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Genova 10 anni dopo: i cattolici non capiscono
Di Rassegna Stampa - 19/07/2011 - Attualitą - 1018 visite - 0 commenti

di Piero Gheddo

Dieci anni fa (20-22 luglio 2001) si svolgeva a Genova il G8. Gli otto Grandi del mondo si riunivano per discutere su come, nel tempo della globalizzazione, aiutare i “paesi in via di sviluppo”, specialmente quelli dell’Africa nera. Però in quei giorni vennero alla ribalta non i poveri che soffrono la fame, ma i “No Global” che manifestavano contro gli 8 Grandi e nelle frange estreme mettevano a ferro e fuoco la città di Genova. Nel movimento No Global, circa il 60% dei 200.000 manifestanti erano cattolici, venivano da parrocchie e associazioni cattoliche.

Le guide, Vittorio Agnoletto, Luca Casarini e altri si proclamavano cattolici, ma l’ideologia che i No Global esprimevano non era certamente ispirata dalla fede. D’altra parte, il “Manifesto delle Associazioni cattoliche ai leaders del G8”, firmato il 7 luglio da decine di associazioni cattoliche e istituti religiosi e anche missionari, era la chiara prova di una sudditanza dei cattolici alla corrente dei contestatori di professione, che si ispirano al marxismo e al laicismo. Si ripeteva lo schema del Sessantotto. I cattolici all’origine della protesta del 1968, come del 2001; all’inizio, in ambedue i casi, le gerarchie cattoliche tentano il dialogo con i giovani contestatori, mostrando una notevole apertura alle loro ragioni. Ma poi, nel 1968 come nel 2001, la Chiesa si accorge ben presto che la buona fede e l’indubbia generosità dei giovani non bastano a moderare gli eccessi della protesta e l’apporto culturale dei cattolici viene fagocitato dalle altre componenti del movimento.

Era successo nelle assemblee di occupazione delle università nel Sessantotto, succede nei cortei e nelle manifestazioni del luglio 2001 a Genova. Oggi, dieci anni dopo, i No Global sono praticamente scomparsi, la storia ha dimostrato che la globalizzazione non è un’invenzione dei paesi ricchi per opprimere meglio quelli poveri, ma è “il treno dello sviluppo”: i popoli che riescono a salirci sopra si sviluppano (specie in Asia e America Latina), gli altri rimangono indietro, cioè i popoli di gran parte dell’Africa nera, che nel 1970 partecipavano al 3% del mercato globale, oggi fra l’uno e il due per cento! Il sociologo cattolico Paolo Sorbi, passato attraverso le esperienze del Sessantotto e di Lotta continua, stigmatizzava i No Global cattolici perché la loro fede e identità era stata del tutto oscurata: “I contestatori cattolici corrono il rischio di trasformarsi nei reggicoda di una grande razionalizzazione borghese”. Beppe del Colle scriveva su Famiglia Cristiana: “L’impressione più forte suscitata dal terribile G8 di Genova è di generale sconfitta… Hanno perso i Grandi, ma hanno perso anche i piccoli, i presunti ‘nemici della globalizzazione’, che si sono rivelati furiosi demoni del Nulla, vandali odiatori di tutto quello che ha senso per le persone civili”.

Ferdinando Adornato denunziava su Il Giornale “l’inganno culturale” in cui erano caduti i cattolici: “Non si sfugge alla sensazione che alcuni settori del mondo cattolico rischino di restar vittime di un grande inganno culturale già commesso nei dintorni del Sessantotto, quando migliaia di ragazzi furono portati a confondere la Fede con la Rivoluzione, la Testimonianza evangelica con la Violenza… L’inganno consiste nell’annacquare totalmente l’identità cristiana nei riti di una comune e indistinta protesta contro l’egoismo e le disuguaglianze sociali”.

Il sociologo Giuseppe De Rita si chiedeva ironicamente su Avvenire: “A cosa è servita la presenza cattolica nelle manifestazioni e nei cortei di Genova? E cosa ne resta dopo il calor bianco raggiunto in quei giorni?”. Gianni Baget Bozzo scriveva sul Giornale: “Genova ha raggiunto due vertici: la più violenta manifestazione del nichilismo anti-occidentale e un singolare impegno dei movimenti cattolici italiani per le tesi antiG8… Così la Chiesa ha offerto ai nichilisti antioccidentali una copertura religiosa e al tempo stesso una massa numerica che è servita a coprire l’azione dei violenti”.

