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Etica (filosofica) dell'affettività [parte 2]
Di Rassegna Stampa - 29/10/2010 - Bioetica - 1447 visite - 0 commenti

Pubblichiamo la seconda parte di un lungo articolo di Giacomo Samek Lodovici tratto, con alcune alcune aggiunte successive fatte dall'autore, da R. Cammilleri (a cura di), Piccolo manuale di apologetica, Piemme 2004, pp. 127-144.

18. Ricapitolando quanto detto fin qui, perché un rapporto prematrimoniale è ingiusto?

1) È ingiusto tutte le volte che tramite esso si cerca solo il piacere personale e si strumentalizza l’altro (cfr. punto 3).

2) È ingiusto perché esso produce comunione e crea legame, dunque, mancando la garanzia che il mio partner attuale sarà il compagno/a per tutta la vita, incide negativamente sul rapporto con chi poi diventa realmente il compagno/a per tutta la vita (cfr. punto 5).

3) È ingiusto perché mi priva dell’esclusività di un aspetto molto intimo del mio coniuge, che è stato condiviso con altri (punto 5) il che è un male.

4) È ingiusto perché ostacola la vera conoscenza reciproca (cfr. punto 6). In questi tre casi 2), 3) e 4) esso rischia di provocare lo sfascio della mia famiglia (con tutte le sofferenze e il dolore che ciò comporta),

5) È ingiusto tutte le volte che si ricorre alla contraccezione (cfr. punti 9 e 10).

6) È ingiusto anche se non si ricorre alla contraccezione, perché esso non dà garanzie che il potenziale nascituro possa nascere, crescere ed essere educato da suo padre e da sua madre (cfr. punti 10, 11 e 16).

19. Come bisogna valutare la convivenza prematrimoniale?

Essa è biasimabile tutte le volte che costituisce una forma di rifiuto dell’impegno, cioè quando è motivata dal rifiuto di donarsi all’altra persona, perché allora è una forma di egoismo di chi vuole strumentalizzare l’altra persona per ricavarne la propria gratificazione, senza assumersi impegni e responsabilità nei suoi riguardi. È un vivere come marito e moglie, in cui però si cercano gli aspetti gratificanti di questa relazione, evitando molti dei doveri che questa relazione richiede.

20. Ma ci sono anche persone che convivono e si vogliono realmente bene e che vogliono fare un test molto significativo, circa l’opportunità di sposarsi, per conoscere il proprio affiatamento.

È vero, ma anche se due soggetti la praticano come forma di donazione, in essa si praticano atti sessuali e dunque resta ingiusta perché:

a) gli atti sessuali creano comunione e non detto che i due soggetti poi restino insieme, dunque vale il punto 5.

b) Gli atti sessuali intrattenuti in precedenza dal mio coniuge mi privano dell’esclusività di un suo aspetto molto intimo (punto 5)

 c) gli atti sessuali hanno effetto deformante (punto 6), quindi la convivenza è un pessimo test per provare l’affinità di due soggetti.

d) Inoltre, chi convive ricorre poi più facilmente al divorzio, perché con questa sorta di «matrimonio in prova», ci si abitua all'idea che i rapporti e le relazioni tra uomo e donna siano esperienze «a termine», con «clausola di rescissione» e che quindi possono cessare.

e) Ancora, abbiamo già detto che l'antropologia culturale ci dice che ogni ritualizzazione di un impegno assunto (in questo caso la celebrazione delle nozze), riconosciuta dalla società, aumenta la percezione dell’importanza di un impegno e quindi il desiderio di onorarlo. Di questa inimicizia tra convivenza e matrimonio si trovano ormai diverse conferme in varie ricerche sociologiche: per esempio, uno studio di due ricercatori della Bowling State University (USA) ha documentato che il rischio di naufragio del matrimonio aumenta del 46 % quando i coniugi hanno precedentemente convissuto (cfr. A. De Maris – K. Vaninadha Rao, Premarital Cohabitation and Subsequent Marital Instability in the United States, «Journal of Marriage and the Family», 54 (1992), pp. 178-190; da notare che questo studio ne passa in rassegna diversi altri, che hanno dato risultati simili).

f) se si ricorre alla contraccezione cfr. punti 9 e 10.

g) se non si ricorre alla contraccezione vale il punto 11.

h) se si ricorre alla continenza periodica vale il punto 16.

