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Una rosa rossa, tra le ceneri di Nasiriyah
Di Giulia Tanel - 12/11/2010 - Attualità - 969 visite - 0 commenti
Martedì 12 novembre 2003, ora italiana 8.40 (10.40 in Iraq): strage di Nasiriyah, diciannove vittime italiane.
Comincia così, con l’esplosione di un camion-bomba imbottito con trecento chili di esplosivo, la più grande strage di italiani dopo la seconda guerra mondiale. L’attentato terroristico viene subito rivendicato dalla “mente” della strage: Abu Omar al-Kurdi, morto impiccato per sentenza del tribunale iracheno il 12 settembre 2007.

Moltissime sono state le persone in Italia che hanno pianto i loro cari, morti in Iraq durante quella che doveva essere la “Missione di pace Antica Babilonia”, ma che, in realtà, era tristemente connotata dalla costante presenza delle armi. Sì, perché l’Iraq non era − e non è − un luogo di guerra come gli altri. Lo aveva capito bene Giuseppe Coletta, brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, che di missioni ne aveva già fatte molte altre: in Albania, in Kosovo, in Bosnia… ma questa volta, diceva alla moglie al telefono, era ancora peggio rispetto agli altri posti. Fame, povertà estrema, paura.

Anche in questa immane tragedia, però, è possibile affermare che i nostri diciannove connazionali non sono morti invano. E a dirlo non è il Ministro degli Esteri o qualche altra importante autorità sentimentalmente estranea ai fatti, bensì una persona che in questa storia ha perso il marito: Margherita Coletta, la giovane moglie del “brigadiere dei bambini”.
Nel commuovente libro “Il seme di Nasiriyah” (Ed. Ancora, pp. 128, 12 euro), scritto a quattro mani con la giornalista Lucia Bellaspiga, Margherita Coletta offre un esempio di abbandono alla fede di straordinaria intensità. E che questo non sia un comportamento di facciata lo si era capito subito, fin da quando, a poche ore della notizia della morte del marito, Margherita aveva letto davanti alle telecamere di tutta Italia una frase del Vangelo di Matteo: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. Frase recitata così, candidamente, perché questa era l’unica risposta possibile e creduta da una moglie straziata dal dolore.

Un seme, quello della fede, che sta alla base di tutta la vita di Margherita Coletta. Una vita di certo non facile, vista la morte per leucemia nel 1997 del figlioletto di soli sei anni Paolo, seguita, nel 2003, da quella del marito Giuseppe.
“Sorride sempre Margherita mentre parla, e non è per cortesia. Più che le parole, mi scuote la fermezza con cui le pronuncia, fonte di una serenità irremovibile. «Non è bravura mia − si schermisce − non è mai bravura di nessuno riuscire ad accettare con gioia tutto ciò che il Signore ti manda, è un dono che Egli fa, un dono però gratuito, che concede a chiunque lo chiede. So bene che può sembrare assurdo, ma io Lo ringrazio per il dolore che mi ha dato perché mi ha fatto capire quanto mi ama. Alla base di tutto c’è una consapevolezza: che Dio non può permettere il male. Noi, con il nostro sguardo limitato, non capiamo che dietro ogni male apparente c’è di sicuro un bene più grande, altrimenti Dio non lo avrebbe tollerato. Anche la morte in croce di Suo figlio sembrava una sconfitta, invece preparava la salvezza del mondo. Basta fidarsi di Lui: troppo facile amarLo quando tutto va bene.»” (op. cit. pp. 25-25). O ancora: “La cosa che so per certo è che Dio sapeva ciò che doveva accadere e se non ha evitato che la strage si compisse evidentemente c’era un disegno più grande. Per Cristo c’è stata la Croce, ma poi la resurrezione. […] Quando è morto mio figlio pensavo di aver già dato abbastanza a Dio – questa volta ride di sé – e quindi che non mi potesse più succedere altro, Gli dicevo: «Basta così, il mio tributo Te l’ho dato…». Invece ho imparato che il Signore chiede, e continua a chiedere, ma mai più di quello che noi possiamo realmente sopportare” (op. cit. p. 43).

Non si creda che dietro a queste frasi non vi sia un immenso dolore. Una sofferenza che, per Margherita, ha raggiunto l’apice a soli 33 anni: ha già seppellito il suo bambino e l’uomo che ama (il tempo presente del verbo è voluto, ndr). Chiunque, in un’ottica lontana dalla visione provvidenzialistica cristiana, sarebbe stato tentato di abbandonare tutto, di mollare.
Margherita no: ha raccolto le forze e ha coraggiosamente continuato sulla strada che il marito le ha indicato: donare la propria vita per le persone in difficoltà. Perché “la guerra non si doveva fare […], invece vale la pena morire per aiutare dei bambini, com’è successo a Giuseppe e a questi ragazzi (il riferimento è al capitano dell’esercito Ciardelli, al maresciallo capo dei carabinieri Lattanzio e al suo collega De Trizio, morti a Nasiriyah nell’attentato del 27 aprile 2006, ndr)” (op. cit. p. 96).
Da queste solide basi è nata nel 2004 l’“Associazione Giuseppe e Maria Coletta – Bussate e vi sarà aperto”, inaugurata ufficialmente nel paese natale di Giuseppe, Avola, il 6 marzo 2005, giorno in cui avrebbe compiuto quarant’anni. In questi anni le iniziative umanitarie realizzate sono state innumerevoli, grazie all’aiuto concreto e al sostegno economico di moltissime persone. Infatti, “per cambiare il mondo è necessario che qualcuno ci creda e inizi ad annunciare Cristo con la sua vita, poi gli altri si uniranno a lui” (op. cit. p. 107).

Grazie a Dio, anche nel dramma c’è stato un nuovo inizio.
 
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