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La primavera di Cuba?
Di Francesco Agnoli - 09/04/2011 - Cuba libre - 1358 visite - 0 commenti

E’ stato da poco liberato, a Cuba, Oscar Elias Biscet, un medico nero che si batte contro la dittatura di Castro e contro l’aborto di massa nell’ isola, e a cui è dedicata, in Italia, una marcia per la vita ( www.marciaperlavita.it ). Questa liberazione segna probabilmente un punto di non ritorno per la longeva dittatura comunista, messa ormai in ginocchio da una opposizione di pochi, ma eroici personaggi. Che hanno trovato spesso nella fede la forza per lottare per la libertà e la dignità umana. Una volta al potere, nel 1959, Castro ha cercato in ogni modo di sradicare il cristianesimo dal suo popolo.

 

Eppure era cresciuto studiando presso istituti religiosi, a cui i suoi genitori lo avevano iscritto anche grazie al costo modesto e accessibile. Dichiarò lui stesso: “Questo era possibile perché i preti non erano stipendiati. Ricevevano soltanto il vitto e vivevano con grande austerità…Austeri, serissimi, pronti al sacrificio e lavoratori indefessi, i gesuiti prestavano servizio gratuitamente, e in questo modo tagliavano le spese”. Ancora: “lo spirito di sacrificio e l’austerità dei gesuiti, la vita che conducevano, il loro lavoro e il loro impegno facevano sì che la scuola fosse accessibile a quel prezzo…Tutti quei gesuiti erano di destra. Alcuni di loro erano ovviamente persone di buon cuore che esprimevano la loro solidarietà verso altre persone; sotto certi aspetti erano irreprensibili”. Inoltre “apprezzavano il carattere, la rettitudine, l’onestà, il coraggio e la capacità di sacrificio….”.

Ma io, aggiungeva Castro, “non ho mai avuto davvero una convinzione religiosa o una fede religiosa. A scuola nessuno mai è riuscito ad instillarmele….”; ho invece, aggiungeva, una fede politica che mi rende un “uomo pieno di fiducia e ottimismo”. (F. Castro, Prima della rivoluzione, memorie di un giovane Lìder”, Minimum fax, 2005).

Una volta al potere, Castro ha tentato di distruggere in tutti i modi la fede cattolica, flirtando con i teologi della liberazione e appoggiando il culto afro-americano della Santeria. Senza però l’esito sperato. Scrive infatti la blogger cubana Yoani Sanchez: “Nell’isola che un tempo proibì le pratiche religiose per decreto molti cubani hanno rinforzato la loro fede”. Hanno dovuto nascondersi, sono stati esclusi dalla politica, hanno temuto di celebrare il Natale, sono stati educati all’ateismo scientifico, ma con successo solo parziale: “A scuola ci ripetevano che “la religione è l’oppio dei popoli”, ma anche i discorsi politici avevano una liturgia, prevedevano una prova di fede e una dedizione disinteressata a un “messia” che pure lui portava la barba e che pretendeva da noi sacrificio e devozione totale”.

Ancora: “Nessuno osa dire chi è responsabile di aver creato un soggetto (il cubano di oggi, ndr) indolente e senza personalità, senza vocazione e obiettivi, dissoluto e amorale, disinteressato al lavoro e senza alcuna aspirazione al benessere, irrispettoso delle leggi, privo di sogni e ideali. Questo tipo d’uomo è il prodotto del prolungato ateismo forzato... È un essere che non crede in niente, neppure in se stesso. Dalle sue ceneri risorge oggi la religione e persino noi che abbiamo perduto la fede lungo il cammino, vorremmo ritrovare la speranza per poter chiedere senza paura che durante questo Natale accada un miracolo” (El comercio, Perù, 19/12/2010).

Oggi, dunque, Cuba ha personaggi come Biscet, Sanchez, Farinas, che fanno sperare in una lenta ma sicura rinascita, ben raccontata in un libro fresco di stampa: “Adiòs Fidel. Fede e dissenso nella Cuba dei Castro” (Lindau).

Ma per tanti anni una delle poche voci conosciute del dissenso cubano è stata quella di Armando Valladares. Il suo formidabile “Contro ogni speranza. 22 anni nei gulag di Castro” (Spirali), uscito negli anni Ottanta, costituisce un capolavoro, di storia e di fede, che ha lasciato il segno.

Arrestato nel 1960, all’età di 23 anni, per aver espresso alcune critiche al regime, Valladares riscopre in prigione- ascoltando il grido di tanti giovani che muoiono fucilati urlando “Viva Cristo re, viva Cuba libera, abbasso il comunismo”- una fede che lo accompagnerà attraverso le più indicibili vicissitudini. Le sue memorie sono appunto il racconto di questo inferno: persecuzioni, escrementi e urine gettati in faccia ai prigionieri, celle di rigore, mani mozzate con il machete, botte e sangue, prigionieri usati come cavie dai Mengele cubani intenti a costruire il mito della sanità castrista…insomma, tutto quello che il comunismo ha fatto, sempre e dovunque.

Ma tutto raccontato con la stessa forza che troviamo nelle opere di Solgenitsyn o di Harry Wu; con la stessa fede granitica che tiene viva la speranza, e che impedisce al condannato di soccombere spiritualmente vittima del suo odio. Così nelle memorie di Valladares torna spesso, anche nell’ultima pagina, il ritratto di un prigioniero, chiamato da tutti Fratello nella Fede: “un uomo scheletrico, gli occhi azzurri sfolgoranti e il cuore ricolmo d’amore” che invitava sempre i suoi compagni a perdonare. Che morì “alzando le braccia al cielo invisibile”, chiedendo a Dio “clemenza per i suoi aguzzini”. Il sangue dei martiri è seme, anche, di libertà. Il Foglio, 7 aprile 2011

 
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