21. Ma perché chi si sposa deve restare unito per tutta la vita? Questa è una convinzione dei cristiani.

Nel dibattito sul divorzio che si svolse nel 1974 all’epoca del referendum, e nei discorsi su questo tema che si fanno tutt’oggi, si deve rilevare un cospicuo equivoco, cioè l’erronea convinzione secondo cui solo i credenti, mediante la fede, possono sostenere l’indissolubilità del matrimonio. Quest’opinione è un errore cospicuo, perché l’indissolubilità del matrimonio religioso non è solo una verità di fede, bensì anche una verità che qualunque uomo può comprendere, anche se non è cristiano, anche se è ateo, mediante la sola ragione. Sembra paradossale, ma possiamo dimostrare che non lo è.

22. Come è possibile? Amarsi significa provare dei sentimenti di trasporto verso un altro, dunque quando questi sentimenti non ci sono più il legame, su cui è fondato un matrimonio, viene meno.

Per comprenderlo bisogna riflettere sul contenuto del consenso che gli sposi esprimono nel momento del matrimonio. Infatti, il matrimonio nasce dal consenso libero degli sposi che si promettono: a) l’amore esclusivo, la donazione per tutta la vita, qualsiasi cosa accada, cioè anche se l’altro mi picchierà, mi tradirà, diventerà pazzo, ecc.; b) l’apertura alla generazione/educazione dei figli.

Chi non promette queste due cose o le promette senza essere sincero (o nasconde qualcosa all’altro prima del matrimonio), non è mai stato sposato. Perciò in casi simili è improprio dire che il matrimonio tra due persone è annullato, perché più propriamente esso è nullo fin dal principio, vale a dire non c’è mai stato. Quindi in questi casi non si verifica una rescissione del legame matrimoniale e dunque non c’è divorzio, bensì solo la presa di consapevolezza che tale legame non è mai sussistito.

23. Due coniugi promettono di amarsi, ma che cosa significa amare? Che cos’è l’amore a cui si impegnano vicendevolmente? Non è appunto provare dei sentimenti?

Amare una persona non significa, almeno non primariamente, provare trasporto verso di essa, avvertirne il fascino, esserne emotivamente attratti, «stare bene insieme». L’amore è accompagnato sovente dal sentimento, dal fascino, dallo stare bene insieme, ma non coincide con il sentimento (che pure è importante), col fascino e con lo stare bene insieme. Il greco e non cristiano Aristotele già nel IV sec. a.C. ha spiegato che l’amore è un atto della volontà, che amare significa volere il bene dell’altro (cfr. Retorica 2,4). Dire «ti voglio bene» significa «io voglio il tuo bene», cioè cerco di realizzare il tuo bene, di procurarlo, di favorirlo. Per es., anche se mio figlio mi disgusta per il suo comportamento, al punto che ne sono emotivamente respinto, io lo amo se cerco di favorire lo stesso il suo bene, la sua crescita, ecc.

Non solo: amare una persona significa amarla nella sua identità, cioè amare il suo io, che è unico e irripetibile, amarla per ciò che essa è in modo irripetibile, non per delle caratteristiche che anche altre persone possono avere, come la simpatia, la bellezza, la ricchezza, la gradevolezza, la gentilezza, ecc. Amare veramente una persona non significa amare la sua simpatia, bellezza, ricchezza, ecc., cioè quelle sue prerogative che ci risultano utili o gradevoli; chi ama la simpatia, bellezza, ricchezza di una persona, in realtà non sta amando quella persona, ma sta amando se stesso perché, consapevolmente o inconsapevolmente, sta usando l’altra persona per il proprio vantaggio e per la propria gratificazione. È sempre il greco e non cristiano Aristotele (Etica Nicomachea 1156a 14-24) a dirlo.

Ciò significa che due persone sposate, avendo promesso di amarsi per tutta la vita, hanno promesso di cercare il bene del coniuge, di amarlo nella sua identità irripetibile ed unica. Se il contenuto della loro promessa non era questo, essi non sono mai stati sposati.

