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Napolitano e Garibaldi
Di Francesco Mario Agnoli - 11/01/2011 - Storia del Risorgimento - 1069 visite - 0 commenti

Come l'on. Napolitano ha giustamente sottolineato durante la sua visita in Romagna, nel ricordare l'importanza dell'unità italiana il Presidente della Repubblica fa soltanto il suo mestiere dal momento che l'art. 87 della Costituzione lo qualifica rappresentante dell'unità nazionale.

Che poi a questo suo dovere adempia con passione è ulteriore titolo di merito. Del resto, come ho già avuto occasione di dire, pur non condividendo le sue precedenti militanze politiche, sono persuaso che l'on. Napolitano sia di gran lunga il migliore presidente che la Repubblica italiana abbia avuto da parecchio tempo in qua.

E' vero. L'art. 54 della Costituzione impone non solo al Presidente, ma a tutti i cittadini “il dovere di essere fedeli alla Repubblica”, ma si tratta, appunto, di un dovere imposto da una norma che, per quanto di altissimo livello, pochi conoscono e che ha come unico presupposto un fatto accidentale: la nascita da genitori di nazionalità italiana, che, a loro volta, non necessariamente amano la Repubblica e trasmettono questo amore ai figli. Per quanto mi riguarda (come, ovviamente, per moltissimi altri) la situazione è diversa.

Al momento d'iniziare la carriera giudiziaria ho prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica, quindi un dovere consapevolmente assunto e sanzionato da un giuramento che credo vincolante anche quando, per raggiunti limiti di età o altro, si lascia l'esercizio della giurisdizione (o altro pubblico impiego).

Tutto questo preambolo per dire che comprendo l'on, Napolitano anche quando, per celebrare il 150° dell'unità, è largo di approvazioni ed elogi ad avvenimenti e personaggi che, a mio avviso, ne sono del tutto immeritevoli, ma anche che, alla stessa stregua, il mio giudizio negativo non comporta in alcun modo il venire meno della giurata fedeltà alla Repubblica italiana così come non lo comporta il preferire un'Italia autonomista e federale a quella giacobino-centralista.

Mi permetto anzi di credere, con buona pace di tanti soloni del patriottismo retorico, che si renderebbe un servizio all'unità della nazione, facendo sentire tutti gli italiani davvero figli di una patria comune, se, smantellando centoncinquantenarie menzogne, si riconoscesse che, pur tenendo conto di tutti i possibili contesti, non c'è nulla di commendevole in personaggi come il generale Enrico Cialdini e il colonnello Pier Eleonoro Negri, mandante ed esecutore delle orride stragi dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni.

Che il generale “piemontese” (in realtà era romano) Ferdinando Pinelli era un boia additato come tale perfino nel Parlamento inglese, pur amicissimo dell'Italia, e che Nino Bixio si rese colpevole di stragi non meno gravi di quelle addebitate al maggiore nazista Walter Reder.

Che Felice Orsini non era un eroe, ma un terrorista. Che a Mentana i garibaldini furono sconfitti non dai francesi o dai loro fucili chassepots, ma dai soldati e volontari pontifici.

Che se Ferdinando II di Borbone era “Re Bomba” per avere fatto bombardare Messina, altrettanto lo era Vittorio Emanuele II, che ordinò un selvaggio bombardamento della città di Genova. Anzi peggio, dal momento che per massacrare i propri sudditi si fece aiutare anche dai cannoni di una nave britannica.

Che i plebisciti, in particolare nel Meridione e nel Veneto, furono una farsa intrisa di violenza. Che Vittorio Emanuele II non era “galantuomo” e Umberto I non era “buono”.

Proprio perché è una nazione unita, l'Italia non ha oggi nessun bisogno di nascondere le ombre e le magagne della propria storia, ché anzi la scelta celarle o negarle ha fatto sì che molti italiani abbiano a lungo rifiutato l'unità, e i loro discendenti, pur avendo forse solo una vaga conoscenza degli eventi storici, continuino a non sentirla come un valore.

La questione riguarda tanto il Nord quanto il Sud. Tuttavia, dal momento che Giuseppe Garibaldi è il protagonista del Risorgimento più volentieri citato da chi ritiene che per onorare l'anniversario dell'unità si debbano suonare le fanfare della retorica, perché non meditare su quanto egli stesso ebbe a scrivere in una lettera ad Adelaide Cairoli, una donna che ammirava (e, quindi, in piena sincerità): “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei la via dell'Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. da La Voce della Romagna

 
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