere sotto controllo – la piaga sociale costituita dal precariato.

Una volta terminata la magistrale abilitante, e quindi oramai in possesso di una laurea quinquennale, i futuri docenti dovranno svolgere un ulteriore anno di formazione post-universitaria: il subentrato Tirocinio Formativo Attivo, appunto, che nella sostanza andrà a sostituire le vecchie Ssis.
Il TFA – al quale, ancora una volta, avranno accesso solo il numero di docenti a cui le varie regioni saranno in grado di garantire un impiego – prevede un’offerta di formazione di alto livello articolata in 60 CFU, spalmati su un anno e suddivisi in diverse tipologie di attività. Esse andranno dagli insegnamenti pedagogici e didattici, al consolidamento delle conoscenze nelle specifiche discipline, allo svolgimento di un tirocinio articolato in un complessivo di 475 ore. Questo un ultimo fatto, nello specifico, appare come un utilissimo passo in avanti.
Al termine dell’anno di TFA, i neo-insegnanti dovranno sostenere un esame di Stato, che avrà la funzione di abilitare all’insegnamento delle discipline comprese nella classe di concorso per la quale si è studiato.

Insomma, nella teoria il DM 249 a firma del ministro Gelmini appare come un netto passo in avanti rispetto alle vecchie Ssis. Nella pratica, però, quello che sta lentamente emergendo in questi mesi è che la sua attuazione è tutt’altro che facile.
Il primo dato è che le università sono in difficoltà nel garantire, per il prossimo anno accademico 2011-2012, i corsi di laurea magistrale abilitanti. Secondo le ultime notizie, con il prossimo settembre partiranno esclusivamente i corsi rivolti a chi ha intenzione di diventare professore presso un istituto secondario inferiore.
Il secondo problema attuativo è che il percorso di abilitazione post-laurea, il TFA, verrà aperto per la prima volta a novembre (anche se c’è chi parla di gennaio/febbraio), ma il numero dei posti disponibili sarà risicato. Insomma, ad avervi accesso saranno pochissimi neolaureati (zero, uno, quindici per regione…), perché il governo ha scelto – o è stato costretto a scegliere? – che la priorità è garantire il posto fisso ai circa 230 mila precari in graduatoria da anni. Inoltre, a provare il test d’ingresso del TFA di quest’anno vi saranno i laureati dal 2008, anno a cui risale la chiusura del percorso abilitante della Ssis… Per dirla con Gianni Morandi: «Uno su mille ce la fa…».

Tutte queste difficoltà hanno provocato la reazione degli studenti, comprensibilmente sconcertati di fronte alla prospettiva che, per loro, per i prossimi dieci anni diventare insegnanti sarà pressoché impossibile. «Cosa ci riserva il futuro?», si chiedono con un’ombra di preoccupazione.
In una lettera aperta al ministro Gelmini, firmata dal CLDS (Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio) e datata 30 giugno 2011, gli universitari scrivono: «[…] non possiamo condividere che il prezzo di questa stratificata e annosa situazione lo debbano pagare unicamente i giovani, cioè noi. È inaccettabile, per non dire folle, la decisione di bloccare di fatto le abilitazioni, cioè di salvaguardare unicamente i diritti acquisiti di chi è già “all’interno del sistema”, impedendo l’ingresso di nuove forze, di giovani motivati, preparati, desiderosi di costruire, disposti anche a tutti i sacrifici necessari in questo tempo di crisi. Questo significa uccidere il futuro, frustrare le aspirazioni di tanti studenti e di tanti laureati usciti dopo il 2007 dalle università (senza abilitazione, e non per loro colpa), mortificare la professione insegnante in generale e creare un buco generazionale nel corpo docente, con evidenti ricadute anche sulle nostre università, su tutti i corsi di laurea che hanno tra gli sbocchi naturali l’insegnamento. Tanto vale che i Presidi o i nuovi Direttori di Dipartimento avvisino debitamente gli studenti e i potenziali iscritti: “lasciate ogni speranza voi ch’entrate”, se pensate di insegnare».

Di fronte a tutto questo, una riflessione sorge spontanea: un Paese che non punta sui giovani è destinato a non avere un futuro e, in molti ambiti, la strada che l’Italia sta percorrendo è, purtroppo, proprio in questa direzione. Almeno la scuola, salviamola!
 
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