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La teologia di Dante
Di Francesco Agnoli - 13/05/2011 - Letteratura - 2178 visite - 0 commenti

E’ un pregiudizio diffuso che la cantica più bella di Dante sia l’Inferno.

Quest’idea nasce, sicuramente, dalla sua maggior facilità, dal fatto che siamo più abituati a frequentare il male, piuttosto che il Bene, ma anche da un’idea di fondo: che i buoni siano, in fondo, delle figure poco affascinanti, deboli, scolorite. L’idea è quella del “santarello”, cioè dell’uomo buono come un uomo debole, insignificante, quasi molle.

Non è così: il Paradiso di Dante è certamente abitato da persone buone, la cui bontà però coincide anche con la forza, con una umanità solida, grandiosa. No, il Paradiso non è la cantica più scolorita e meno riuscita di Dante, al contrario essa è zeppa di visioni e di pensieri folgoranti.

Basterebbe l’incipit del canto I: “La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende/ in una parte più e meno altrove”. Quale condensazione più bella di concetti filosofici e teologici essenziali! Dio, dice Dante, è il Motore Immobile di Aristotele; l’archè cercata dai presocratici, la Causa prima che giustifica l’esistenza stessa delle cose che, sì, sono, ma non eternamente. La sua gloria, la sua presenza, risplende in ogni parte dell’universo.

Come avrebbero detto Paolo, Francesco, Bonaventura, le creature sono la via per arrivare a Dio. Che le tiene in vita, rendendole partecipi dell’Essere. Dio risplende nelle montagne, nel sole, nell’acqua, “pretiosa et casta”; risplende in un sasso e in un fiore, ma più nel fiore che nel sasso; e nell’uomo, che è fatto a sua immagine e somiglianza, più che in tutti i gigli del campo. Dio risplende nel sorriso innocente di un bimbo, in un atto volontario di abnegazione, nelle parole di perdono di un uomo. Gloria Dei homo vivens: l’uomo che Vive, con la lettera maiuscola, che partecipa del Bene, della Verità, della Giustizia, è la gloria di Dio.

 Poi Dante prosegue: “nel ciel che più della sua luce prende/ fu’io, e vidi cose che ridire/ né sa né può chi di là su discende;/ perché appressando sé al suo disire,/ nostro intelletto si profonda tanto,/ che dietro la memoria non può ire”.

Dante vuole dirci che il cielo Empireo è una distesa di azzurro e di luce, che abbraccia ogni cosa. La luce, corpo quasi immateriale, e l’azzurro, immagine dell’infinito, sono quanto di più simile a ciò che è soprannaturale l’uomo possa immaginare. In quella luce, che è simbolo della Verità che tutto illumina, Dante dice di essersi appressato al suo “disire”. Ciò significa che l’uomo ha un solo desiderio: Dio stesso. Tutti gli altri desideri non sono che corollari. Poiché desidera Dio, allora desidera tutto ciò che riluce della sua bellezza e bontà. Anche se tante volte sostituisce il desiderio con le voglie; le grandi aspirazioni, con i capricci; la fame di Dio con la fame di mondo, e cerca di saziare una sete inestinguibile con sorsi di acqua avvelenata (quando le creature sono messe al posto del Creatore).

Dio, continua Dante, io non posso descriverlo. L’uomo coglie Dio, per un istante, in qualche momento della sua vita: quando prova una qualche consolazione spirituale, una grande gioia, immagine e pegno della Gioia eterna. Ma le parole umane non sono capaci di catturare e definire l’inesprimibile grandezza di Dio. In Lui ci si può immergere, uscendo da se stessi in un’ esperienza mistica, estatica. Si finisce quasi ingurgitati in un oceano di dolcezza, di amore, di felicità, che supera infinitamente il desiderio umano.

Quando l’uomo incontra il desiderio, naufraga in esso, tanto questo è più grande di lui. Siccome poi Dio è Amore, cioè Unità, l’uomo in Dio si unisce, ma senza annullarsi; sperimenta la stessa fusione che l’amore permette, in vita, tra due sposi, o tra un genitore e un figlio, ma senza il limite che questa esperienza umana possiede; nello stesso tempo trascende se stesso (“trasumanar”, dice Dante), senza essere spogliato del suo essere specifico.

Dante, infine, dice di essersi sollevato da terra. E’ in cima al Paradiso terrestre. Ha attraversato l’inferno, ha percorso la camminata faticosa, in salita, del Purgatorio. Accompagnato da Virgilio, protetto dalla Vergine, ma anche mettendo in gioco la sua volontà, cercando, come si dice nel I canto del Purgatorio, la “libertà”. Il suo essere, anima e corpo insieme, è ormai leggero. Leggero come l’animo di chi è virtuoso. Pesante è l’animo e il corpo dell’avaro, sempre ripiegato su beni materiali; pesante è l’animo del superbo, sempre teso a tutelare la sua fama, il suo onore; pesante l’animo del lussurioso, che cerca sempre, in basso, ciò che sta in alto e vuole nutrire con lo stesso cibo anima e corpo.

Leggero è l’uomo che si è purificato, che non è più travolto dalla zavorra del peccato. Leggero perché libero. Quest’uomo è naturale che si innalzi verso il cielo. Non come un superuomo, che vuole salvarsi da solo; che ha fatto della terra il suo proprio regno; ma perché si è sottomesso ad una legge superiore, la ha amata e compresa, ed è stato docile alla Grazia, a Beatrice che gli è scesa incontro mentre lui saliva. In quell’incontro tra la libertà dell’uomo che sale e la Grazia che scende si realizza compiutamente l’umanità, secondo il progetto di Dio. Il Foglio,12 maggio 2011

 
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