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La riabilitazione dei valori tradizionali
Di Gianfranco Amato - 17/01/2011 - Cultura e società - 1367 visite - 0 commenti

Ma guarda un po’ chi si rivedono: i vecchi e tanto deprecati valori tradizionali.
A rispolverarli in Gran Bretagna, questa volta, non è stato il solito parroco anglicano di campagna un po’ bigotto, né il raffinato esponente del movimento tradizionalista anglocattolico Forward in Faith, o l’occhiuto preside baciapile di una piccola scuola cattolica, ma nientemeno che il noto psicologo scozzese Professor Tommy MacKay. E non si tratta davvero di un quisque de populo.


MacKay non è soltanto un insigne cattedratico, un profondo esploratore dell’animo umano, un luminare di livello nazionale, un’autorità in tema di psicologia nelle aule giudiziarie, ma è stato anche ex presidente della British Psychology Society, ed un prestigioso e ascoltato consulente dei governi di Sua Maestà britannica. A lui si deve, tra l’altro, la redazione delle Scotland’s educational psychology guidelines, le linee guida dell’educazione psicologica della Scozia, e tra i vari meriti che può vantare c’è anche quello di essere stato personalmente lodato dall’ex premier laburista Gordon Brown, suo convinto estimatore, che gli ha addirittura riconosciuto la veste di eroe, dedicandogli un capitolo nel suo libro Britain’s Everyday Heroes. MacKay è stato un guru della psicologia moderna apprezzato da liberal e progressisti. Per questo ha fatto un certo scalpore la sua uscita sui valori tradizionali, e non poteva, ovviamente, passare inosservata. Chiamato a pronunciarsi sui dati relativi alla violenza dei giovani verso gli adulti, il professor MacKay ha scioccato l’opinione pubblica, resuscitando proprio concetti ed ideali considerati ormai definitivamente archiviati dalla storia, nella visione relativista e politically correct della società post-moderna.


Quei dati, a onor del vero, mostrano un quadro impressionante. Nel 2009 sono state 1.572 le denuncie sulle violenze domestiche perpetrate da minorenni nei confronti degli adulti, il 17 per cento in più rispetto all’anno precedente ed il triplo rispetto alle cifre degli ultimi dieci anni. Nelle scuole, invece, sono state registrate decine di migliaia di atti di violenza degli studenti nei confronti di insegnanti e compagni di scuola. Per essere più precisi, sono state circa 17.000, nelle scuole elementari, le sospensioni di alunni fino ad undici anni di età, mentre hanno superato le 63.000 nelle scuole superiori. Il fenomeno non ha risparmiato neppure i più piccoli. Secondo i dati ufficiali forniti dal Ministero dell’Educazione, infatti, sono stati 1.240 i casi di sospensione, nel biennio 2008-2009, che hanno coinvolto alunni di quattro anni.
Di fronte ad una così preoccupante situazione, lo psicologo professore della Strathclyde University non ha esitato a parlare della necessità sociale di concetti come «rispetto», «autorità», «sacrificio», «onore», «patriottismo», e persino «valori religiosi».
«Negli ultimi anni», questa l’analisi di Tommy MacKay, «c’è stata una sostanziale perdita del rispetto per i genitori, per le autorità scolastiche, e per i valori trasmessi dalla Chiesa». Perciò, secondo l’insigne psicologo, «i genitori hanno il dovere di fornire i fondamenti di quei valori tradizionali, instillando nei propri figli il senso del rispetto per la loro autorità, e del rispetto per gli altri».
In questa perdita del senso di autorità, MacKay intravvede una responsabilità anche a carico dei genitori degli studenti: «Nelle passate generazioni, il padre e la madre se la prendevano con il proprio figlio, quando questi aveva problemi a scuola. Oggi se la prendono con gli insegnanti».
I genitori che si comportano in quel modo, in realtà, sono i primi a non possedere il senso dell’autorità e del rispetto delle istituzioni, e non hanno, quindi, nulla da trasmettere ai propri figli. Il punto è che nel vuoto intergenerazionale di ideali, può crescere soltanto l’erba velenosa della violenza.


Particolarmente interessante è anche l’analisi che MacKay fa delle divise scolastiche, sostenendo l’utilità del loro obbligo non solo perche «esse eliminano tra gli studenti ogni forma di stupida competizione basata sulle griffe di moda», ma soprattutto perche «rappresentano un segno di appartenenza ad un’esperienza più grande e più importante del proprio “io”, e della propria personale “self-expression”». Le divise, secondo lo psicologo scozzese, rappresentano, infatti, l’istituzione scolastica, la sua autorità ed i suoi valori, piuttosto che il particolare del singolo individuo.


L’analisi si allarga, poi, ad una visione più ampia, quando MacKay afferma che «il declino sistematico dei valori tradizionali registratosi negli ultimi trent’anni è stato direttamente proporzionale all’aumento dei problemi nella società in generale, i cui effetti si sono drammaticamente evidenziati in ambiti particolari quali, ad esempio, quello scolastico e familiare». Da qui il suo ammonimento sul fatto che l’attuale società «sta perdendo i propri punti di ancoraggio», e la denuncia dell’esistenza di «una vera e propria bomba ad orologeria che rischia di far esplodere un comportamento psicopatologico di massa».