24. Ricapitolando, allora, perché il matrimonio è indissolubile?

Possiamo comprenderlo con la sola ragione, senza ricorrere alla fede, se consideriamo che nel momento del consenso due sposi si sono impegnati liberamente e consapevolmente: a) ad amarsi (cioè a volere e cercare il bene dell’altro) in modo esclusivo per tutta la vita, qualsiasi cosa accada (anche se l’altro mi picchierà, mi tradirà, diventerà pazzo, se cambierà e diventerà completamente diverso, ecc); b) ad essere aperti alla vita. Infatti, i coniugi si sono presi l’impegno di volersi reciprocamente bene qualsiasi cosa accada, di donarsi all’altro, al suo io unico e irripetibile, alla sua identità personale per tutta la vita: dunque il loro impegno è indissolubile.

25. Chiedere o subire il divorzio: è lo stesso?

A volte può avvenire che uno dei coniugi sia vittima del divorzio, che non lo abbia affatto voluto e lo abbia invece subito: è chiaro che in questo caso la sua condizione di divorziato non comporta colpa. Questo, naturalmente, non lo autorizza a formare una nuova unione con un’altra persona.

Ci sono, poi, dei rari casi in cui è moralmente possibile chiedere il divorzio, quando il divorzio civile risulta essere l’unico modo possibile per assicurare certi diritti legittimi, quali la cura dei figli o la tutela del patrimonio (è così anche per la Chiesa, cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2383). Colui che chiede il divorzio in questi casi deve però, di fatto, considerare perdurante il vincolo coniugale e non formare una nuova unione.

26. Però quando tra due coniugi non c’è più il sentimento iniziale il matrimonio non sussiste più, perché il sentimento non si può produrre.

A parte il fatto che il sentimento lo si può in parte favorire, per esempio cercando di vivere tutta la vita come dei fidanzati che si fanno sorprese e regali, che escono alla sera, che coltivano interessi comuni, ecc., comunque, come abbiamo già detto, nel consenso gli sposi non promettono di restare insieme finché provano uno slancio emotivo nei confronti del proprio sposo, bensì promettono di cercare il suo bene per tutta la vita.

27. Ma il divorzio serve a fare esperienza, dagli insuccessi si impara e i secondi matrimoni vanno meglio dei primi.

Il tasso di divorzio nei secondi matrimoni è in realtà molto più elevato che nei primi. Quando viene meno la convinzione dell'indissolubilità si apre la diga delle «prove a ripetizione» alla ricerca del legame giusto.

28. Qual è la differenza tra il divorzio e la separazione? La separazione è moralmente ammissibile?

Quando si giunge ad una situazione in cui la stessa convivenza è diventata veramente insostenibile, la separazione è ammissibile perché i coniugi non hanno promesso di vivere insieme per tutta la vita, bensì hanno promesso di volere il bene dell’altro per tutta la vita, quindi possono separarsi se la convivenza provoca realmente del male all’altro; ma ciascuno dovrà continuare a cercare il bene dell’altro, perciò dovrà sempre mantenere la disponibilità a tornare a vivere insieme, dovrà cercare di restaurare il rapporto, cioè cercare di ripristinare le condizioni della convivenza, in quanto dalla convivenza sortisce per ciascuno degli sposi quel bene che è il mutuo aiuto, il sostegno e la collaborazione reciproca. L’esperienza insegna che con questa disposizione la ricomposizione non è un’utopia, ed esistono dei casi di ricongiungimento. È difficile, ma non impossibile.

29. Esistono altre ragioni per difendere razionalmente l’indissolubilità del matrimonio?

L’argomentazione che abbiamo esposto vale per giustificare l’indissolubilità di qualsiasi matrimonio, ma se ne può indicare una seconda, che vale nel caso in cui dal matrimonio siano nati dei figli. Abbiamo visto (cfr. punto 11) che il contesto propizio per la nascita, la crescita e l’educazione di un figlio è quello di una famiglia stabile e solida. Ebbene, il divorzio è una grave ingiustizia nei riguardi dei figli, li fa sempre soffrire molto, li ferisce psicologicamente e affettivamente.

Questi discorsi possono essere suffragati da diversi studi e noi ci limitiamo solo a qualche dato, attingendo dalle ricerche condotte nei paesi anglofoni, dove è ormai chiara e ampiamente monitorata la profonda negatività del divorzio sui figli.