Ero a Genova nel luglio 2001 (nella casa del Pime a Nervi), ho partecipato all’inizio della prima manifestazione e alla sera ho avuto, allo stadio Carlini, una animata conversazione con un buon gruppo di giovani, sotto uno striscione che dichiarava: “Un altro mondo è possibile”. Io suggerivo: “Il mondo nuovo è possibile, ma solo a partire da Cristo”. Un discorso che suscitava ironia e opposizione: noi crediamo in Cristo, ma cosa c’entra questo nei problemi politici e economici del G8? Mi torna alla mente il grande e caro Davide Turoldo, che in un dibattito sul Vietnam, a Torino nel 1973, tuonava: “Ricordati Gheddo, che il socialismo è l’unica speranza dei poveri!”. Dopo il G8 di Genova, in un dibattito alla televisione su questo tema, alla mia proposta di convertirci a Cristo come modello di amore al prossimo, che ha donato la sua vita per gli altri, una personalità dichiaratamente cattolica (vivente), ha commentato: "La conversione a Cristo è un fatto personale e non è importante. L'importante è amare l'uomo ...". Ma come "amare l'uomo"? Per noi cristiani la verità sull'uomo ha un nome preciso e nessun altro nome: Cristo.

Ripensando alle discussioni infuocate di quegli anni, il motivo fondamentale di dissenso che ancor oggi mi separa dagli epigoni cattolici del movimento No Global è questo. I cattolici dovrebbero sapere che l’unica vera e decisiva rivoluzione che salva l’uomo e l’umanità l’ha compiuta Cristo duemila anni fa. L’esperienza dei missionari conferma che il contributo essenziale della Chiesa alla crescita di un popolo e alla sua liberazione da ogni oppressione non è l'aiuto materiale o tecnico, quanto l'annunzio di Cristo: una famiglia, un villaggio, diventando cristiani passano da uno stato di passività, negligenza, divisione, ad un inizio di cammino di crescita e di liberazione. Il perché mi pare evidente e andrebbe ripreso e approfondito dai No Global cattolici e portato coraggiosamente alla ribalta nelle manifestazioni.

Non capisco perché in Italia, anche nelle riviste missionarie, questi discorsi si fanno poco o nulla e sembra quasi che noi ci siamo fatti missionari per distribuire cibo, costruire scuole, condividere la vita dei poveri, protestare contro il debito estero e la vendita delle armi ai paesi poveri... Insomma non mi risulta chiaro, nell'animazione e nella stampa missionaria in Italia, che il primo vero dono che noi portiamo ai popoli è la fede in Cristo, che trasforma la vita e la società, creando un modello nuovo e più umano di sviluppo. I cari e illusi confratelli e suore missionarie, che hanno recentemente manifestato in Piazza San Pietro, qualificandosi come tali, contro la politica italiana che vuol privatizzare la gestione dell’acqua, hanno solo contribuito ancora una volta a far apparire i missionari come “operatori sociali”.

E’ solo un esempio di una tendenza generale che, nata nel Sessantotto, è riemersa a Genova nel 2001 e continua tuttora. Il 2 dicembre 1992 l’arcivescovo di Milano card. Carlo Maria Martini, parlando ai missionari del Pime impegnati nella stampa e nell’animazione missionaria in Italia, citava le lettere di San Francesco Saverio, dicendo che “ancor oggi quelle lettere hanno una forza comunicativa straordinaria. Noi vorremmo che la nostra stampa missionaria fosse sempre così, cioè che avesse questa forza comunicativa del Vangelo, proprio attraverso le notizie sulla diffusione del Vangelo… Ridateci lo stupore del primo annunzio del Vangelo, ridatelo alle nostre comunità, non soltanto ai cristiani delle terre di missione, ma anche a noi, perché questo stupore riscaldi il cuore di tutti”.  (Fonte: www.labussolaquotidiana.it)

 
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