MacKay intravvede anche nella profonda crisi che attualmente vive l’attività di volontariato in Gran Bretagna, la pericolosa deriva individualista delle nuove generazioni, «che hanno definitivamente perduto il senso dell’impegno disinteressato e del sacrificio generoso per gli altri». Oggi, quello che sembra prevalere sempre più è il «cult of self» (il culto di sé), e la «celebrity culture», che appare ormai come l’orizzonte più ambito delle aspirazioni di milioni di persone. Una triste «corsa al ribasso» degli ideali umani.
Tra gli antidoti alla deriva individualista, Tommy MacKay sdogana persino il valore datato e alquanto demodé del «patriottismo», rivalutandolo come «un efficace fattore sociale positivo», perché capace di rappresentare «una nobile idea connessa ad una dimensione comunitaria ben più ampia della propria famiglia o della propria scuola».


La spietata analisi revisionista del professor MacKay ha inferto un colpo mortale alla psicologia educativa progressista nata dal sessantotto e dai suoi falsi miti, quella, tanto per intenderci, che propugnava un rapporto paritario tra genitori e figli, in cui entrambi dovevano trattarsi da amici e chiamarsi per nome, in cui non vi erano ruoli predefiniti, non esisteva il concetto di autorità, ed il dissenso era considerato una normale espressione comunicativa. Non è difficile, infatti, identificare l’attuale disastro proprio in quel fenomeno storico della fine degli anni ’60 che, insieme alla Riforma protestante e all’Illuminismo, ha tragicamente influito nella società occidentale. I dati allarmanti oggetto delle riflessioni di MacKay riguardano i nipotini della generazione del sessantotto, quella che teorizzava la contestazione di ogni forma di autorità (a cominciare da scuola e famiglia), che idolatrava la rivoluzione, che invocava la «fantasia al potere», lo slogan «vietato vietare», l’assemblearismo permanente, l’autogestione, la coscienza critica dei giovani, il mito del dissenso, la formula magica delle tre M (Marx, Mao, Marcuse), e che finiva per trovare nella via anarchica l’unico sbocco logico e l’unica vera proposta alternativa.

Non è un caso che la contestazione sessantottina dell’autorità abbia avuto come principali obiettivi la scuola e la famiglia, se si considera che la radice etimologica del termine autorità deriva dal verbo latino augere, che significa far crescere, a cui, tra l’altro, è riconducibile la parola autor, ossia colui che fa nascere, e la parola augustus, ovvero colui che fa crescere. Lo stesso valore semantico del termine autorità, quindi, contiene in sé l’elemento fondante della famiglia, in cui genitori sono autori dei figli in senso biologico (autor), e l’elemento fondante della scuola, in cui gli insegnanti sono coloro che aiutano a far crescere (augustus) in senso culturale le giovani generazioni.


In quella folle orgia dell’irrazionale che fu il sessantotto, la scuola non era più considerata come un luogo educativo e un’affascinante esperienza di crescita della personalità, ma, secondo la celebre definizione del filosofo marxista Louis Althusser, come il primo «apparato ideologico di stato», un’esecrabile forma di autoritarismo da abbattere. La famiglia, poi, grazie soprattutto al contributo dell’antipsichiatria inglese, era identificata come la sentina di tutti i mali, l’incubatrice di personalità autoritarie e conformistiche, la prima struttura sociale da contestare ed emancipare, attraverso il dissenso, la rivolta, la de-costruzione.
David Cooper, uno dei fondatori dell’antipsichiatria, nel suo celebre libro-manifesto dal titolo sintomatico di La morte della famiglia (1971), afferma che non vi è più bisogno di padri o di madri, ma «solo di “maternage” e “paternage”», ovvero di funzioni materne e paterne, che possono benissimo essere svolte da altri soggetti (fratelli, nonni, parenti, amici, ecc.) diversi dai genitori biologici.

Cooper ritiene pure che uno dei tabù di questo antiquato istituto sia costituito dalla «implicita proibizione di esperimentare la propria solitudine nel mondo», perché, infatti, attraverso la deviante gabbia sociale della famiglia l’individuo «viene costretto a vivere “agglutinativamente” incollato ad altre persone», «passivamente sottomesso all’invasione da parte degli altri familiari», e «privato della linfa vitale della propria solitudine». Da qui la necessità di una lucida strategia per «distruggere una reale, oggettiva situazione persecutoria nella quale ognuno di noi è intrappolato prima ancora di esistere».


Oggi si vedono i frutti avvelenati di quel delirio, e persino personalità del calibro di Tommy MacKay arrivano – se pur in ritardo – a rivalutare i già esecrabili valori tradizionali, oggetto della furia iconoclasta dei sessantottini.


Il potere distruttivo dell’ideologia è davvero capace di effetti devastanti, salvo poi mostrare, attraverso le macerie prodotte, il proprio fallimento, e far rimpiangere tutto ciò contro cui si era scagliato. Il fenomeno dell’autocritica, del riflusso, della revisione è sempre positivo, ma anche sempre tardivo, perché nel frattempo intere generazioni di uomini sono state mandate al macero. Spiritualmente parlando. Da Cultura Cattolica.it, 15 gennaio 2011

 
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