In Gran Bretagna i bambini con un solo genitore, rispetto a quelli che vivono con entrambi, hanno un rischio doppio di patire per malattie psicosomatiche o per la depressione e di manifestare comportamenti antisociali (cfr. O’Neill, 2002). Negli Usa l’11 % dei figli dei divorziati ha trascorso un periodo in carcere prima di compiere 32 anni, contro il 5 % dei figli con famiglie intatte (cfr. McLanahan – Sandefur, 1994). Inoltre, ricerche degli anni novanta (su cui cfr. Fiorin, 2008) rilevano che i figli i cui padri erano assenti determinavano il 71 % degli abbandoni scolastici, il 75 % dei casi di adolescenti tossicodipendenti, il 70 % dei minorenni in istituti di recupero ed il 63% dei suicidi giovanili; ed a New Orleans, una ricerca degli anni ottanta sui bambini del reparto di psichiatria dell’ospedale, ha mostrato che nell’80 % dei casi la patologia era connessa all’assenza del padre. Si obbietta che questi fenomeni sono causati non solo dal divorzio, bensì anche dal conflitto che lo precede. Ma (cfr. Amato – Booth, 1997) ciò è vero solo in alcuni casi, perché il 66 % dei divorzi avviene in situazioni di bassa conflittualità tra i coniugi.

Purtroppo le ferite del divorzio si rimarginano difficilmente.

Infatti (cfr. Marchesini, 2007), anche quando diventano adulti, i figli dei separati e dei divorziati, rispetto ai bambini i cui genitori restano uniti, hanno: risultati economici inferiori; problemi comportamentali (come aggressività, atti delinquenziali ed altri comportamenti antisociali); maggiori problemi di salute; più frequenti sintomi depressivi; un maggior uso di alcolici, di fumo e di droghe. Si dirà che questi problemi riguardano solo i figli che restano a vivere con un genitore che dopo il divorzio resta solo, mentre non sussistono quando una nuova figura entra in casa. Tuttavia, nelle famiglie allargate – contrariamente a quello che si potrebbe credere – la situazione per i figli non migliora; anzi, almeno in certi casi, peggiora. Per esempio (cfr. Fagan – Johnson – Butcher, 1996), negli Stati Uniti i figli degli sposati sono coinvolti in risse o tafferugli nel 28,8 % dei casi, rispetto al 39,5 % dei figli di divorziati che rimangono a vivere con un solo genitore ed al 42 % di quelli la cui madre vive con un nuovo uomo, che non è il padre del ragazzo/a. Il 13 % dei figli degli sposati ha commesso un furto del valore di 50 dollari o più, contro il 19 % dei figli di divorziati che rimangono a vivere con un solo genitore ed il 22,6 % di quelli la cui madre vive con un nuovo uomo, che non è il padre del ragazzo/a. Ancora, il 20,3 % dei figli degli sposati è stato sospeso da scuola, rispetto al 37 % dei figli di divorziati che rimangono a vivere con un solo genitore e al 40,8 % di quelli la cui madre vive con un nuovo uomo, che non è il padre del ragazzo/a.

Infine, non è solo l’aumento della povertà prodotto dal divorzio a causare queste conseguenze negative per i figli (cfr. Fagan, 1995), bensì anche e soprattutto il non poter vivere e crescere con i loro genitori biologici uniti.

30. Ma se i genitori non vanno d'accordo, per i figli non è meglio che divorzino?

Non è vero. Secondo studi americani (cfr. AA.VV. 1998, pp. 239-249; Amato – Booth 1997; Wallestein – Lewis – Blakeslee 2000), solo il bambino che si trova in famiglie altamente conflittuali trae beneficio dalla rimozione del conflitto che il divorzio «potrebbe» portare. In realtà, nei due terzi di matrimoni che si concludono con il divorzio, il conflitto è medio-basso, e quindi la soluzione migliore è che i genitori, invece di divorziare, continuino a rimanere insieme, affrontando i loro problemi per cercare di risolverli.

31. Però i figli dei divorziati, avendo sofferto per la divisione dei loro genitori, sono molto più cauti nella scelta del coniuge ed evitano di divorziare a loro volta, per non infliggere le stesse sofferenze ai propri figli.

