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Indro Montanelli raccontato da Piero Gheddo
Di Rassegna Stampa - 23/07/2011 - Cultura e societą - 1160 visite - 0 commenti

Ho conosciuto Indro Montanelli nel 1972 quando, da presidente di una giuria che comprendeva Enzo Biagi, Guido Piovene, Paolo Monelli e altri, mi diede il premio dei giornalisti italiani “Campione d’Italia”, per il volume “Terzo Mondo perchè povero” (EMI 1971, pagg. 196).

Nelle motivazioni del Premio definì i missionari “gli italiani più amati nel mondo”. E dopo la consegna mi prese in disparte e mi disse: “Hai vinto il Premio perché sei un missionario e scrivi dei missionari, raccontando le loro esperienze… Se eri un prete e parlavi dei preti in Italia, il Premio te lo sognavi”.

Ero troppo timido e giovane per reagire. Nel 1886 mi chiamò a collaborare con “Il Giornale”. Sapeva che viaggiavo molto e mi chiese di mandargli articoli sulla vita e il lavoro dei missionari. Così è iniziata una lunga collaborazione, continuata con “La Voce”. Gli mandavo cartoline e articoli e quando tornavo in Italia andavo a trovarlo.

Era curioso di come vivevano e cosa facevano i missionari, dei quali aveva una visione mitica. “Voi missionari siete tutti eroi, diceva, perché abbandonate la nostra bella Italia, per andare a vivere tra i più poveri dei poveri in capanne di fango e paglia”. Quando nel 1991 la Somalia era nel caos e io c’ero stato da poco, Montanelli mi chiese articoli e scrisse due editoriali invitando i lettori ad “aiutare i missionari di padre Gheddo in Somalia”, dicendomi di precisare chi erano questi missionari e missionarie. So che le Missionarie della Consolata di Torino e i Francescani milanesi lo ringraziarono per le notevoli somme ricevute.

Ho conservato due testi di Indro. Il primo è una sua “stanza” sul “Corriere della Sera” di domenica 7 febbraio 1999, che era una mia lunga lettera pubblicata integralmente, dichiarando: “Ciò che padre Gheddo dice è tutto vero: tonnellate di rifornimenti e “cattedrali nel deserto” servono a poco. Bisogna insegnare agli africani a “fare da sé”, come infatti fanno i missionari…Ho detto e ripeto che per l’Africa non servono né le diplomazie con i loro “protocolli”, né gli eserciti con le loro armi. Servono solo i missionari. Se vogliamo aiutare l’Africa, aiutiamo loro”.

 Il secondo testo di Indro è la prefazione al mio volume “Missionario – Un pensiero al giorno” (Piemme 1997, pagg. 648), nella quale si legge: “Per soccorrere quei popoli disgraziati un mezzo ci sarebbe. Dare la gestione dei miliardi di “aiuti” ai missionari, di cui padre Gheddo scrive in questo libro: quelli che da anni e decenni vivono laggiù, peones tra i peones, sfidando lebbra e colera e tutto il resto, combattendo la fame non con la distribuzione di farina, ma insegnando alla gente – nella sua lingua – come si coltiva il grano, come si scavano i pozzi e i canali, condividendone, giorno dopo giorno, rischi e privazioni. E’ tra questi ultimi grandi Crociati della civiltà cristiana che la Chiesa dovrebbe reclutare i suoi nuovi santi, perché sono i missionari, figli del nostro mondo ricco e arido, che indicano ai giovani la via per stabilire con i popoli poveri ponti di comunicazione e di aiuto fraterno".

“Per aiutare i popoli poveri – aggiungeva - i miliardi non bastano. Ci vogliono i missionari alla Marcello Candia (industriale della Milano opulenta che vende tutto e va in Amazzonia a servire i poveri) e alla Clemente Vismara (eroe della prima guerra mondiale che trascorre 65 anni fra i tribali in Birmania), di cui parla questo libro. Ma i missionari sono difficili da stanziare nei bilanci dello Stato. Dovrebbero produrli le nostre famiglie, la nostra scuola, la nostra cultura cristiana. Temo che la vocazione profonda della civiltà cristiana – la carità verso gli altri – sia oggi in ribasso, almeno nelle cronache quotidiane e nella “filosofia di vita” della nostra società”.

Ho visto con piacere che in queste pagine padre Gheddo parla di padre Olindo Marella, che egli definisce “un santo del nostro tempo”. E’ vero, l’ho conosciuto bene come insegnante di filosofia a Rieti e poi a Bologna. Lo si vedeva per le strade a mendicare, completamente dedito alla missione di aiutare i ragazzi sbandati, i barboni, gli anziani abbandonati, i poveri. Mi insegnò a vivere per gli altri. Insegnamento che peraltro io non ho seguito. In un certo senso oggi lo invidio. E’ morto ignaro di se stesso, ignaro di essere santo”.

Conservo di Indro un commosso ricordo per le volte che mi bloccava e mi chiedeva perché il Papa dice così o cosà, perché la Chiesa non capisce questo o quel problema, come si può credere a Dio che si lascia flagellare e crocifiggere… Era un uomo assetato di Dio, voleva capire qualcosa del Creatore e Signore di cui sentiva la presenza ma non riusciva a parlarci e ad avere risposte ai suoi interrogativi. Il 22 aprile 1989 sono andato a fargli gli auguri per i suoi ottant’anni e mi dice: “Fra me e te il fortunato sei tu che hai ricevuto la fede. Io invece non ce l’ho. Tu sai perché vivi, io ancora non lo so. Infatti tu sei sempre sereno e sorridente, mentre io soffro di insonnia e di depressione”. Ma questi sono i palpiti di un’anima che lasciamo alla paterna bontà e misericordia di Dio. Prego per lui, ma sono sicuro che la sua onestà intellettuale e la sua ricerca di Dio hanno già ricevuto la giusta ricompensa dal Padre nostro che è nei Cieli. Gheddo Piero

 
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