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Il cammino di Santiago: finis terrae, initium Coeli
Di Francesco Agnoli - 28/04/2011 - Religione - 1985 visite - 0 commenti

Ci sono esperienze nella vita che svaniscono, e di cui sembra non rimanere nulla. Altre invece si imprimono e rimangono a fondamento di tante scelte future. Personalmente ricordo con gratitudine e nostalgia un’abitudine che presi da ragazzo, per alcuni anni: un lungo pellegrinaggio, di antica tradizione medievale, che si svolgeva in Francia, per Pentecoste. Cento chilometri, in due giorni e mezzo, dalla cattedrale di Chartres, sino a Parigi.

Da una splendida chiesa medievale, sino alla metropoli che ha visto nascere la rivoluzione francese. Si camminava attraverso le grandi campagne francesi, alla pioggia e al sole, cantando, pregando, come trasportati dal clima di fervore generale, prima di giungere lì, in mezzo al cemento, alla vita frenetica, rumorosa e pagana della grande città, dove spesso vi erano ad accoglierci il saluto entusiasta di qualcuno, e le maledizioni di altri.

Il pellegrinaggio è un’esperienza che il cristiano non può non fare. Siamo noi uomini ad essere pellegrini. “Homo viator”, si diceva nel Medioevo: viator che si alimenta del panis angelicus, che parte per andare oltre, per raggiungere un luogo santo, una meta che sia immagine della meta finale della nostra vita, il Paradiso. Il pellegrinaggio è dunque una metafora della visione cristiana dell’esistenza.

Il pellegrino, infatti, attraversa città e campagne, le osserva, le ammira, ma non c’è nulla che possa catturarlo, definitivamente, perché sa di dover lasciare quei luoghi; sa di osservare e ammirare terre che non gli appartengono; sa che ogni creatura, per quanto bella, non dura. O meglio: dura soltanto se vissuta in un’ottica soprannaturale. Il pellegrino deve dunque raggiungere un luogo, che magari neppure ha mai visto, dove però, come crede e spera, lo attende un incontro. Un incontro che vale la fatica, l’attesa, il viaggio…un incontro decisivo che faccia rinascere ad una nuova vita.

Nel Medioevo il pellegrinaggio era abitudine diffusa. Famosi i pellegrinaggi sulla via Francigena, quelli verso Roma e verso Gerusalemme. Ma il pellegrinaggio per eccellenza era quello verso la tomba di San Giacomo, a Santiago di Compostela, alla fine del mondo conosciuto. Oltre solo l’oceano, e poi, il Cielo…

Compostela è stato per secoli meta di innumerevoli viandanti. Ed è tornato ad essere cammino di molti, dopo tanti anni di decadenza, da pochi decenni, grazie ad alcuni uomini appassionati, tra cui, soprattutto, Paolo Caucci von Saucken. E’ quest’uomo, insieme ad altri, ad aver rilanciato l’idea del cammino, in un’ epoca in cui la secolarizzazione ha sì offuscato, ma non ucciso, l’idea che l’uomo debba ritrovare se stesso attraverso l’incontro con Dio, attraverso un cammino di spoliazione, di rinuncia, di purificazione, di silenzio interiore. Non sembra quasi vero, eppure è così: aumentano sempre più coloro che partono, sulle vie degli antichi pellegrini, sulle strade della Tradizione, per calpestare le orme di migliaia di uomini che volevano, andando da san Giacomo, onorare l’apostolo, scontare i propri peccati, chiedere perdono delle proprie colpe.

Oggi il senso del peccato, il desiderio, la necessità di essere perdonati, non è più, di solito, il motore del mettersi in cammino. Ci è difficile riconoscerci peccatori, dopo tante filosofie atee e superbe, ma ciononostante non si può non riconoscersi fragili, assetati, bisognosi di un Altro. L’uomo è un pellegrino, ha scritto Paolo Asolan in un bellissimo dialogo con Paolo Caucci, “Cammini in Europa”, perché è “eccentrico di natura”, nel senso “che ha fuori di sé il suo baricentro”; nel senso che capisce chiaramente che non sta in lui la ragione della propria esistenza.

Nel libro citato si ripercorrono le tappe della rinascita, nell’epoca contemporanea, del pellegrinaggio, soprattutto di quello compostellano. Si ricorda che già per Dante il vero pellegrinaggio era proprio quello verso Santiago, “perché quello è il posto più lontano”. Santiago, infatti, “stava allora nel finisterrae del mondo conosciuto”: “finis terrae, initium coeli”.

 Proprio per attestare il raggiungimento della meta, i pellegrini erano soliti raccogliere una conchiglia nell’Oceano, come testimonium loci. Analogamente, coloro che andavano a Gerusalmme, tornavano portando con sé una palma (di qui la definizione di “palmieri”).

 

San Giacomo, ricorda ancora Caucci, non è solo un santuario, un luogo di fede: come Czestochowa è stata per i polacchi, sotto il comunismo, il segno della loro identità e il luogo da cui è partita la loro lotta per la libertà; come Guadalupe è stato il santuario che ha permesso l’incontro tra spagnoli e indigeni nel Nuovo Mondo; così Santiago è il luogo che ha permesso agli spagnoli, sottomessi dagli islamici a partire dall’711, di abbarbicarsi alla loro storia cristiana, alle loro radici, a Roma, lontana ma non irraggiungibile.

Di più: Santiago è stata, nella storia, un germe dell’Occidente cristiano. Non solo “per la confluenza di popoli diversi che vi andavano in pellegrinaggio”, ma anche perché “dopo la scoperta della tomba (dell’apostolo, ndr) confluiscono su Santiago gli interessi asturiani, quelli francesi e quelli di Roma” e si amplia così, verso ovest, l’estensione della Christianitas. Il Foglio, 28/4/2011

 
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