Anche questo è falso. I figli dei divorziati, quando diventano adulti, hanno un tasso di divorzio nettamente maggiore dei figli di famiglie unite. Infatti i bambini imparano da quello che vedono: se i genitori divorziano, la capacità poi di mantenere per tutta la vita un matrimonio unito è stata indebolita (cfr. Amato 2001; Wolfinger 2000, pp. 1061-1086).

32. Ma se due persone sono infelici, perché non possono risposarsi e farsi una nuova vita?

Il divorzio viene difeso come toccasana per riportare la felicità alle persone infelicemente sposate.

Ma, in primo luogo, un fine buono (essere felici) non giustifica mezzi ingiusti (il divorzio).

In secondo luogo, in realtà ricerche sociologiche americane (cfr. Waite – Gallagher 2000) mostrano che tra le persone che, pur considerando infelice il loro matrimonio, erano rimaste insieme, cinque anni più tardi il 64% ha dichiarato che il loro rapporto era poi diventato molto felice, mentre si dichiaravano felici solo il 19% di coloro che avevano divorziato e si erano risposati. Anche coloro che consideravano il proprio matrimonio molto infelice, in 86 casi su 100 si dichiaravano felici cinque anni dopo, se erano rimasti insieme.

Del resto già l’Associazione ex ha documentato che il divorzio non è una prassi indolore: in Italia, dall’aprile 1993 al giugno del 2004 su 49.883 casi di divorzi, separazioni e cessazioni di convivenza, l’86,7% ha avuto implicazioni penali come calunnia, minacce, sottrazione di minore, percosse, maltrattamenti, lesioni, sequestro di persona, violenza privata, violenza sessuale.

E, sempre in questo periodo, in seguito a divorzi, separazioni o cessazioni di convivenze sono maturati 712 fatti di sangue e sono morte 1015 persone.

Per non parlare dei costi sociali del divorzio per lo Stato. Per esempio in Georgia le cause concernenti disgregazioni familiari costituiscono il 65 % di tutti i processi a livello di Corte d’appello (Flynn 2007). E in Gran Bretagna (www.avvenireonline.it/Famiglia/Documenti+e+Rapporti/20060112.htm), il crollo della famiglia rappresenta un peso economico notevole lo Stato: supera ampiamente i 20 miliardi di sterline l’anno, la maggior parte dei quali vengono spesi per le sovvenzioni ai genitori single. Se ci fossero meno separazioni familiari e meno nuclei monoparentali, ci sarebbero meno bambini da prendere in carico, meno persone senza casa, meno dipendenza dalla droga, meno criminalità, meno domande per i servizi sanitari, meno bisogno di insegnanti di sostegno nelle scuole, migliori risultati medi nell’ambito educativo e meno disoccupazione. Tutto ciò farebbe risparmiare denaro ai contribuenti e alcuni degli aspetti sopraelencati contribuirebbero addirittura a una migliore performance economica dello stato in generale.

33. Ma l’esistenza del divorzio non favorisce la tenuta di matrimonio, visto che i mariti amano di più le mogli nel timore di perderle?

No, perché chi sa di essere unito indissolubilmente cerca in tutti i modi di far andar bene il matrimonio; chi invece sa che il matrimonio si può sciogliere, si impegnerà di meno per assicurarne la riuscita (per esempio, avrà meno scrupoli a tradire il coniuge), perché sa che tanto esso non è definitivo (uno studente che studia in una scuola esigente si impegna di meno se sa che i suoi genitori, nel caso in cui egli vada male, lo trasferiranno in una scuola facile per evitargli la bocciatura).

34. Ma al giorno d’oggi la tenuta di un matrimonio per tutta la vita non è un’utopia?

Poiché il matrimonio è una scelta per tutta la vita è fondamentale un cammino accurato di preparazione ad esso, ma non bisogna farsi scoraggiare dalla rappresentazione offerta dai media circa il matrimonio: non è vero che è impossibile restare insieme tutta la vita e che i matrimoni si sfasciano inesorabilmente. Ci sono moltissimi casi di matrimoni riusciti ed inossidabili, che non vengono però mai rappresentati, dove i problemi che sorgono vengono superati. Un matrimonio di questo genere, che si è conservato e anzi alimentato fino in tarda età, è quello descritto da Montale:

 Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. / Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / Il mio dura tuttora, […] / Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio / non già perché con quattr'occhi forse si vede di più. / Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue. (E. Montale, Tutte le poesie, Meridiani Mondadori, p. 309).

35. Ma il matrimonio per tutta la vita non è noioso?

No, perché l’amore davvero fedele genera un rapporto molto ricco e fecondo, è un cammino nel quale ciascuno sostiene l’altro nelle difficoltà della vita, gode di più delle gioie perché le può condividere, cresce personalmente nello sforzo per essere amabile e smussare gli spigoli che rendono difficile la convivenza. La fedeltà non è rigidità, perché l’amore ricomincia ogni giorno, e può essere creativamente inventato ogni giorno. Perciò il matrimonio non è la tomba dell’amore, bensì la sua scuola, in cui continuamente si scopre l’inesauribile ricchezza dello sposo: come dice Plutarco, l’amore “non solo non va mai soggetto all’autunno, ma fiorisce anche tra i capelli bianchi e le rughe, e si prolunga fino alla morte e alla tomba”.

Anzi, esistono studi sociologici (cfr. Waite – Gallagher, cit.) che indicano che sposarsi è meglio: Il matrimonio aumenta la sicurezza e l'incolumità personale. Le nozze diminuiscono le probabilità che la donna, e anche l'uomo, diventino vittime di violenza, inclusa la violenza domestica.

Gli sposati vivono più a lungo e in modo più sano. Lo si vede chiaramente nella mezza età: 9 su 10 uomini e donne sposati arrivano a 65 anni, contro 6 su 10 uomini non sposati e 8 su 10 donne.

Il matrimonio aiuta i figli. Nel matrimonio i bambini crescono più sani, vivono più a lungo e tendono a rimanere fuori dai guai se i genitori, oltre che essere sposati, rimangono uniti.

Chi è sposato è più fedele. Gli uomini che hanno scelto la convivenza rispetto alle nozze sono quattro volte più infedeli dei mariti, e le donne conviventi tradiscono otto volte più che le mogli.

Il matrimonio fa bene alla salute mentale. Uomini e donne sposati sono meno depressi, meno ansiosi e meno psicologicamente stressati dei non sposati, divorziati o vedovi.

Si vive meglio. Nell'insieme, il 40 % delle coppie sposate si dichiara «molto felice della vita», affermazione sottoscritta solo dal 25 % dei non sposati o dei conviventi.

I figli sono più legati ai genitori. I figli adulti di matrimoni stabili sfuggiti alla tentazione del divorzio mantengono con i loro genitori contatti più regolari di quanto facciano i figli dei divorziati (o di coppie conviventi), che spesso sono letteralmente abbandonati e dimenticati, soprattutto se i loro genitori convolano a nuove nozze ed hanno altri figli. Ed è più probabile che i figli di coppie stabili a loro volta realizzino nozze stabili.

La sessualità è migliore e più frequente. Sia i mariti che le mogli che vivono un'unione duratura affermano di avere una vita sessuale soddisfacente, più di quanto dichiarino coloro che non sono sposati o convivono. Lo confermano le considerazioni di due sostenitori del sesso libero come Sartre e Moravia, che hanno definito l’esistenza come «nausea» e come «noia».

36. Perché la Chiesa difende l’etica sessuale che è stata fin qui esposta? Perché è sessuofoba?

Al contrario, la Chiesa difende un modo preciso di esercitare la sessualità perché è sessuofila, cioè vuole che il sesso sia esercitato secondo il suo vero e autentico significato, cioè come espressione di vero amore, e in modo rispettoso della dignità umana.

37. Ma Gesù non ha mai detto niente di simile sul sesso.

Al contrario, non soltanto egli ha proibito il divorzio: «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola […]. Quello che dunque Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» (Mt 19, 5-6); ma ha inoltre detto: «Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulterio”; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso un adulterio nel suo cuore» (Mt 5, 27-29).

38. Ma la Chiesa non potrebbe modificare queste sue posizioni per rendersi più popolare?

 No, perché la Chiesa non ha come scopo quello di conquistare il consenso in quanto tale, bensì di custodire l’insegnamento di Dio e difendere la dignità umana, a costo di subire delle persecuzioni.

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